OULU (FINLANDIA) | Galleria Kajaste | 4 – 25 febbraio 2014
intervista a AQUA AURA di Livia Savorelli
Aqua Aura non è un fotografo nel senso canonico del termine. È piuttosto un narratore per immagini, che si serve della fotografia – come strumento – «per scandagliare atti visionari, per costruire confini a mondi che stanno nascendo proprio nell’istante in cui operi».
Alla vigilia di un’importante esperienza espositiva in terra finlandese, la personale Vacant Scenery, ho rivolto alcune domande a Aqua Aura, facendomi raccontare in anteprima della nuova serie Void, presentata in quest’occasione.
La realtà vissuta e catturata da Aqua Aura e quella dallo stesso modificata. Puoi descrivere lo scarto, le emozioni e le necessità di questi differenti momenti creativi?
Visto che stiamo parlando dei lavori che saranno presenti nella prossima mostra finlandese, mi limiterò a parlarti dell’universo delle serie VOID e FROZEN FRAMES, lasciando per questa volta escluso il mondo dei ritratti. Una volta, molti anni fa, un mio vecchio insegnante, un caro amico, mi disse che la qualità vera, essenziale, la prima qualità di un artista è saper guardare.
A questa lezione mi sono attenuto nel tempo. In effetti, le numerose immagini che raccolgo durante i miei viaggi e la catalogazione ossessiva degli scatti che avviene al ritorno in Italia rappresentano la professione di questo “culto”. Con esse, metto in pratica quel lontano insegnamento in una costante osservazione e rapina di ciò che gli occhi ed i sensi percepiscono durante l’immersione in quel viaggio. Nella mia collezione trovano posto i paesaggi, le persone, dei particolari di luoghi, cieli, luci, pietre, vapori. Durante gli scatti non è indispensabile la qualità fotografica, anche se il suo raggiungimento è l’anticamera di una buona riuscita del lavoro futuro. Osservo… e quando ho finito osservo ancora, scatto ancora, desidero. Faccio continue domande al sensore della macchina ed alle “cose” che ho di fronte.
Entrare in studio è un’altra faccenda, il vero lavoro inizia lì. Entrare in studio è, per me, come entrare nella mente, nel suo funzionamento, assumere la velocità dei suoi sistemi neuronali. In studio, riparto dall’osservazione continua delle immagini raccolte, valuto ipotesi, verifico la possibilità di un’idea, decostruisco i mondi che mi si parano davanti, li ricostruisco secondo traiettorie alternative.
L’immaginario di Aqua Aura da chi trae ispirazione? Quali affinità elettive?
Sento affinità elettive con il pittore svizzero Karl Bodmer, con l’inviato della corona spagnola nel nuovo mondo, Bernal Diaz del Castillo, con il Marco Polo de “Il Milione”, con Edward Sheriff Curtis quando fotografa la frontiera americana. Tutto questo ha forse avuto inizio con le navi coloniali fenicie che attraversavano lo stretto di Gibilterra, è continuato con i resoconti di viaggio dei mercanti europei lungo le piste carovaniere che puntavano verso l’estremo oriente ed è finito ieri sulle mensole della mia stanza di bambino, dentro i libri illustrati di Folco Quilici alla scoperta degli ultimi popoli primitivi.
In tutte queste imprese puoi riscontrare il senso radicale di un altrove sconosciuto che è definitivamente morto con le avvisaglie dell’ultima rivoluzione industriale. Nei processi psicologici che sottintendevano questa attitudine, l’elemento che mi è sempre parso così interessante è la forte spinta alla conoscenza, per secoli l’unica modalità con la quale andare incontro al mistero del divenire.
Il viaggio era scoperta, era movimento vettoriale verso l’alterità, compiendo il quale, l’inclinazione ad una percezione magica della realtà e misteriosamente ultraterrena o apertamente divina si trasformava via via in esperienza possibile, faticosa, il più delle volte rischiosa, ma praticabile.
In queste sfide, quanta responsabilità ha avuto la spinta proveniente dal profondo, quella di scrutare da vicino l’oblio del nulla o lo sconosciuto nascosti dall’altra parte? Il mostruoso che ci può divorare o il paradisiaco che ci può innalzare? Attraverso la cui conoscenza si ha la possibilità di venire al mondo una seconda volta. Come una vita infantile che incontra le cose e ne ha esperienza per la prima volta, con la differenza che in questa seconda chance le nuove regole e le nuove sembianze che si vanno scoprendo si sostituiscono alle precedenti, avendo allargato di poco o di molto il proprio personale limite e l’angustia della propria coscienza.
FROZEN FRAMES ha inizio da lì. Anch’io come loro documento un’alterità, per quanto proiettata in un futuro siderale e immaginario. Una scoperta, un resoconto di viaggio in un mondo morto, o non ancora iniziato, raccogliendo le tracce di una civiltà scomparsa, la nostra.
