INTERVISTA A JOEL PETER WITKIN di Viviana Siviero
Tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n. 69
Corpi porzionati, arti separati da ciò di cui erano strumento, teste come cornucopie abbondanti di frutti: elementi che sembrano la morte eppure rappresentano la vita. Il fotografo americano dallo stile inconfondibile, Joel Peter Witkin, uno dei più grandi artisti del mondo, ha creato un universo parallelo a quello esistente, che con i suoi orrori e le sue debolezze è così reale e vivo da sembrare vero. Il maestro, per raggiungere l’obiettivo, non tenta la strada dell’esteriorità o quella dell’afflato animale proprio dei corpi ancora caldi, ma piuttosto si aggrappa ad altri elementi, che si impossessano dello spettatore profondamente e per sempre. Una volta che si è entrati in contatto con un’opera di Witkin, quell’immagine giocata nella distanza infinita che intercorre fra il bianco e il nero, farà per sempre parte di chi l’ha osservata. Joel Peter Witkin ha un passato prepotente: di madre italiana cattolica e di padre ebreo russo, ha sempre vissuto un rapporto fortissimo con la Religione e i concetti di Dio, di Punizione e Morte; reporter di guerra in Vietnam a 24 anni costruisce immediatamente quel rapporto di normalità nei confronti dell’orrore così caratterizzante nei suoi lavori. Molti sono gli aneddoti che sembrano voler intervenire a giustificare la sua “estetica mortifera”; il più celebre racconta che da piccolo, testimone di un incidente mortale, raccolse la testa di una bambina, credendo fosse un pallone. Ma al di là di tutto ciò, l’unica verità è che Witkin imparò – forse proprio dalle esperienze – che nella vita si deve guardare tutto negli occhi, tanto il bene quanto il male, perché i parametri di giudizio sono fissati dall’uomo e dalle sue paure. Witkin mette in scena veri e propri tableaux vivants in cui si mostrano nani, transessuali e freak di ogni ordine e grado (conosciuti al Circo di Coney Island); donne bellissime in pose mariane si mostrano seriosamente con un bambino fra le braccia ed un grosso fallo in grembo: la realtà è più sfaccettata di quello che l’uomo è propenso a dichiarare, fosse anche attraverso l’arte, che banalmente è un mezzo delle meraviglie, capace di permettere qualunque magia. Witkin sa che il mondo è popolato di buoni e cattivi dichiarati ma anche di mostri dall’aspetto angelico e di angeli esteticamente mostruosi, allontanati perché rappresentano paure inaffrontabili. Non ti curar di loro ma guarda e passa! Witkin impone almeno lo sguardo su tutto ciò che è difficile da guardare, perché sa che il primo passo verso la verità passa per gli occhi; non lo spaventa tentare di far attecchire un seme sul terreno arido che rappresenta l’uomo, perché lui sa che alcune piante dai fiori bellissimi sono capaci di germogliare su di una roccia…
Viviana Siviero: Le sue sono immagini formalmente blasfeme e, com’è ovvio, questa caratteristica non può sussistere senza fede. È nota l’origine di questo immaginario, la cui nascita si ricerca nella sua biografia: ma se il perché è noto, il come non lo è così tanto. Cosa vedere nelle sue opere lo decide ogni spettatore, ma nonostante ciò vorremmo sentire dalle sue parole quali sono gli elementi costituenti la sua poetica.
Joel Peter Witkin: Tutto il mio lavoro è intriso della mia fede cattolica. Voglio essere ricordato come un artista cristiano in un’epoca secolare.
La realtà che ci circonda, le sue delizie e i suoi orrori in che modo vengono filtrati nei suoi lavori? Cosa le interessa del mondo al punto da trasformarlo in messaggio?
Una volta Warhol ha detto che l’arte è ciò con cui puoi permetterti tutto. Questa filosofia così vuota è la base dell’arte post-moderna, dell’arte così detta del “materialismo”. La mia vita ha un senso quindi anche il mio lavoro ce l’ha. La mia realtà è il significato e il messaggio di Cristo.
E del mondo dell’arte? Ho letto che ama particolarmente Beato Angelico, Rembrandt e Goya…
Questi tre uomini hanno onorato Dio e l’uomo nel loro lavoro: Fra Angelico è stato il più grande pittore del “Sublime”, Rembrandt il più grande del “Realismo” e Goya rappresenta la “coscienza dell’uomo occidentale”.
