FERRARA | Padiglione d’arte contemporanea | 15 aprile – 3 giugno 2018
di MASSIMO MARCHETTI
Nell’ultimo decennio, la costante crescita dell’interesse da parte di critici, curatori e artisti verso le ricerche degli anni Settanta ha portato a una rinnovata attenzione nei confronti di Ketty La Rocca (1938-1976). La rivalutazione della sua vicenda sconta difatti un certo ritardo e, a ben vedere, il suo è uno di quei casi in cui le frequenti citazioni spesso non corrispondono a un’effettiva conoscenza dell’opera, limitata più che altro a pochi lavori ritenuti a suo tempo emblematici. Di conseguenza l’intera esperienza della La Rocca è stata ridotta all’ambito della poesia visiva, dimenticando gli sviluppi successivi che avrebbero invece dato conto di una ricerca totalmente personale.
Tra le cause di questa disattenzione c’è stata senza dubbio anche la morte prematura dell’artista, scomparsa a soli trentotto anni per un aneurisma nel pieno di una carriera che in quel momento non arrivava a coprire un quindicennio. In questo breve arco di tempo, e senza il supporto di figure curatoriali catalizzatrici, Ketty è stata comunque in grado di affermare la qualità del suo segno tanto da suscitare l’attenzione di una protagonista della scena statunitense come Lucy Lippard, autrice del celebre “Six Years”, un resoconto storico degli anni della “dematerializzazione dell’arte”. Basterebbe anche solo questa considerazione a spiegare perché la retrospettiva che in questi giorni le dedica la Biennale Donna di Ferrara sia un’occasione da non perdere.
Le funzioni del linguaggio e l’identità sociale, in particolare quella di genere, sono temi al centro dell’opera della La Rocca ancora in grado di fornire spunti di riflessione. La mostra, curata da Francesca Gallo e Raffaella Perna, già autrici di studi sull’artista, dimostra come sia difficile incasellare Ketty La Rocca in una corrente definita e ha il merito di offrire anche delle testimonianze sulla sua vita privata che mettono bene in luce la posizione dalla quale l’artista ha iniziato a confrontarsi con la relazione tra cultura ed espressione, quella di maestra elementare in una scuola femminile.
In ambito artistico, Ketty La Rocca muove i primi passi verso la metà degli anni Sessanta all’interno del Gruppo 70, una fase testimoniata in mostra da una serie di collage. Sono lavori che rilevano con incisività e sarcasmo la reificazione del corpo femminile nella società consumistica, come nel caso di Dolore… come natura crea (1964-65), in cui il volto compunto di una donna è attorniato da dettagli corporei seduttivi, o Non commettere sorpassi impuri, dove la classica bionda provocante è circondata dalla sagoma ripetuta di un borghese letteralmente piccolo (un montaggio forse ispirato dalle Tentazioni del dottor Antonio di Fellini). Queste composizioni per frammenti tipiche delle ricerche verbo-visuali dell’epoca, in cui il prelievo da giornale o da rotocalco è mantenuto pienamente visibile, già in questi anni sono affiancate da pannelli più ampi in cui il connubio si fonde in un’unica immagine, quasi a voler raggiungere un grado di compiutezza che dimostri come quelle figure e quelle parole siano concretamente parte di uno stesso discorso.
Ma l’indirizzo del percorso non è dato semplicemente da una tensione alla sintesi, quanto da una più ambiziosa esplorazione dei limiti dell’espressione. In questo senso, l’originale serie dei segnali stradali del 1967/68 indica un superamento netto della poesia visiva classica in vista anche di un intervento nel paesaggio. A questo punto la parola tende a frantumarsi in sillabe che scivolano verso l’inquietante afasia dei segni di interpunzione.
L’inquietudine si fa più marcata in presenza di J (1970), una scultura in vinile nero che campeggia in solitudine fra pareti tappezzate di manifesti che ossessivamente ne ripropongono una coppia eretta in un prato. L’atmosfera di questa stanza sembra riecheggiare la metafisica dechirichiana, ma al di là del dato installativo c’è quello, più urgente, dell’ingresso in un territorio che sta a monte della parola veicolo di significato. Il percorso di Ketty La Rocca qui dà l’impressione di segnare una svolta.
Difatti ciò che emerge salendo nelle sale del piano superiore è uno scarto drammatico rispetto al dominio del linguaggio scritto in forma tipografica che risemantizza un’immagine. Qui irrompe invece il gesto, sia esso delle mani che del volto, una forma di espressione che ci fa retrocedere a una fase primordiale della comunicazione umana. È talmente pervasivo il motivo gestuale che è interessante notare come in questa produzione la parola scritta, quando è presente, lo è in forma calligrafica, legandosi quindi indissolubilmente all’azione manuale che l’ha prodotta. Così la troviamo nelle Riduzioni (1974), sequenze di disegni in cui stampe fotografiche o locandine di film vengono ricopiate in modo da prosciugare progressivamente l’immagine lasciandone solo la silouhette tratteggiata con un testo corsivo. A questo punto le molte parole della comunicazione quotidiana tendono a ridursi a una sola: “you”, ripetuta incessantemente fino a diventare un puro segno decorativo. Non ci sono più frasi nette a commento delle immagini, solo un flusso scritturale che svuota i soggetti. La “voce” dell’artista, oscillante tra un imperativo rivolto a un potenziale interlocutore e una nenia infantile che svuota di senso ogni termine, sembra essere vittima di una specie di amputazione comunicativa che la costringe a risalire la catena evolutiva del linguaggio.
La serie di Craniografie (1973) interroga ulteriormente, e con notevole forza visiva, sulle ragioni di un’espressione umana ancora plasmata da motivazioni puramente funzionali. Non si riconoscono messaggi, ma solo atti. Nello spazio incapiente di una scatola cranica che sembra allo stesso tempo una cavità uterina, c’è una mano che si manifesta articolando una sequenza di segni basilari: troppo pochi per dispiegarsi in un codice ma sufficienti per farci intravedere, come alla luce di un lampo, la prima estroflessione di un pensiero (non a caso al centro della serie c’è l’immagine di una maschera africana). L’incastro soffocante delle forme fa pensare a una lotta, e in questa fase è tangibile un senso di costrizione.
In contrasto con la gravità di questo lavoro, al centro della sala spicca il set per il re-enactment di In principio erat verbum (1970) da parte degli allievi del liceo artistico di Ferrara, un allestimento approntato sulla base di un bozzetto originale per una performance-gioco mai realizzata sulla comunicazione non verbale. Questo reticolo verde, però, solo apparentemente è una nota più spensierata perché, a guardarlo meglio, è una gabbia dalla quale alla fine non si esce. L’unica modo per sentirsi liberi è di provare a mettere in crisi le regole del gioco.
XVII BIENNALE DONNA
Ketty La Rocca 80. Gesture, speech and word
a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna
realizzata in collaborazione con l’Archivio Ketty La Rocca di Michelangelo Vasta
15 aprile – 3 giugno 2018
Padiglione d’Arte Contemporanea
Corso Porta Mare 5, Ferrara
Info: +39 0532 244949
diamanti@comune.fe.it
www.artemoderna.comune.fe.it
UDI – Unione Donne in Italia
+39 0532 206233
udi@udiferrara.it
www.biennaledonna.it