Chiaramente in un tempo come il nostro che ha sostituito la spinta alla conoscenza dell’altrove con la pratica dell’archiviazione e catalogazione delle cose e dei fenomeni e, di seguito, con una compresenza istantanea e a-gerarchica di essi nel calderone delle informazioni, non si avverte più la necessità di un istinto disvelatore. Nel passaggio che si è verificato tra il mondo come “racconto” e il mondo come “immagine in tempo reale”, il concetto di un altrove si è dissolto. Tutto ci è presente e contemporaneo. Nessun altrove è più da scoprire. Io mi pongo nell’ottica di essere un nuovo inviato, un fotografo dell’altrove, in un nuovo mondo costruito con i criteri della visionarietà e dell’immaginazione, l’ultima frontiera rimasta da esplorare.
Stai per iniziare una nuova avventura in Finlandia, alla Galleria Kajaste. Quali le scelte di questa location, in relazione alla presentazione della nuova personale Vacant Scenery?
Ci anticipi il concept, che lega questi scenari, che potremmo definire liberi o meglio “svuotati”… da che cosa?
La maggior parte delle immagini con le quali ho costruito FROZEN FRAMES provengono da lì, dal grande nord, ed in parte dall’estremo sud. Di conseguenza quale location migliore di questa, in cui l’interrelazione tra quello che è rappresentato dentro la mostra e l’ambiente esterno che la circonda è continuo e conseguente.
Un po’ di tempo fa mi trovavo sul lago Inari, nella Lapponia finlandese. Una mattina, uscendo da casa, trovo tre sfere di ghiaccio lasciate su uno steccato di fronte. Le sfere racchiudevano ramoscelli, aghi di pino e sassi, le ho fotografate. Non so come si siano formate, o chi le abbia fatte e perché. Oggi si trovano racchiuse nelle sfere limpide di due opere della serie VOID.
Ti leggo dal dizionario Zanichelli alla voce VACANT – Vuoto, vacuo, vacante; libero, non occupato, sfitto, senza proprietario. Il termine viene anche declinato in – senza espressione, distratto, assente.
La scelta dell’inglese VACANT SCENERY non è a caso. L’inglese è forse l’unica lingua che ha così tanti significati aperti per questa parola. Io ho voluto conservare tutte queste possibilità. Vorrei che fossero scenari della mente dentro i quali l’osservatore cogliesse tutti i molteplici sensi della loro vacuità, della loro indeterminatezza, del loro senso fluttuante e delle loro molteplici possibilità di lettura.
La mostra è stata concepita in due sezioni che conducono in due condizioni narranti differenti. La prima, che accoglie lo spettatore nella sala centrale, è costituita da immagini di luoghi e spazi rarefatti e mentali, con geometrie che tendono alla perfezione, quasi all’astrazione. Ho scelto opere che accompagnino lo spettatore in un universo sospeso, in cui il comune denominatore fosse la forma più equilibrata della geometria, il cerchio o la sfera. In ogni opera torna questo elemento: le sfere di SFERA LIMPIDA, i palloni di COMETS, i corpi astrali di alcuni altri lavori, per concludere con la voragine circolare che si apre sul ghiacciaio di HOLE. Da qui, proprio con HOLE, si entra nella piccola stanza che ospita la seconda parte della mostra. Da questo momento si entra negli inferi della serie FROZEN FRAMES.
Si tratta infatti di rottami, ruderi e carcasse abbandonate in deserti freddi ed inospitali, e il percorso si muove dalla luce, dal chiarore della prima opera alla quasi completa oscurità dell’ultima.
Ho voluto un viaggio che cominciasse con un senso apollineo dell’immagine e terminasse con la sensazione drammatica degli ultimi lavori.
La serie Void, presentata in questa occasione, rispetto alla tua precedente produzione appare come un prequel… Questo apparente svuotamento a livello iconografico, suggerito dal titolo stesso che contribuisce a “sottrarre” la valenza concettuale dell’oggetto già essenziale nella sua forma e rappresentazione, dove conduce? Quale il legame con le serie precedenti, in particolare Frozen Frames?
Ah ah! … “Prequel” è carino. Non ci avevo ancora pensato. Avrò tempo per rifletterci su. Non so dove può condurre la ricerca. Una nuova serie è un viaggio senza meta. Forse in questo processo di riduzione dell’immagine arriverò al punto o alla linea, o al nulla. Ma a quanto pare, a questo, ci è già arrivato qualcun altro prima di me.
Il legame con FROZEN FRAMES è diretto nel momento in cui osservi gli elementi che costituiscono le nuove immagini, in particolare i paesaggi contenuti in esse. Grotte di ghiaccio, sfere di ghiaccio appunto, distese di neve. Provengono tutti dalla precedente serie. Se vuoi, in VOID questi diventano dei gregari all’interno di una composizione che li contiene e racchiude.
