INTERVISTA DI LUISA CASTELLINI
tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n.65
Guai a chiamarlo artista. Gianni Berengo Gardin è un fotografo ed è fiero di esserlo. Perché nel tempo sarà attraverso la fotografia che risaliremo la china delle domande sulla nostra storia. Storia fatta di sguardi e orizzonti sul mondo, in primis umano. Sui cancelli dei manicomi, quando ancora dovevano aprirsi, sugli operai nelle loro fabbriche, mense e case, sugli zingari e la loro barocca Disperata Allegria, nei cantieri più moderni, nei portici o in un pizzico di spiaggia. Alla ricerca di quell’istante decisivo codificato da Cartier-Bresson ma con la consapevolezza che in realtà non esiste. È il fotografo a farlo, e nessun altro. Oggi Gianni Berengo Gardin continua a camminare abbracciando la sua Leica e mette in guardia dallo scatto facile quanto dai pretesti. Perché l’etica in fotografia non è oggetto di discussione. Almeno con lui.
Luisa Castellini: La mostra in corso da Ca’ di Fra’ – che segue quella istituzionale, Peggy Guggenheim, la casa, gli amici, Venezia tenutasi a Vercelli – è il frutto di un rapporto privilegiato, in questo caso con Venezia. Quali sono i luoghi cui è più legato?
Gianni Berengo Gardin: Mi sono occupato moltissimo di paesaggio ma quello che amo sono le persone: il reportage, i ritratti. Per questo nell’indagine dei luoghi cerco comunque di inserire la presenza umana. Ho girato tutta l’Italia, lavorando 15 anni per il Touring Club, ma anche l’Europa – sono legatissimo a Gran Bretagna e Francia – e non solo: l’India, ad esempio, ha inciso molto sul mio pensiero.
La sua ricerca sull’uomo corre dal reportage al ritratto: quale ruolo gioca lo sguardo – la complicità o meno con il soggetto e a posteriori quello del fruitore – nell’economia della foto?
I miei ritratti di vip sono pochi. Si è sempre trattato di amici e per questo non sono molti. Io fotografo la gente, chi s’incontra per strada tutti i giorni. Non sempre nell’economia dello scatto l’intesa con il soggetto rende la foto buona. Anzi, nella maggior parte dei casi non c’è relazione e si approfitta della situazione ma senza venire meno all’etica. Che è la qualità più importante in un fotografo. Oggi molti lo sono definiti a torto: improvvisano, vanno a caccia di un certo tipo di gossip che nulla ha a che vedere con i paparazzi della Dolce Vita. Sono, in sintesi, il prodotto della domanda. Io ho sempre agito nel rispetto di chi avevo di fronte: in ogni manicomio dove sono entrato con Carla Cerati (Morire di classe, 1969) spiegavamo prima ai ricoverati perché volevamo fotografarli.
Quanto ha di vero l’etichetta di Neorealismo?
In fotografia non esiste, aveva un senso al cinema come risposta all’invasione hollywoodiana. Ma la fotografia era “Neorealista” anche ai tempi della Farm Security Administration e lo è oggi.
Oggi molti giovani fotografi – e ancor più artisti visivi – vanno a caccia di rovine industriali quando un tempo nei luoghi di produzione si entrava. Dal processo si è passati alla maceria?
Una volta il reportage di fabbrica era una tradizione: ho lavorato in Olivetti, Italsider, nei cantieri di Piano. Le aziende oggi al massimo fanno pubblicità al prodotto. Si è spenta una cultura, anzi tutto del fare: basti pensare a Olivetti, alle sue mostre d’arte, agli architetti coinvolti per le fabbriche, le mense e le case degli operai. La mentalità è cambiata e il profitto è diventato l’unico obiettivo così i fotografi vanno in Africa con le ONG a cercare bambini con gli occhi sgranati.
La fotografia è e deve restare un documento anche se dai giornali è approdata al mondo dell’arte?
Non è “solo” un documento e può darsi che una mia fotografia sia così bella da essere considerata un’opera d’arte. Ma non devo essere io a dirlo e se è acquisita dal MoMA è un riconoscimento al mio lavoro e non alla mia opera.
Unico fotografo citato da Barthes in The image and the Eye… come ha influito il dibattito teorico sulla fotografia?
Le ha giovato moltissimo. Fino a poco tempo fa era, fotografi compresi, quasi merce di scarto. Oggi è tutto diverso e l’attenzione ha condotto a un concreto livello di crescita culturale.
Come è mutato il suo modo di lavorare? Qual è il rapporto che s’instaura con il mezzo e come questo incide sul processo?
Ho sempre usato la Leica per i grandangoli e la Nikon per i tele. Pellicola in bianco e nero: ho usato il colore per il TCI e nei cantieri di Renzo Piano, mai per il reportage e le persone. Fotografare con la Leica significa un rapporto. Non si tratta di una macchina qualsiasi, ha una storia alle spalle e quando si usa si avverte questa responsabilità.
Con il digitale come viene meno la fiducia tra immagine e spettatore…
Elliott Erwitt ha detto che Photoshop uccide la fotografia. Nel reportage non sai più cosa hai di fronte. Per noi e il pubblico è una realtà, non qualcosa costruito la sera a tavolino.
