INTERVISTA A FRANCO FONTANA di Luisa Castellini
Tratto da Espoarte Contemporary Art Magazine n.66
«Il coraggio è vivere la vita per quello che sei e non per quello che vorresti essere, rispettando la tua natura. La pecora fa bee il lupo morsica e così io… ho il mio carattere latino». Carattere, identità, linguaggio. Così le parole di Franco Fontana, concrete e immediate, ma soprattutto le sue immagini, che pongono lo sguardo di fronte a orizzonti di senso prima ignoti. Il colore, certo, di cui è maestro, saturo come solo una visione interiore può essere. E il legame con quella tradizione prospettica che se nel mezzo fotografico ha trovato la sua massima espressione con lui ha dovuto abdicare alla propria egemonia. Ora ricondotta all’unità della visione nei paesaggi tra à plat e senso della materia adesso riletta nelle ombre che si insinuano su orizzonti antropizzati o su corpi senza età che giocano con riflessi al cloro. «Il tempo non esiste» e l’istante si fa processo: continuità. Così nella recente indagine di un luogo sacro, della terra del culto di chi è scomparso: unico spazio in cui la visione naturale segue il placarsi del respiro facendosi meno accecante, Fontana trova. La polvere che accarezza corpi sensuali come non mai nel decretare l’eterno legame tra Eros e Thanatos e l’oltre. Soglie-finestre che nell’assenza di coordinate diventano simulacro, ombre di se stesse. Scoprendo d’un fiato di poter essere tutto il resto.
Luisa Castellini: Lungo il Camino per Compostela ti sei confrontato con rotte e vite, mentre il Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova è una concentrazione di senso in uno spazio definito: è stato differente il tuo approccio rispetto a questi due poli del sacro?
Franco Fontana: Si tratta sempre di cancellare per eleggere. In ogni situazione cerco la significazione, la sintesi delle cose affinché da oggetto diventino soggetto. La materia prima è a disposizione di tutti: con un pezzo di marmo si può realizzare un fermacarte o la Pietà di Michelangelo, con le parole scrivere la cronaca di una partita di calcio o la DivinaCommedia con lo stesso alfabeto. Così in fotografia. Io non ho mai illustrato nulla: ho sempre cercato di esprimermi con una fotografia “creativa”, che testimonia quello che vedo in funzione di ciò che vorrei che fosse. Ho lavorato su tre tipi di rotte “storiche”: sull’antichissima Via Appia e sul Camino di Compostela e poi sono approdato alla contemporaneità, ai colori ruggenti della Route 66. Durante questi viaggi ho interpretato, testimoniando la realtà di quelle strade.
In quale modo il processo di selezione influisce sulla percezione e innesca nuovi processi di significazione?
Il teleobiettivo annulla la prospettiva e porta tutto sullo stesso piano bidimensionale. Tutto corre sulla doppia dimensione e permette un avvicinamento diverso di quanto prima si smarriva in una materia infinita. Sono ricorso alla prospettiva, non a caso solo in certi lavori, quando è entrata in campo la figura umana, fosse questa simulacro, ombra o nudo.
Nella tua ricerca il colore è un’alchimia: con la saturazione hai svelato, o meglio creato, una natura che prima non esisteva. Per l’economia dello sguardo è quindi sempre necessaria una scelta?
Il colore è più difficile del b/n, che è un’invenzione nata perché la realtà non è mai accettata per quello che è a livello creativo. Il mio colore non è un’aggiunta cromatica al b/n ma diventa un modo diverso di vedere essendomi liberato da quelle esigenze spettacolari che hanno caratterizzato la fotografia a colori, accettando il colore come un traguardo inevitabile nell’evoluzione della fotografia. Come ogni cosa non va registrato ma significato, altrimenti resta una semplice cromia. Come fotoamatore ho sperimentato anche il b/n ma alla fine ho scelto il colore – mentre il diktat era b/n – perché è la realtà, è il mondo come lo percepiamo e il compito della fotografia creativa non è illustrare o rappresentare ma esprimere.
Come è cambiato il modo di lavorare con l’evoluzione tecnologica?
Quando mi chiedono che macchina uso dico questa – battendosi la mano sulla testa,ndr – e rispondo con un’altra domanda: che macchina vuoi che usi? È come chiedere a un poeta con che penna scriva per sentirsi rispondere… con la Mont Blanc! Il progresso debutta sempre come una bestemmia per poi finire sulla bocca di tutti. Io uso la macchina fotografica come la biro per scrivere. Ne ho di iper-sofisticate ma non m’interessa: le uso come se dentro ci fosse la pellicola. Certo, la tecnologia ci conduce verso nuove condizioni e il fotografo può mettere col computer – che io non so neppure accendere – quello che vuole nell’immagine ma non risolve alcun problema. Nella macchina fotografica come in tutto il resto serve sempre un’intelligenza. Bisognerebbe smettere di domandare come si fanno le cose ma perché si fanno.
Il digitale permette anche di plasmare il tempo…
Il tempo non esiste e rispondo con un mio lavoro: ho fatto un libro con Piero e Alberto Angela, Il paesaggio che verrà (F.C. Panini, 2000), mettendo insieme due verità. Terre e cieli diversi trovati in luoghi differenti, per creare un nuovo diverso. Non si tratta di un falso ma di un’interpretazione, di una visione che si concretizza grazie a una tecnologia che permette di dare corpo a immagini che ci sono ma non ancora viste inventando il reale in un’altra realtà.