Il ruolo da protagonista stavolta è interpretato dalle pure forme, dai volumi che racchiudono particolari di paesaggio. Come dire, il cerchio e il quadrato e le loro declinazioni formali, il rettangolo e l’ovale in forma di sfere e scatole, a formare dei teatrini metafisici che raccontano di un equilibrio sospeso e silenzioso intercorrente tra gli oggetti e lo scenario. La riduzione sta nel passaggio tra l’illusione del paesaggio nella sua forma classica ed un paesaggio mentale di composizione e di pura forma.
Perché la scelta della sfera (nelle sue più svariate declinazioni) e della forte contrapposizione cromatica (bianco e nero prevalente), cui fa da contraltare la foglia d’oro? Quale il significato e la funzione di quest’ultima?
Credo che tu ti riferisca alle due opere SFERA LIMPIDA che fanno parte della serie VOID. Quella serie non è basata solo sulla scelta della sfera come tema formale portante, ma anche sul quadrato o il cubo, insieme ai precedenti, forme di equilibrio e riduzione massime della geometria. Nel caso particolare delle opere che hai citato tu, il referente iconografico principale si ritrova in un’opera di Hieronymus Bosch del 1500 che s’intitola appunto “Sfera Limpida”. In quell’opera si può vedere un paesaggio fiammingo contenuto in una sfera trasparente con tanto di cielo nuvoloso. In molte opere di Bosch ritrovi delle sfere, delle ampolle trasparenti dentro cui sono sospese o imprigionate delle creature mostruose o degli oggetti. Pare che questa scelta, come scrive Baltrušaitis, sia da far derivare dalla rappresentazione di aureole cristalline presente in una parte della pittura medievale cinese, in cui maestri buddisti e monaci nel pieno della loro meditazione trascendentale sprigionano un’energia avvolgente, che prende la forma di una sfera che li sottrae e li isola dall’ambiente circostante, trasformandoli in oggetti spirituali separati dal mondo materiale. A sua volta questa tradizione, trova un’espressione occidentale nella rappresentazione della mandorla che avvolge il corpo di cristo nella sua iconografia salvifica. L’energia spirituale, della quale sono portatrici queste raffigurazioni, viene descritta come aureola cromatica o come un alone di luce.
Viste in quest’ottica le opere di Sfera Limpida sono in qualche modo volutamente anti attuali, usano un referente mistico antico per darsi una forma. Gli elementi contenuti nella sfera sono isolati dal mondo materiale, che in effetti è la cosa meno importante, è appena tratteggiato in un piano orizzontale ed uno verticale. Il paesaggio o gli elementi sospesi nella sfera bastano a se stessi, sono la riduzione ai minimi termini della rappresentazione, sono oggetti metafisici nel loro contenitore mentale, astratto. Pura essenza e pura assenza.
A loro volta, la immagini sono inscritte nella loro cornice, che a volte può essere ricoperta di foglie d’oro o d’argento oppure di rame, come diretto riferimento all’aureola mistica, alla mandorla di cui ti parlavo prima. In questo modo avvolgo l’immagine con una luce indefinibile, a volte calda a volte fredda. Certamente possono essere considerate come una sorta di icona moderna che contiene e mostra una divinità laica, ovvero la rarefazione sospesa delle forme della mente.
Come si collocano, in tutto questo, le tre variazioni di Comet?
COMET o COMETS TRYPTIC si sviluppa come un trittico in pieno riferimento alle pale d’altare dell’arte sacra. COMET è anche il primo lavoro della serie sul quale ho lavorato. Lì, le sfere che vedi sono ottenute sovrapponendo profili di montagne innevate presi durante un viaggio in Islanda, interposte a particolari di pietra vulcanica nera. Quello che ne ho ottenuto è stato un magma circolare che sembra molto un corpo celeste, un asteroide. Nella composizione dell’opera i miei corpi celesti assumono l’aspetto di palloncini riempiti di elio che si liberano in porzioni di un cielo appena accennato, quasi bianco. In un certo modo la riduzione alle forme minimali della mente è iniziato a questo punto, sottraendo il riferimento iconografico del puro paesaggio verso una pura forma magmatica e circolare, indefinita e metafisica. Il peso delle forme è azzerato dalla trasformazione del magma in comuni palloncini in cui il filo accompagna la sospensione disegnando volute nell’aria. Pure forme oscure nella luminosità vuota e vaporosa dello sfondo.
La scelta iniziale del trittico mi ha aiutato nel costruire una ripetizione ritmica delle forme che essendo poste a livelli diversi nell’opera, sembra vadano a quasi a descrivere una danza immobilizzata nel vuoto.
Forme della mente, appunto, in un paesaggio ridotto ai minimi termini.
VACANT SCENERY. Aqua Aura Solo Show
4 – 25 febbraio 2014
Inaugurazione 4 febbraio ore 18,00
Galleria Kajaste
Kajaaninkatu, 25
90100 Oulu, Finlandia