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Intervista a LAURA SANTAMARIA di Lisa Parola

Questo dialogo nasce a partire da un’opera e un luogo specifico, la chiesa di San Bartolomeo in Val Susa (TO) dove Laura Santamaria ha partecipato a una residenza e realizzato una pittura su tela di grandi dimensioni. Invitata nell’estate 2024 dal team di KEART Keep an eye on Art, servizio di comunicazione per il patrimonio culturale, l’artista si è confrontata con una pala settecentesca temporaneamente in restauro: una Madonna del Rosario con Bambino, San Domenico e Santa Caterina da Siena. E proprio come in un lavoro di restauro, Santamaria ne ha indagato i materiali, le proporzioni, i soggetti, lo stato di conservazione del supporto come la cornice. Un gioco di specchi nel quale l’artista ha ‘rovesciato lo sguardo’ e ha iniziato con questa un dialogo visivo puntuale e concentrato. Per più di un mese, Santamaria ha lavorato alla realizzazione di molto materiale di ricerca e Si filii et here (tecnica mista, 157×132 cm); un’opera che più che pittura è spazio, un luogo astratto che si sviluppa e rigenera attraverso zone cromatiche.
Nell’ambito del programma di residenza è stato organizzato un workshop co-curato dall’artista, il team di conservatori e restauratori e da me come storica dell’arte. Maravija è infatti il titolo di un dialogo partecipato per dare forma a un inedito incontro tra antico e contemporaneo, per dialogare sul significato attuale della parola ‘patrimonio’.
La residenza e il workshop sono stati organizzati nell’ambito del progetto Arte per l’Arte ideato da Benedetta Bodo di Albaretto e Paolo Gili che opera per promuovere il restauro di opere d’arte e propone ‘cantieri aperti’ visitabili da cittadini, scuole e associazioni.

Iniziamo dalla pittura, una tecnica non troppo consueta almeno fino a qualche anno fa nell’ambito dell’arte contemporanea ma che tu utilizzi fin dall’inizio della tua carriera. Perché hai deciso di farne la cifra della tua ricerca? Ed estenderla poi all’installazione, a volte quasi alla scultura…
La pittura è per me tridimensionalità, bisogna accedervi con la forza dello sguardo, una forza attiva. È la pittura che è in grado di condurci in luoghi autentici e farli esistere. Per accedervi bisogna però educare lo sguardo, renderlo attivo. Credo sia proprio la pittura ad avere la capacità di trasformare i luoghi, quei luoghi nei quali viene posta. Penso che la pittura sia in grado di esercitare un forte ascendente sulla realtà.

Quello che intendi dire è che talvolta la pittura è in grado di ridisegnare gli spazi, renderli reali ma allo stesso tempo immaginifici? Ho bisogno di un esempio.
Qualcosa del genere. Pensa al San Girolamo nello studio di Antonello da Messina (1474), in quell’immagine, quel luogo, quello spazio si fa reale, percorribile, incontri anche un leone. Se entri nella pittura e se sai come farlo, ovviamente.
Oggi nel mondo dell’animazione digitale lo spazio tridimensionale è reso nella dinamica di gioco. È la dinamica che ti porta all’interno e ciò è possibile solo attraverso l’identificazione con un personaggio che percorre lo spazio virtuale. Nell’opera di Antonello da Messina è lo sguardo ad entrare, la dinamica invece la devi generare tu.
Le opere che definiamo ‘capolavori’ a mio avviso sono quelle che ci forniscono un’indicazione, una direzione precisa: il tempo.
La digitalizzazione dell’immagine, le copie, anche quelle come i capolavori ad altissima definizione, ci allontanano dalla percezione e dalla presenza dell’opera proponendoci un tempo rapido di fruizione che inevitabilmente ci allontana dalla verità.

