a cura di Flaminio Gualdoni
GORGONZOLA (MI) | M&D arte | 8 dicembre 2011- 19 febbraio 2012
“Queste foto, immagini sacre, che le persone appendono o piazzano in casa, sono proprio le immagini legittime che noi utilizziamo qualche volta per l’arte, e con cui forse facciamo qualcosa di illegittimo”.
Così ragionava Gerhard Richter, l’autore che più lucidamente, nella tarda modernità, ha saputo concentrare l’attenzione del proprio ragionamento artistico non sulle questioni di legittimità estetica della fotografia, e men che meno tecnica, ma sulle convenzioni di aspettativa e di sguardo che ciò ha comportato e comporta.
Che la fotografia sia strumento autenticato dell’arte, è fatto noto almeno dall’‘800: basti dire di Corot. Che essa sia qualcosa di più di una mera modalità tecnica, ma possieda un’identità espressiva specifica che i decenni hanno ben delineato, è fatto che le consapevolezze di oggi hanno largamente acquisito.
In gioco sono la natura e la ragione dell’immagine, con quel suo essere visione in statuto primario di somiglianza e convenzione retorica del far vedere, rappresentazione e coagulo autonomo di senso; il suo grado implicito di narratività ed emblematicità; la puntualità temporale e la comprensività spaziale del suo essere. La possibilità, ancora, di convocare dal codice pittorico una qualità altra rispetto all’ordinario sensibile, per via di facoltà astrattive ed enunciative, di coagulo d’una interna durata psicologica di percezione e interiorizzazione: qualcosa che rimonti al valore di eidolon, “doppio” oggettivato che può tenere, insegnano gli antichi, dell’ombra e del sogno e dell’apparizione, non solo del sensibile d’esperienza.
La questione centrale diviene dunque quella d’uno sguardo che non si fondi soltanto su saputi trasmessi acriticamente, e men che meno per via tecnica, ma che rivendichi a se stesso un ruolo lucidamente attivo nella sostanza d’immagine.
[…]
È notevole osservare come le stagioni in cui la fotografia si fa protagonista del dibattito artistico sono quella entre deux guerres, e poi quella che s’avvia con Warhol e ed Ruscha e che s’inoltra sino a oggi. Sono stagioni in cui massimamente si pone la questione della destinazione socialmente funzionale, a partire dalla comunicazione, della cosa d’arte, che troppi malintese affermazioni di autonomia hanno reso estranea, finanche superflua, senza che in cambio se ne consolidasse un’altra ragione condivisa. Ovvero, quelle in cui l’alterità inderogabile del senso ha preteso, o presunto, o sperato, di istituire una nuova possibile liaison – non importa se complice o agonistica – con il riguardante: chiedendo un’attenzione, per evocare Simone Weil, che dunque sia sguardo, sguardo consapevole di se stesso e dell’altro, e non mera adesione.
[…]
Che la stagione più cospicua, in termini di pratica e di riconoscimento della fotografia in arte, sia stata quella successiva all’affermazione della pop art, quando dunque sono entrate nel croguiolo della riflessione questioni come la cultura dichiarata bassa a fronte di una autoproclamata alta, le mutate condizioni psicologiche di lettura e appropriazione intellettuale ed emotiva dell’immagine a seguito dell’ipertrofia mediatica, una scala di gradi d’evidenza e di capacità comunicativa in cui il contesto si fa prevalente sull’immagine in se stessa, è un fatto per molti versi fondante delle esperienze che dagli anni ’60 e, più, dai ’70, sono maturate.
La mostra ragiona, ovviamente senza alcuna pretesa d’essere esauriente, né classificatoria, sullo spettro amplissimo delle pratiche. Lo sguardo narrativo e partecipe che discende dalla cultura radicata del reportage e quello freddo, inemotivo, iperretoricamente documentario. Il confine ambiguo con l’immagine glamour e la visionarietà che s’inoltra nella ridondanza retorica. La situazione costruita e il dialogo critico con il concetto pittorico di genere. L’evidenza scarna e la manipolazione complessa, l’artificio esibito. Il popism accelerato e la sottigliezza del vaglio concettuale.
Tutto ciò, insomma, che riguarda oggi la possibilità dell’opera artistica di farsi ancora luogo d’un valore possibile, d’una interrogazione lucida, d’un senso, indipendentemente dalle sue stesse condizioni storiche di formulazione, o meglio, tenendo conto della loro estrema variabilità e contraddittorietà. [estratto dal testo critico “A meno di non ricorrere a una fotografia” di Flaminio Gualdoni]
“A meno di non ricorrere a una fotografia”
a cura di Flaminio Gualdoni
M&D arte
Via Monsignor Cazzaniga 43, Gorgonzola (MI)
Info: +39 02 95305926
Inaugurazione giovedì 8 dicembre 2011, ore 18.00
8 dicembre 2011 – 19 febbraio 2012
Autori: Nobuyoshi Araki, Stefano Arienti, Mattew Barney, Matteo Basilé, Bernd e Hilla Becher, Vanessa Beecroft, Monica Bonvicini, Gregory Crewdson, Sante D’Orazio, Maurizio Galimberti, Robert Gligorov, Nan Goldin, Andreas Gursky, Candida Höfer, Kim Joon, Huang Kehua, Seydou Keïta, David Lachapelle, Loretta Lux, Sally Mann, Robert Mapplethorpe, Tracey Moffatt, Yasumasa Morimura, Vik Muniz, Shirin Neshat, Helmut Newton, Luigi Ontani, Steven Parrino, Andreas Perlick, Paola Pivi, Arnulf Rainer, Gerhard Richter, Thomas Ruff, Sebastião Salgado, Jan Saudek, Andres Serrano, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Jemima Stehli, Thomas Struth, Hiroshi Sugimoto, Wolfgang Tillmans, Grazia Toderi, Giovanna Torresin, Paolo Vegas, Massimo Vitali, Andy Warhol.