In Usa da tempo si chiede una dichiarazione quando si commissionano servizi. Se si usa il ritocco per pubblicità o per fantasia non c’è nulla di male, ma deve essere chiaro perché si tratta di un’immagine e non di una fotografia. Che è tutta un’altra cosa. Sulle mie metto un timbro, che è stato copiato da molti fotoamatori.
A cosa porta lo scatto per tutti e quali sono le discriminanti tra analogico e digitale? Crede che il 3D influenzerà la fotografia?
Stampo fotografie da negativi di sessant’anni fa e sono perfette: quanto dureranno i file digitali?
È una domanda che ci si dovrebbe porre mentre si riconosce che la stampa in b/n da negativo è ancora superiore. Il digitale ha vantaggi tecnici in velocità di scatto e invio ma è anche più caro: le macchine e i sistemi di lettura devono essere sempre aggiornati. Certo, ha avvicinato il pubblico alla fotografia, ma come? Si schiaccia e non si pensa e lo schermo fa perdere tempo perché nasce il vizio di vedere subito lo scatto perdendo l’attimo dopo. Senza dimenticare che non si stampa quasi più nulla. Credo che il 3D avrà seguito al cinema e non in fotografia ma chissà, mai dire mai…
Lo scenario del fotogiornalismo è molto cambiato. Oggi “Il Mondo” di Pannunzio è un ricordo e una bella citazione e solo “L’Europeo” e qualche femminile conservano il reportage. In quale modo questa mancanza nuoce alla nostra cultura?
Pannunzio per noi, allora giovanissimi, è stato un grande maestro di fotografia ma soprattutto di vita. Non solo vi pubblicavamo ma lo leggevamo: c’era una formazione culturale. Adesso è un ricordo e un fiore all’occhiello di fotografi che magari vi hanno pubblicato una sola volta e l’editoria ha cambiato rotta. Si offre il gossip che è accettato di buon grado e la qualità passa in secondo piano.
Alla fuga dei cervelli mediaticamente riconosciuta corrisponde infatti anche quella dei fotografi.
Quasi tutti i giovani italiani sono andati a lavorare alla Magnum o per conto di testate straniere. A resistere sono rimasti Cito e Salietti. Oggi il sociale come lo intendevamo non è più materia da giornali. Ma l’interesse del pubblico per il reportage non si è sopito e lo dimostra il pubblico con la sua massiccia partecipazione alle mostre.
Come valuta la situazione attuale della fotografia e come immagina il suo futuro?
Finché ci siamo noi “vecchi” a continuare la tradizione di una certa fotografia si andrà avanti. Poi non lo so proprio, perché i giovani sono pochi. Penso poi all’attualità in senso più ampio e che dire… per un niente si uccide.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Sto lavorando a un libro su Figline Valdarno, a un progetto su una cascina piemontese e ho appena iniziato un lavoro complesso, a quattro mani con Donatella Pollini, su ciò che resta della Resistenza, che vedrà la luce tra due-tre anni.
Una fotografia persa e un reportage ancora da fare.
Di perse forse ce ne sono migliaia ma ne ho rimosso il ricordo: ho scattato subito dopo. Da fare ce ne sono troppe. Un lavoro serio dura dei mesi e per i giornali non potrebbe essere più realizzato. Farei un reportage sui giovani nel bene e nel male. Ci sarebbe più male, ovviamente, perché è lampante. È il bene che non si vede.
Gianni Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel 1930.
Ha iniziato a occuparsi di fotografia nel ’54 e dopo aver vissuto a Roma, Venezia, Lugano e Parigi, nel ’65 si è stabilito a Milano dedicandosi al reportage, all’indagine sociale, all’architettura e all’ambiente. Ha collaborato con testate di stampa illustrata italiane e straniere – tra cui “Il Mondo” dal ’54 al ’65 – e ha realizzato oltre 200 volumi fotografici lavorando anche con il TCI (1966-83), l’industria (Olivetti, Alfa Romeo, Fiat, IBM, Italsider, etc.) e insieme a Renzo Piano. Moltissimi i premi e i riconoscimenti: World Press Photo (1963), Premio Scanno (1981), Premio Brassaï (1990), Leika Oskard Barnack (1995), Oscar Goldoni (1998), Città di Trieste (2005), Werner Bishof (2007). Nel 2008 si è aggiunto il Lucie Award, vinto prima di lui da Cartier-Bresson, Parks, Klein, Ronis e Erwitt. Le sue fotografie sono nelle collezioni di MoMA, Bibliothèque Nationale, MEP, etc. e ha esposto in tutto il mondo, a Photokina di Colonia e alla Biennale di Venezia, di recente a Palazzo delle Esposizioni (Roma, 2001), MEP (Parigi, 2001), Forma (Milano, 2005).
Da ricordare la recente mostra Gianni Berengo Gardin – Peggy Guggenheim, la casa, gli amici, Venezia, a cura di Pina Inferrera (Arca, chiesa di San Marco, Vercelli, 16 ottobre – 10 dicembre 2009).
Eventi in corso:
Peggy e Venezia
Galleria Ca’ di Fra’
Via Farini 2, Milano
24 giugno – 31 luglio 2010
Inaugurazione 24 giugno
h 18.00/21.00
Dall’alto:
Ritratto di Gianni Berengo Gardin. Foto di Colomba D’Apolito
“Venezia 1958 – Taxi”, 2009, cm 40×30
“Venezia 1958 – Regata storica”, 2009, cm 30×40