Inno alla vita attraverso la morte, immagini forti, eccessi dichiarati che affondano con evidenza le proprie radici in esperienze dirette e per nessun motivo nascoste: lei desidera donare a chi ha il coraggio di guardare, ciò che la vita ha donato a lei, che ha dimostrato di aver sempre avuto il coraggio di vivere: le sue opere sono spesso criticate per motivi etici. I suoi soggetti deformati, a volte partono dalla bellezza di un corpo sinuoso, altre volte da porzioni di cadaveri mai reclamati e da lei poi utilizzati come in una sorta di set, e che tornano alla vita grazie all’eternizzazione dello scatto fotografico… Cosa pensa di se stesso e cosa risponde a chi “la critica” per l’uso che fa della realtà?
Fotografo la storia della civiltà Occidentale nelle sue meraviglie e nei suoi orrori. Il lavoro dell’artista è “catturare” la vita e mostrare la sua visione nel modo più chiaro e onesto possibile. L’arte nasce da questo sincero desiderio, comunica attraverso la sua serietà d’intenti e forza. Ai critici dico di tenere la testa fuori dalla sabbia. La storia dell’uomo è, per larga misura, un fallimento. Ognuno di noi lo sa ma chi darebbe la sua vita per cambiarla e renderla migliore? Ho un unico punto di vista che è basato sul mio amore per la vita e le persone. La mia visione è positiva e impegnativa come tutta l’arte dovrebbe essere.
Uno dei punti nodali del suo lavoro è rappresentato da una tecnica stilisticamente iconica: uno scatto che viene sviluppato in camera oscura e poi graffiato e ibridato con infiniti interventi come la coloritura e il collage, che fanno sconfinare il lavoro in pittura e performance; che ruolo riveste nella sua poetica il medium e come lo considera a livello di possibilità creative? Come si è approcciato ad esso?
Credo nella fotografia in quanto specchio della vita come in nessun altro medium visivo. Porto nel mio studio la vita, anzi il mondo, in modo da creare bellezza e significato attraverso la fotografia.
Il pubblico italiano la ama molto, che cosa pensa dell’Italia in generale e del pubblico milanese, lei che è di origini italiane ed è venuto molte volte in Italia a presentare il suo lavoro?
Le mie origini italiane hanno fatto di me un romantico e sono molto orgoglioso di questo. Amo gli italiani ma non riesco a capire perché hanno dei buffoni che li governano (George W. Bush è stato il nostro buffone!).
Ci può dire su cosa sta lavorando in questo periodo e darci qualche anticipazione sugli appuntamenti che la vedranno impegnato nei prossimi mesi?
Attualmente sto preparando un progetto di lavoro ad Istanbul, lavorando a un “Libro Maestro” con Robert Delpire a Parigi e programmando una retrospettiva alla Biblioteca Nazionale di Parigi il prossimo anno.
Joel Peter Witkin è nato a Brooklyn (New York) nel 1939
Fotografo statunitense, comincia a scattare fotografie all’età di sedici anni e l’anno dopo Edward Steichen, sceglie una delle sue opere per includerla nella collezione permanente del MOMA di New York. Dal 1961 al 1964 si arruola nell’esercito americano come Combat Photographer, le sue missioni lo portano sia in Europa che in Vietnam. Al suo ritorno negli Stati Uniti, si laurea in Storia dell’Arte alla Cooper Union School of Art di New York.
La sua formazione artistica, unita agli interessi per i codici della ritualità condiziona la sua produzione fotografica, costituita per lo più da Vanitas, che definisce un soggetto iconografico, che può essere riconducibile al genere della “natura morta”, caratterizzato dalla presenza di oggetti in relazione alla vanità della condizione umana. Attraverso la fotografia, Witkin scopre il modo con cui raccontare il lato della vita che si nasconde nelle sfumature della diversità.
Witkin torna ad esporre in Italia da Ca’ di Fra’ Arte Contemporanea – dopo la personale da Ca’ di Fra’ nel 2007 e la grande mostra al PAC del 2008 – presentando
una quindicina di opere realizzate negli ultimi due anni, insieme ad alcuni lavori inediti ideati appositamente per l’appuntamento milanese.