Laura Santamaria, “Hypnero (Erotic Dream)”, 2015, site specific installation, 380×400 cm (blacksmoke) Exhibition view: The London Open, Whitechapel Gallery, London, 2015. Courtesy Whitechapel Gallery. Photo: Stephen White

Cosa intendi per verità, proviamo a darne una definizione…
Per me la verità è contemplazione che io intendo come ‘atto’, qualcosa di fisico, una pratica che necessita di tempo. Un agire che è fondamentale perché imprime informazioni alla memoria.
Ma torniamo ancora a ragionare sul digitale. I colori nel web sono ridotti a RGB, una sorta di omogeneizzazione. Per me è invece importante disobbedire all’appiattimento della retina. È un fatto etico. Lo sguardo digitale è passivo, fornisce una sorta d’immagine fantasma, un’evocazione di quello che sembra anche se non è; e non di quello che realmente è.

Parliamo ancora di verità. Oggi sembra un termine desueto, poco frequentato in ambito politico, sociale ma anche culturale…
Per la mia ricerca la verità è un tema fondante pensando anche solo che le Direttive nazionali in tema di Restauro sono di tipo conservativo, proprio a tutela di quella verità. E anche se la verità è fragilissima e apparentemente inconsistente – un minuscolo frammento di colore – continuo a pensare che l’istanza di verità sia più forte di ogni simulazione. È quello che definisco autentico. La verità è autentica! E la concretezza del restauro stabilisce un parametro assoluto proprio rispetto al digitale.

Laura Santamaria, “Si filii et here”, 2024, pigmenti, gomma arabica, olio cotto su tela, 157×132 cm, Chiesa di San Bartolomeo a Chateau Beaulard, courtesy Keart

Credo che tu stia riflettendo su questo aspetto anche dopo il progetto che hai realizzato a luglio. Un inedito confronto tra la tua ricerca e la pala d’altare della Madonna del Rosario con i Santi Caterina da Siena e Domenico e del retablo settecentesco negli spazi della Chiesa di San Bartolomeo a Château Beaulard in Piemonte con il team di Keart –  keep an eye on art, invitata in residenza da Paolo Gili e Benedetta Bodo di Albaretto, curatori del progetto Arte X l’Arte.
Certo, l’invito di Paolo e Benedetta è stato per me un’occasione per continuare a lavorare sulla verità. Lo ripeto ancora: la verità. Un’esperienza d’arte che ha attivato un dialogo inedito tra antico e contemporaneo. M’interessava collocare la mia ricerca al centro delle istanze tecniche del restauro. Guardare le opere – una pala d’altare in restauro e una mia opera che ha sostituito temporaneamente quella originale che andava tolta per procedere con i lavori. Uno scambio che mi ha permesso di provare ad equilibrare le fisicità dei due lavori, la relazione con la loro materia. È stato un azzardo ma anche un motivo di riflessione intorno a quella che mi appare oggi un’urgenza: ritrovare nell’opera il valore del fare nel tempo.
I materiali impiegati per la realizzazione dell’opera Si filii et here (2024) che ha sostituito temporaneamente la pala sono: pigmenti, tela, colla di coniglio, gesso, gli stessi impiegati dai restauratori per il ripristino del lavoro originale.
Quell’esperienza è stata per me un pretesto per attivare quello sguardo attivo di cui parlavo, confrontarmi con chi lavorava nel cantiere, chi operava direttamente sulla tela antica.

Laura Santamaria, Paolo Gili, Tavolo per il workshop “Maravija” a cura di Lisa Parola, progetto Arte x l’Arte, Chiesa di San Bartolomeo a Chateau Beaulard, courtesy Keart

Tutti insieme abbiamo lavorato anche a un workshop, un momento d’incontro con il pubblico per ragionare su cosa significhi oggi il termine Patrimonio. Un aspetto sul quale ragiono molto in questi anni…
A mio avviso durante il workshop sono state messe a fuoco alcune istanze urgenti del contemporaneo. Una situazione che ha attivato un nuovo processo di consapevolezza che ha collocato al centro ‘le opere’ fisiche ma anche i loro spunti teorici rivelatori di una responsabilità fin anche negli aspetti della loro tutela e produzione. E per ragionare su questi temi abbiamo bisogno di uno sguardo attivo, di una dimensione di cura, di curiosità consapevole della responsabilità che chi opera nella cultura deve avere. Mai come in questi anni.
Portare al centro il patrimonio significa oggi abbattere le distinzioni rigide tra passato e futuro, mettere invece a fuoco la riflessione sul senso della ricerca artistica, sull’analisi critica e non solo di comunicazione. Non stare di fronte all’opera ma stare ‘con’ l’opera; prendere in esame l’opera quale amplificatore di significati e generatore di pensiero.

