a cura di Alessandra Redaelli
Ilaria Gasparroni ha scelto il marmo per dare forma a una poetica in equilibrio fra tradizione e contemporaneo. Figure femminili di suggestione esplicitamente classica (fino all’acconciatura e ai panneggi) si alternano a pezzi di sapore concettuale, dove il marmo è affiancato a legno, ma anche a oggetti di recupero o a fiori secchi, in un continuo costringere lo spettatore a resettare la percezione e la lettura. Paradossalmente, nonostante la scelta di un materiale così profondamente legato a una concezione solida e solenne della scultura, la sensazione che le opere comunicano è quella di un’intrinseca leggerezza. Leggeri sono i protagonisti di Il bacio, visi ridotti a poco più dell’epidermide, del mento e delle bocche fermati nel momento immediatamente prima del contatto tra le labbra; leggeri sono i frammenti anatomici, quasi ritrovamenti archeologici di un passato lontano: orecchie, volti, mani che afferrano caviglie in misteriosi passi di danza. Un’indeterminatezza che ci lascia appesi al gesto ancora da compiersi (o appena compiuto, come nel crudo e delicato Deflora) e che costringe la nostra immaginazione a colmare i vuoti, a completare la forma, andando a ricercarla dentro di noi.
Ha una cultura classica, Gasparroni, nutrita di letteratura, mitologia, filosofia, poesia, e molto spesso le sue opere si ispirano proprio alla parola – la parola poetica, nello specifico, come nella serie dedicata a I fiori del male di Baudelaire – ricercando il modo migliore per renderne il suono nelle tre dimensioni. Innamorata dei grandi maestri (dai classici della statuaria Greca fino a Michelangelo, Wildt e Rodin “che riesce a rendere nel marmo l’illusione della carne”), l’artista è capace tuttavia di allontanarsene con grazia, in pezzi come Sulle spine, divagazione neosurrealista in cui due scarpette da ballo si rivelano foderate da spine di rosa (mirabile sintesi del ferro da stiro chiodato Cadeau, di Man Ray, della Colazione in pelliccia di Meret Oppenheim e delle performance di Gina Pane) o in vere e proprie costruzioni concettuali come The memory of paper, dove il marmo cambia pelle, diventa carta stropicciata o vecchia fotografia strappata, in un monumento alla fuggevolezza del tempo.
1 – Definisciti con tre aggettivi.
Determinata, perfezionista e riservata.
2 – Qual è stato il momento in cui hai capito di essere artista?
Ho capito di essere artista quando ho iniziato a osservare la realtà con occhi nuovi.
3 – Hai scelto la scultura perché…
Ho scelto la scultura perché per me è l’arte che più rappresenta l’uomo. Noi siamo una forma, l’essere umano è la forma più perfetta in natura. Noi siamo un’immagine a tutto tondo: abbiamo piani, volumi e linee che ci permettono di immergerci in uno spazio e impadronirci della profondità.
4 – L’opera d’arte che avresti voluto realizzare tu.
Sinceramente ne avrei tante… Ma l’opera d’arte a cui sono più legata fin dall’infanzia è Il riposo del pastorello dello scultore Napoletano Raffaele Belliazzi che si trova alla Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno. Un’opera in marmo di estremo virtuosismo tecnico e realismo straordinario. Ciò che mi ha sempre affascinato è la cura meticolosa di ogni singolo dettaglio, dagli abiti fino ai calzari del pastorello. Osservandola con attenzione sembra quasi che la scultura prenda vita.
5 – Qual è il momento più emozionante della tua giornata?
La mattina presto, quando apro la porta del mio laboratorio e lì finalmente sono nel mio mondo.
6 – L’arte è ispirazione o applicazione?
L’arte è “un puro conoscere”.
7 – Chi eri nella tua vita precedente?
Non saprei… Forse per via della mia grande passione per i libri, sarei stata una scrittrice.
8 – Tre qualità che non possono mancare all’artista del Terzo Millennio.
Tanta passione, tanto lavoro e soprattutto essere sempre onesti con se stessi.
9 – Il sogno che non hai ancora realizzato.
Non posso dirlo… altrimenti non si avvera!
10 – La bellezza salverà il mondo?
Così affermava il principe Miškin ne L’Idiota di Dostoevskij.
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