Da sempre si discute dei rapporti più o meno edipici con la pittura: sul tuo lavoro sono state chiamate in causa a ragione eco informali e astratto geometriche?
Pittura e fotografia sono storie e processi differenti nell’interpretare la realtà. L’astrazione in fotografia è il modo di vedere del fotografo mentre la pittura iniziasempre dal vuoto, da una tela bianca e il soggetto rimane sempre astratto inquanto realtà di pensiero. Il fotografo è legato con un cordone ombelicale alsoggetto e ovunque vada registra una porzione di realtà, al contrario del pittoreche interpreta il suo pensiero.
Qual è il ruolo del dibattito teorico?
La riflessione sulla fotografia è stata ed è importantissima: basti pensare a Vaccari con L’inconscio tecnologico. Ha condotto un lavoro di pensiero concettuale, di significazione. Oggi molti articolano la propria azione: io sono molto spontaneo e concreto è il mio pensiero nei lavori.
Come hai coniugato la tua ricerca ai lavori per la moda, la pubblicità e i tanti committenti?
Mi sono dedicato alla pubblicità soprattutto quando non era ancora maturato un mercato della fotografia. Oggi non me ne occupo più salvo rare eccezioni, come tre anni fa per Hermes. Fare campagne pubblicitarie è tutt’altro che facile. Ho lavorato per molti committenti e non “solo” come fotografo. Gestivo il processo, creavo l’immagine e la campagna, per cui operavo in totale libertà creativa. Ho anche collaborato con i Ministeri di Francia, Germania e Giappone. Ad esempio in Germania il Cancelliere Schmidt ha utilizzato una mia immagine per un suo libro, mentre la Francia ha usato un paesaggio per un manifesto promozionale per la diffusione del pensiero francese nelle ambasciate: una spiaggia sul Gargano. Per il Ministero della Cultura giapponese ho realizzato un lavoro sul loro artigianato. Questo significa che le mie immagini non sono un documento, non hanno geografia o nazionalità. S’iscrivono nell’immaginario perché sono fotografie di pensiero, archetipi. D’altronde se fotografi quello che vedi non fotografi niente. Lo ripeto spesso ai miei studenti: fotografa quello che pensi…
Da tempo conduci seminari e workshop in tutto in mondo: come vivi questa dimensione?
L’insegnante normalmente conduce verso quello che conosce e sa fare: è così che si rischia di fare fotografie di fotografie. Io faccio il “maestro”: porto davanti alle cose e poi ciascuno deve vederle e interpretarle. Questa è la cosa più importante: insegnare a essere se stessi e non qualcun altro, il Franco Fontana della situazione. Ho tenuto workshop in tutto il mondo: dal Guggenheim all’Institute of Technology di Tokyo, all’Accademia d’Arte di Bruxelles. Adesso opero alla Luiss a Roma, al Politecnico a Torino e al Toscana Foto Festival: il mio metodo è sempre lo stesso ed è raccolto in un libro. Non si tratta di corsi di fotografia ma di seminari, durante i quali si cerca di identificare la propria sensibilità testimoniandola in autonomia.
Come ti rapporti ai giovani fotografi che incontri durante i corsi?
La gioventù non è sulla pelle ma nella testa e ogni workshop me lo conferma: sono io a mettere entusiasmo, a spingerli a muoversi. Forse dipende dal fatto che alla loro età noi dovevamo conquistare tutto: la prima macchina fotografica l’ho presa a noleggio, per 5mila lire al mese. Il primo concetto che cerco di far capire è che ci sono cose che ti appartengono di cui nessuno può privarti, che sono la tua vera ricchezza. I miei corsi sono una metafora che, come diceva Seneca, è la base di ogni verità.
BIO
Nato a Modena nel 1933, inizia a fotografare nel ’61: le sue prime personali sono a Torino nel ’65 e a Modena nel ’68. Ha pubblicato oltre 40 libri per edizioni italiane, giapponesi, francesi, tedesche, svizzere, americane e spagnole e ha esposto in oltre 400 mostre tra personali e collettive in musei e gallerie di tutto il mondo. Le sue opere sono presenti in 50 collezioni pubbliche internazionali, fra cui MoMA (New York), Ludwig Museum (Colonia), Musée d’Art Moderne (Parigi), Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (Torino). Ha ricevuto innumerevoli premi e riconoscimenti, dal Photokina a Colonia (1974) alla nomina di Maestro Fotografo Italiano dalla FIAF (1995) fino alla Laurea honoris causa in Design del prodotto eco compatibile (2006, Politecnico di Torino). Ha firmato moltissime campagne pubblicitarie (Canon, Ferrovie dello Stato, Fiat, Robe di Kappa, Snam, Sony, Volkswagen, Volvo, Versace, Kodak) e tenuto conferenze e workshop in Italia e all’estero. Collabora con riviste e quotidiani quali Time-Life, Vogue Usa e Vogue France, Venerdì (La Repubblica), Sette (Corriere della Sera), Panorama, Frankfurter Allgemeine, Epoca, Class, New York Times. Direttore artistico del Toscana Foto Festival, ha collaborato con il Centre Pompidou e con i Ministeri della Cultura di Francia e Giappone.