BOLOGNA | Museo Civico Archeologico di Bologna | 24 gennaio – 16 marzo 2014
di MASSIMO MARCHETTI
Il Piedistallo Vuoto è una mostra costruita sul filo di una tensione ancora ben percepibile tra il mondo che fu prima della caduta del Muro di Berlino e quello che si è impetuosamente configurato dopo. Un confronto tra due generazioni di artisti, quella del “prima”, che ha iniziato a lavorare negli anni Settanta, e quella del “dopo”, che di volta in volta, sui propri popoli e luoghi offrono punti di vista sviluppati in contesti culturali radicalmente mutati, ma che conservano invece una continuità nel rapporto problematico con le autorità vecchie e nuove e nell’orientamento complessivo della propria ricerca come pratica di resistenza.
Questa tensione drammatica non riguarda solo due momenti storici, ma è anche interna alle stesse generazioni. Il passare del tempo, anziché attenuare, sembra rinvigorire la sensazione di seguitare a presentarsi ad appuntamenti con la storia che si risolvono in tradimenti, suscitando un panorama di sentimenti contrastanti che, nel bianco e nero delle fotografie o nella quotidianità dei materiali, esprime comunque una peculiare (auto)ironia volentieri iconoclasta, quella che ci è nota anche grazie a molti scrittori dell’Est europeo. È quella tensione che aleggia attorno ai révénant, alle cose che sembravano defunte e invece ritornano, a ciò verso cui non ci si sente riconciliati ed emblematicamente rappresentato dal riuso o dall’abbandono di piedistalli monumentali pensati per sostenere gli imponenti simboli politici che furono.
Dunque una mostra di fantasmi, come suggerisce il curatore Marco Scotini nel saggio in catalogo, che raccoglie una serie di lavori acquisiti da collezioni italiane (il che è una bella sorpresa) e trova nel Museo archeologico di Bologna, incorniciato tra i reperti di un passato remoto, una sede particolarmente appropriata. Anzi, dall’ingresso si potrebbe dire la sede ideale che in sé è già chiave di lettura, tra i frantumi dei basamenti antichi distribuiti ai lati del chiostro del palazzo e il neon dell’albanese Armando Lulaj che diffonde la notizia dell’incessante entrare e uscire del Fantasma (citazione da Amleto). Gli autori scelti sono tutti di grande interesse: tra i “padri”, Julius Koller, Jiri Kovanda, i Kabakov, Miroslaw Balka, Marina Abramovic; tra i “figli”, Roman Ondàk, Victor Man, Igor Grubic, Adrian Paci. Questa mostra per Bologna è uno scatto di qualità che appaga le attese. La misura delle opere radunate in questa occasione offre anche la possibilità di riflettere sulle somiglianze e differenze nei linguaggi artistici elaborati in contesti che non potevano dialogare, come erano quello occidentale e quello orientale. La performance filmata del rumeno Ion Grigorescu, ad esempio, se formalmente può apparire accostabile alle riappropriazioni corporee di Vito Acconci, ne è totalmente distante invece per il senso, quando si è coscienti della solitudine e marginalità a cui si era costretti per praticare una ricerca artistica non conforme ai canoni.
La costante invasione della sfera pubblica in quella privata, la tracimazione progettata da un “politico” ostile, è un motivo per comprendere una logica di quasi invisibilità sottesa a molte di queste pratiche, uno status di artista anch’esso fantasmatico. Più che eloquente da questo punto di vista è il lavoro dell’uzbeko Vyacheslav Ahunov, svolto soprattutto nelle pagine “sicure” dei taccuini (bellissimi i disegni dei piedistalli vuoti all’origine del titolo della mostra). Altrettanto lo è il tavolo da ping-pong, che verrebbe da definire “non dialettico”, dello slovacco Julius Koller e il suo progetto U.F.O., che mostra una considerevole dote di provocatoria genialità e leggerezza. Nella generazione dei “post” il senso di perdita sembra dialogare con una speculare disposizione al ritorno alle origini. Da un lato quindi perdita della propria casa, come nella raccolta ordinata del kossovaro Petrit Halilaj o nella scultura dell’albanese Paci; della propria memoria, come nell’archivio fotografico monumentale, ma ammutolito, della slovacca Petra Feriancova; del passato collettivo, nel film della bandiera che si disintegra del rumeno Mircea Cantor. Dall’altro l’evocazione di culture originarie, come nelle fotografie del kazako Said Atabekov, o addirittura delle origini della visione, come nel proto-cinema del polacco Robert Kusmirowski. “Padri” e “figli” si ritrovano uniti nello spaesamento dell’identità collettiva e individuale. Se i piedistalli si sono vuotati, insomma, non per questo l’uomo è tornato misura delle cose.
Il Piedistallo Vuoto. Fantasmi dall’Est Europa
a cura di Marco Scotini
24 gennaio – 16 marzo 2014
Museo Civico Archeologico di Bologna
Via dell’Archiginnasio 2, Bologna
Orario: da martedì a domenica 10.00-18.30