Lisa Parola, workshop “Maravija” a cura di Lisa Parola, progetto Arte x l’Arte, Chiesa di San Bartolomeo a Chateau Beaulard, courtesy Keart

Qualche parola ancora sul colore che è una tua cifra fin dagli esordi…
Mi sono sempre interessati i colori saturi, trasparenti e cangianti come le gemme. A Château Beaulard ho applicato i colori come le tecniche pittoriche; sia negli studi preliminari che nell’esecuzione finale.
Nel restauro la priorità è l’opera, non sono concesse approssimazioni, nelle fasi preliminari di studio del dipinto per esempio, è stato possibile identificare la tavolozza utilizzata dall’artista con il metodo dell’Infrarosso falso colore, 500-950 nm. Secondo le osservazioni di Paolo Gili – titolare di Mnemosyne Servizi, società incaricata del restauro – anche queste analisi sono utili nella definizione della datazione dell’opera e nel riconoscimento di eventuali interventi pittorici di restauri precedenti. Sono allora partita da lì e ho proseguito un dialogo con Paolo e Benedetta che mi portava a ‘vedere’.
Dicevi il colore, un colore oltre alla sua natura fisica, legata alla rifrazione della luce può essere presente anche laddove non è possibile raggiungerlo con la percezione della vista. Il colore spesso è oltre la soglia dei sensi. Ho pensato di eseguire questa pittura considerando anche questa presenza non visiva. Un po’ come una scommessa o un procedere attraverso uno stato di coscienza diverso.

Quello che descrivi è quasi un divenire, un processo…
Fa parte della mia metodologia. Guardo, e lo sguardo si posa poi naturalmente sui particolari, sulle proporzioni, sui colori, anche su quello che non vedo. A Château Beaulard, come ogni volta, questo processo è stato faticoso ma naturale, un fare ‘oltre la soglia’, un momento lungo che ha interrotto il circuito delle convenzioni del tempo. Qualcosa che somiglia a un ‘fuori luogo’ simile a un capriccio, un’ipotesi che apre possibilità. Portare una realtà nella realtà, una pittura site-specific all’interno di un retablo in foglia d’oro. M’incuriosisce proprio quel site-specific della pittura, come lo hai definito nel corso dei lavori.

Spesso nella tua ricerca parli di spiritualità, altro termine desueto nel contemporaneo che però tu hai accolto portandolo nel presente…
Incastonare un’opera astratta nell’area potenziale della contemplazione come lo spazio di una pala d’altare ha nuovamente accompagnato la mia idea di Sacro che coincide esattamente con la mia definizione di pittura, ancora meglio di ricerca artistica. Pensiamo un attimo: la preghiera è una forma di meditazione e di contatto con un sé ‘altro’ che porta a costeggiare l’armonia di un momento contemplativo. Un istante pittorico è una situazione simile, qualcosa che si fa accadere e che ha la capacità di trascendere la visione unilaterale che noi umani tendiamo ad imporre nella nostra visione del reale.

Mi interessa anche la tua idea di vista attiva. Proviamo ancora a dire qualche parola a proposito.
La vista è un accesso. Carlos Castaneda ricorda come un certo modo di guardare può trasformare il sé. Immaginiamo di poter disporre di una sensibilità maggiore, quanto maggiori sarebbero le possibilità del guardare? Immaginiamolo anche solo per un attimo e proviamo a domandarci: quanto è diversa la verità? E quanto è diversa la vista?
Per me la pittura è la determinazione di una situazione attraverso lo sguardo, l’applicazione pratica di una facoltà percettiva ed esplorativa dell’invisibile che è molto vicina alle istanze di quel qualcosa che forse chiamerei anima. Vedere è sempre un dialogo tra lo sguardo e l’anima. E la pittura è la traduzione di quell’energia con dimensioni e soggetti universali che entrano nella coscienza attraverso di essa. La pittura è un mezzo, non un fine.

