a cura di Alessandra Redaelli
Nata pittrice e chiamata dalla performance come da una vocazione, Giovanna Lacedra ha messo al servizio dell’arte il corpo esile e il viso scolpito per raccontare soprattutto storie di donne e di disagio. Con uno stile elegante, lento, giocato soprattutto sul potere magnetico dello sguardo, e una messa in scena curatissima nella quale ogni oggetto ha una forte valenza simbolica, l’artista affronta temi complessi, urticanti, di cui si fa fatica a parlare. E la sensazione, vedendola lavorare, è che la storia che sta raccontando l’abbia scavata dentro e faccia in qualche modo parte di lei prima ancora di diventare evento creativo. Il tema del cibo e dei disturbi alimentari è una delle sue battaglie da sempre, a partire dalla performance Io sottraggo, nata nel 2011 e ripresa all’inizio di quest’anno a Bologna, alla fiera Booming, dove l’artista ipnotizzava il pubblico ripetendo come un mantra un elenco di cibi di cui specificava l’apporto calorico e sminuzzando alimenti in un piatto senza portarli mai alla bocca, mentre l’atmosfera andava facendosi sempre più angosciante. Anche la violenza sulle donne – con un pezzo terribile e tuttavia delicatissimo sull’abuso all’infanzia come Nonsonomaistataunabambina – torna periodicamente, evidenziando soprattutto la componente psicologica della prevaricazione di genere. Dopo averla portata in scena con L’aspirante, ispirato a una poesia di Sylvia Plath, ne ha fatto il cuore di un lavoro in streaming creato durante questa quarantena: otto ore consecutive in diretta all’interno di un evento di Live Performance Art per portare l’attenzione su una delle problematiche più complesse conseguite al lockdown e all’obbligo di restare in casa, una realtà che ha costretto troppe donne a chiudersi in gabbia con il proprio carnefice.
1 – Definisciti con tre aggettivi.
Liquida, affilata, fragile come un cristallo. E perfezionista.
2 – Qual è stato il momento in cui hai capito di essere artista?
Se sono un’artista lo dirà qualcun altro. Posso però dire che ho capito di avere uno sguardo diverso sulla realtà fin da piccolissima. E l’ho capito quando mi sono accorta di pormi domande e di fare riflessioni, tra me e me, che non ero in grado di condividere con gli altri. Ho certamente capito di avere un talento quando ho iniziato a disegnare, molto presto, all’asilo. Dalle suore, non facevo altro che disegnare. Il foglio bianco era il mio permesso di evasione da una realtà che mi infilava ogni giorno nella tenaglia della mia timidezza. E quando disegnavo, dopo un po’, tutti gli altri bambini si accorgevano di me. Si avvicinavano al mio banco e cominciavano a dire “Wow che bello!”. E improvvisamente io mi accorgevo di esistere.
3 – Hai scelto la performance perché…
Non l’ho scelta. Mi è accaduta come un incontro inaspettato. Una sera, durante una chiacchierata a un vernissage milanese. Pensavo di essere una pittrice. Una pittrice un po’ bloccata, insicura. Ma ho incontrato questo nuovo linguaggio. E mi sono aperta a lui come ci si apre a un nuovo amore: si decide di lasciarsi attraversare, si decide di restare nudi. Ecco, la performance mi ha permesso di starmene nuda di fronte a me stessa e agli occhi del mondo. Mi ha permesso di accettare tutti quegli sguardi su di me. Ho dovuto vincere una grande timidezza e una grande insicurezza durante la mia infanzia e anche durante l’adolescenza. Posso pensare che questo grande bisogno di esprimermi e condividere, questa fame di essere vista e ascoltata che ho accumulato in età evolutiva, si sia trasformata in questa nuova me.
4 – L’opera d’arte che avresti voluto realizzare tu.
Come scultore: Lo schiavo che si ridesta di Michelangelo; come pittore Il peccato di Franz Von Stuck (la versione berlinese); come performer: Rhythm 0 di Marina Abramovic. Invece, un’installazione che avrei voluto pensare io è My bed di Tracey Emin.
5 – Qual è il momento più emozionante della tua giornata?
Quando sento che la mia anima si estende. Quando qualcosa dentro di me si dilata, come una luce. E questo mi accade mentre scrivo qualcosa di mio, di nuovo, che cavalco all’improvviso, o mentre leggo una poesia che mi apre visioni, o ancora mentre spiego un’opera d’arte ai miei studenti. In questo periodo di lockdown, durante il quale sono isolata nella mia casa ravennate e lontanissima da tutti i miei affetti, mi emozionano tantissimo le videochiamate con la mia famiglia che non vedo da mesi o con i miei amici milanesi. Mi commuovono.
6 – L’arte è ispirazione o applicazione?
L’applicazione senza ispirazione non genera arte, ma può dare ottimi risultati. L’ispirazione senza applicazione forse può assomigliare a un profumo che si disperde. Il connubio è senz’altro vincente.
7 – Chi eri nella tua vita precedente?
Una sacerdotessa egizia. A Tebe. Sono stata mummificata come altre sacerdotesse e ricordo che il mio corpo era ricco di tatuaggi protettivi, noti amuleti egizi come la croce Ank, l’occhio di Horus e l’ouroboros. Ero molto magra e tatuata fino al collo. Questi amuleti me li sono fatta tatuare nuovamente in questa vita.
8 – Tre qualità che non possono mancare all’artista del Terzo Millennio.
Un artista deve essere sempre un visionario. E allo stesso tempo deve essere testimone del proprio tempo. La terza qualità: l’intraprendenza.
9 – Il sogno che non hai ancora realizzato.
Diventare madre. Ma vista l’età, rimanderò alla prossima vita. A 43 anni non è più il caso.
10 – La bellezza salverà il mondo?
Per i grandi artisti, per i poeti e per i visionari la bellezza è sempre stata il grande Oriente, lo scenario della salvezza. La bellezza ha salvato spesso gli uomini, ma gli uomini non sempre hanno saputo imparare da lei come salvare il mondo. Forse la bellezza non salverà il mondo, forse non lo ha salvato sino ad ora, ma numerose volte ha salvato me.