Scusa, sono al cinema #13
a cura di Mila Buarque
Violini o musica techno? Lunghi e silenziosi piani sequenza o nervosi movimenti di macchina? Qual è il modo migliore per raccontare il disagio di vivere nei sobborghi più poveri e degradati del mondo? Oliver Hermanus in Endless River sceglie la prima via per raccontarci una storia di solitudine e violenza ambientata nel suo Sudafrica. Un nero, Percy, esce di prigione dopo quattro anni di detenzione. Ad accoglierlo c’è Tiny la giovane moglie. Gilles, un bianco europeo, si trasferisce con la famiglia dalla Francia in una fattoria isolata nella campagna. I loro mondi tragicamente si incroceranno. Il nero ricadrà negli errori del passato. Il bianco vedrà la propria famiglia sterminata e cercherà una disperata vendetta. Quello che ne esce è il ritratto di una nazione dove tutti sembrano passivamente accettare il proprio destino: i giovani balordi che passano le giornate a bere nei pub, i poliziotti impotenti davanti alla violenza, la moglie di Percy incapace di pensare ad un avvenire diverso che non sia la squallida vita che conduce. L’incontro tra lei e Gilles sembrerebbe dare una svolta alle loro esistenze, ma forse è solo un’illusione. Il merito più grande del film ci pare proprio la capacità di raccontare una parte di mondo a noi sconosciuta senza stereotipi, ma il ritmo lento della narrazione e l’insistenza su alcune sequenze in campo lungo lo rendono, con il passare dei minuti, noioso e a tratti irritante.
L’altra via ha scelto invece Claudio Caligari per Non essere cattivo, suo terzo lungometraggio in 30 anni, presentato a Venezia fuori concorso e uscito postumo dopo mille peripezie produttive. Musica techno, conversazioni urlate, ritmo incessante. I problemi di chi è nato e cresciuto nella periferia romana, più precisamente a Ostia, sono simili a quelli dei loro coetanei sudafricani. Mancanza di denaro, abuso di alcolici e droghe di vario genere. La vera differenza sta nell’atteggiamento. Tra violenza, cocaina, risse e aids, tutti i personaggi, anche i più negativi, esprimono la vitalità di chi non si arrende, anche nelle situazioni senza speranza. Il film scorre veloce grazie anche alla bravura di tutti i protagonisti, applaudito alla fine dalla sala commossa.
Ci si confronta invece con uno dei grandi protagonisti della storia con la S maiuscola nel terzo titolo che abbiamo visto oggi Rabin the Last Day di Amos Gitai.
Il film si apre con un’intervista a Shimon Peres, rivale e poi compagno di strada del Primo Ministro israeliano che ricostruisce il clima nel Paese all’epoca dell’attentato che ne causò la morte, per poi raccontare gli ultimi momenti della vita di Rabin utilizzando anche immagini di repertorio, di quel fatidico 4 novembre 1995. Una ricostruzione che continua attraverso le indagini che seguirono all’omicidio, gli interrogatori, i verbali dei processi, e ancora tanti preziosi filmati d’epoca.
Quello che resta alla fine della visione di questo potentissimo documentario è il rimpianto di un uomo con tanto coraggio e lungimiranza politica. E la domanda che sorge spontanea ogni volta che ripercorriamo uno dei tanti bivi che caratterizzano il privato e il pubblico di ciascuno di noi e con la quale si chiude l’intervista a Peres. Oggi la nostra storia e la storia del mondo sarebbero diverse se quel giorno Yitzhak Rabin fosse sopravvissuto?
72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
diretta da Alberto Barbera
organizzata dalla Biennale di Venezia
2 – 12 settembre 2015
Lido di Venezia
Info: www.labiennale.org