Parlami ancora dello spazio e del vuoto…
Lo spazio, il vuoto, la sezione aurea, la gravità sono elementi con cui mi misuro, le orbite sono linee invisibili nello spazio, hanno lo slancio dell’ellissi e la forza che muove ogni elemento è armonica. Ogni idea è un percorso mentale con cui mi costruisco con la consapevolezza di appartenere a un mondo. È un ordine sovrasensibile non solo come essere ma nel senso di una relazione con esso.
Rudolf Steiner, filosofo teosofico, definiva questo sentire come un senso dell’uomo: “L’uomo è un essere cosmico, ad esempio, per quel che riguarda tutto ciò che i suoi sensi trasmettono” ma paradossalmente più esploriamo lo spazio e maggiormente inibiamo questa specifica sensibilità, lo rendiamo un oggetto separato. Esiste una rappresentazione estetica fornita dalla NASA e corredata da immagini fotografiche ma quanti ancora contemplano le stelle in agosto?
Nelle mie ricerche per Orbite sacre corpi celesti – una mia personale curata da Lorenzo Rubini -THEPÒSITO per il Complesso Museale ASP Beata Lucia, Narni 2024 ho riscontrato come le antiche culture sumere conoscessero la vastità dei cieli e si rapportassero a Venere e alla Luna come fossero entità, evocate attraverso la Dea Inanna, una dea femminile la cui complessità ha creato in me una nuova concezione intorno all’idea di soggetto.
L’universo non è una idea unilaterale, sono certa che esiste una sorta di reciprocità: guardiamo e siamo guardati, come le stelle per altri sguardi. Muovere con il disegno elementi geometrici come ellissi e cerchi determina delle ipotesi, pone nuovi problemi agli astrofisici come agli artisti.

E questo lo possiamo praticare solo con uno sguardo attivo, partecipe…
Pensa, il disegno, i pigmenti ed il fuoco sono fondamentali in un’idea di trascendenza, sono variabili di un accesso diverso alle possibilità. Generare un colore con i pigmenti è per me sempre un rituale. Il fuoco che uso per lavorare è l’istante in cui tutto il paesaggio è assorbito, la traccia del nerofumo lasciata dalla fiamma traduce l’esperienza dell’atto fisico del sublime come è già successo con Lo Zolfo (La Luna) (2008), un’opera permanente negli spazi della Fondazione Spinola Banna, grazie alla direzione artistica di Gail Cochrane che amo ricordare ora, qui.
Quest’idea generativa e trasformativa di un paesaggio deriva dal Settecento, la cui rappresentazione era sempre una mediazione tra gli acquarelli degli studi realizzati all’aperto e l’opera ultimata in studio. Nel mio lavoro mi concentro, prendo posizione attraverso il filtro della memoria, una pratica, un momento sintetico e concettuale, qualcosa, uno stato d’animo che mi richiama ogni volta Memorie del Riesengebirge (1836) di Caspar David Friedrich. È una strana alchimia che unisce naturalismo, immaginazione e memoria.

Laura Santamaria, workshop “Maravija” a cura di Lisa Parola, progetto Arte x l’Arte, Chiesa di San Bartolomeo a Chateau Beaulard, courtesy Keart

KEART – Keep an eye on Art è un servizio che mette al centro il racconto di un intervento di restauro, un racconto il cui taglio cambia a seconda della storia dell’opera ma anche del luogo che la custodisce, di chi se ne prende cura, di chi supporta l’intervento e in che modo. L’obiettivo? Reperire i fondi per restaurare opere che hanno bisogno di cure, offrendo ai mecenati non solo vantaggi fiscali e un adeguato ritorno d’immagine, ma soprattutto una voce diversa e un ruolo attivo, proprio come il pubblico invitato ad avvicinarsi al nostro tavolo di lavoro. Arte X l’Arte è un progetto firmato KEART, ideato per promuovere il restauro del patrimonio comune attraverso un inedito dialogo tra antico e contemporaneo. La sua prima edizione si è conclusa con la residenza e la restituzione espositiva di Laura Santamaria a Château Beaulard nel luglio 2024, ma la raccolta fondi ad essa legata – che finanzierà il prossimo progetto e le nuove collaborazioni – continua insieme alla presentazione e al racconto del cantiere.

Info: https://keart.it

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