TORINO | Weber & Weber | 12 gennaio – 25 febbraio 2012
Intervista di MATTEO GALBIATI a GABRIELE CROPPI
In occasione della nuova mostra personale presso Weber & Weber – incentrata sull’ultimo ciclo di suoi lavori – incontriamo Gabriele Croppi per un breve confronto sugli aspetti più recenti della sua ricerca fotografica, di cui lui è sicuramente uno dei maggiori e più promettenti interpreti della nuova generazione.
Matteo Galbiati: Il titolo allude esplicitamente alla Metafisica, cosa intendi per metafisica? Dove come si verifica nel paesaggio urbano? Come la interpreti?
Gabriele Croppi: Ad un livello più immediato ed estetico mi pare abbastanza ovvio il rimando ad una certa tradizione pittorica italiana, quella di Sironi e De Chirico in primis. Ma a monte di tutto questo, la metafisica è la possibilità di andare oltre il reale apparente delle cose, scoprendo o ipotizzando significati e suggestioni che le trascendono. Ci sono momenti, nell’arte e nella vita, in cui ciò che chiamiamo realtà è avvolto da una patina di mistero che non possiamo comprendere od afferrare. C’è qualcosa che trascende la fisicità che ci circonda. È una sensazione molto difficile da descrivere, ma è già stata magistralmente impersonata dai solitari personaggi kafkiani (penso, soprattutto, ai primi capitoli de Il Castello), o rappresentata in alcuni dipinti di De Chirico, Sironi, Magritte. Early Sunday Morning è l’opera di Edward Hopper che ci descrive meglio questa sensazione: e la possiamo verificare tutti, passeggiando la domenica mattina presto in una qualsiasi città.
Quale versione dai del paesaggio attraverso la fotografia? Quali vicinanze e modelli hai presente e quali elementi di novità proponi?
L’elemento di novità più rivoluzionario che propongo è il rifiuto della novità. I concetti di invenzione, novità, originalità, sono del tutto estranei alla mia arte e alla mia poetica. Li trovo anacronistici, retaggio di un’epoca lontana – quella delle avanguardie – in cui il progresso e la novità avevano fondamenti e riscontri in tutti i settori della società e della vita. Oggi quell’epoca non esiste più e ne stiamo vivendo un’altra (quella della post-modernità -peraltro già in declino-) che si basa su altri valori: la contaminazione, la multidisciplinarità, le tecniche parodistiche di ri-uso dell’arte preesistente. La mia fotografia è tutto questo: una media astratta fra il mio passato e il passato della società e della cultura in cui vivo, in una dimensione organica, mutevole, sensibile alle influenze, agli incontri, al caso.
Quali sono gli aspetti profondi che muove la ragione di questi opere?
Una delle ragioni è quella di aver sentito l’esigenza di un ritorno ad un registro fotografico più tradizionale. Senza, naturalmente, rinunciare alla ricerca di un linguaggio contemporaneo. L’avvento del digitale ha portato un’ubriacatura generale che ha portato la fotografia su binari percorsi con grande anticipo dalla pittura, e forse anche ad una perdita di identità. Ho sentito l’esigenza di un recupero di questa identità, non tanto come operazione nostalgica, ma come ri-attualizzazione di alcune caratteristiche peculiari del medium fotografico nella nostra contemporaneità. La più interessante di queste caratteristiche è quella che mi piace definire come “presunzione realistica”, generatrice di fraintendimenti ed ambiguità che reputo molto interessanti da un punto di vista artistico.
Cosa concedi all’osservatore?
Tutto. La mia concezione di critica, fruizione, significazione dell’opera non può prescindere dall’osservatore. Ma anche dal contesto geografico, culturale e sociale in cui questi processi avvengono. Mi affascina molto la natura polisemantica delle immagini e la possibilità che moltissimi fattori, spesso indipendenti dalla volontà artistica che le produce, possano modificarne il senso.
C’è spazio per una dimensione umana in questi ambienti che paiono esserne invece privati? Dove e come la troviamo?
Dal punto di vista estetico e poetico è proprio la presenza umana a dare un senso alla dimensione metafisica che ricerco nelle mie opere. Nel rapporto dialettico con le forme architettoniche ma anche, in maniera più indipendente, nel fascino misterioso e nel potenziale narrativo che i personaggi delle mie immagini contengono. Il mio tentativo è sempre quello di non svelare, di non imporre significati, ma di suggerirli e di creare le condizioni per favorire un contributo esterno che determini una storia, un significato, un interrogativo. In tutto questo credo ci sia molta umanità: quella mia, di artista, che tende una mano verso l’esterno, e quella di chi raccoglie questo invito con la propria soggettività, la propria immaginazione, il proprio background culturale.
Osservando questi scatti pare avere grande rilevanza la dimensione del tempo. Cosa implica l’intervento di una temporalità particolare?
La fotografia ha, per statuto, una temporalità particolare, che è quella di registrare una frazione di tempo che – nella maggior parte dei casi – è impercettibile all’uomo. Si potrebbe dire, per semplificare, che la fotografia è vincolata a delle precise coordinate spazio-temporali, già definite in maniera sintetica nel concetto del ça est etè barthesiano. Ma questa è solamente una delle possibili prospettive da cui considerare l’aspetto temporale della fotografia. Se facciamo un passo indietro e consideriamo, ancora una volta, la fotografa come oggetto di comunicazione (e non come un feticcio chiuso in sé), aprendoci al contributo di chi osserva, allora scopriamo che ogni immagine ha un potenziale di infinite soluzioni spaziali e temporali: esiste sempre un “prima” e un “dopo” l’azione fissata in un fotogramma. È il tempo di chi osserva, di chi immagina, e che spesso è indispensabile per completare il significato di alcune opere.
Nell’interpretazione della fotografia ricorri anche all’uso della tecnologia: quale rapporto hai con il mezzo tecnologico?
Ho un bel rapporto, e lo utilizzo in maniera funzionale alle mie esigenze, cercando di evitare sperimentalismi fini a se stessi, troppo invasivi e riconoscibili.
Quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro? A cosa stai lavorando?
Da gennaio 2012 partirà da La Spezia e con diverse altre tappe europee una mostra itinerante sul mio lavoro dedicato al tema della Shoah (Shoah e postmemoria, 2009-2012), in collaborazione con la Casa Editrice Sonda, Logo Video, e il contributo critico di Marianne Hirsch, della Columbia University. A marzo 2012 inaugurerò una mostra a Padova, dedicata ai 20 anni della Fondazione Cariparo. Da maggio 2012 e fino al 2013 partirà dalla Casa della Fotografia di Amburgo, proseguendo per Parigi, Lucca e Oslo, una mostra itinerante nell’ambito dell’European Photo Exhibithion Award, un premio che mi è stato assegnato nel 2011 e che mi ha permesso di far parte di un team di 12 fotografi europei impegnati a realizzare un progetto fotografico sul tema dell’Identità europea. Parallelamente, continuo l’insegnamento presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano, in un seminario intitolato Metafisica del Paesaggio Urbano.
Gabriele Croppi. Metafisiche
a cura di Chiara Buzzi
Weber & Weber Arte moderna e contemporanea
via San Tommaso 7, Torino
12 gennaio – 25 febbraio 2012
Orari: da martedi a sabato ore 15.30-19.30
Info: +39 011 19500694 – info@galleriaweber.it
www.galleriaweber.it