MILANO ǀ NELLO STUDIO DI SOPHIE KO
di MATTIA LAPPERIER
Lo studio nasce, cresce e si sviluppa di pari passo con l’artista. Ne riflette la personalità nel modo più autentico. È testimone silenzioso delle sperimentazioni più ardite, del perfezionamento di tecniche affinate negli anni e custodite gelosamente. È anche il luogo delle infinite prove, delle notti insonni, delle cocenti insoddisfazioni, che tuttavia possono sfociare talvolta in successi inaspettati. #TheVisit ha lo scopo di aprire le porte a tali realtà che per loro stessa natura sono poco accessibili, spazi che in tempi di pandemia hanno rappresentato pure una delle rare occasioni di confronto diretto con l’arte contemporanea.
Sophie Ko dal 2018 lavora in uno studio fuori dal centro di Milano, in una zona periferica e molto tranquilla, immersa in un silenzio rigenerante, interrotto talvolta solo dal passaggio del treno. Reduce dall’esperienza di uno spazio sotterraneo, in un primo tempo quasi temeva che l’attuale studio provvisto di veranda – e dunque aperto al paesaggio esterno – potesse essere fonte di distrazione da una ricerca come la sua, così intellettuale e introspettiva. Il raccoglimento e la quiete del luogo invece hanno finito per collaborare positivamente al buon esito delle opere, permettendole di approfondire ulteriormente le proprie riflessioni, in primis quella sulla caducità del tempo; indubbiamente uno dei cardini fondanti su cui si struttura il suo intero lavoro.
Sophie Ko è un pittrice sui generis: è sufficiente infatti guardarsi intorno in studio per accorgersi che non vi è traccia di pennelli, colori allo stato liquido o altri strumenti canonici. Curiosando tra gli scaffali si trovano invece polveri, pigmenti puri, ceneri, persino farfalle, che talvolta inserisce all’interno delle composizioni, quali emblemi di vanitas per eccellenza. Nelle Geografie temporali traspare il rapporto doloroso e conflittuale che l’artista ha instaurato con il tempo; un tempo irreversibile e lineare che procede solo in un senso e tutto inesorabilmente trasforma. Tuttavia Ko, anziché soffermarsi sulla caduta, si focalizza piuttosto sulla resistenza; sui resti incombusti di un rogo, sul pigmento che si oppone alla caduta. Anziché agire in prima persona, si limita a predisporre la composizione con interventi minimali, che quasi scompaiono, lasciando così ampio margine al nudo processo.
Tali opere nascono in orizzontale, su un doppio pavimento che l’artista ha disposto nella sala centrale dello studio, dove, per mezzo di morsetti, assicura le cornici a terra e poi, procedendo strato su strato, si appresta a riempire di polveri. È lei stessa a preparare il contenuto, dopo aver mescolato tra loro pigmenti di tonalità diverse, sino a ottenere la nuance desiderata e averli raffinati ulteriormente, nel caso fossero risultati troppo granulari. Sophie Ko, in altri termini, mette in atto un procedimento che è opposto a quello della pittura; una volta posta in verticale la cassa trasparente contenente i pigmenti, il primo livello è infatti quello che risulta visibile. L’ultimo gesto della mano – il ritocco finale – rimane invece celato, segreto, precluso allo sguardo. La precipitazione delle polveri è immediata, pressoché contemporanea alla messa in verticale dell’opera. Quest’ultima, sottoposta all’azione della gravità – anche in assenza di eventuali traumi che potrebbero, com’è ovvio, concorrere a modificarne ulteriormente l’assetto – continua a mutare e ad arricchirsi di nuove crepe che ne ridisegnano l’aspetto, giorno dopo giorno. Quasi si trattasse di un corpo vivente, l’opera non può sottrarsi al processo di alterazione innescato dalla sua sola esistenza.
Sophie Ko definisce nello spazio una tensione tra alto e basso; il suo lavoro indaga un equilibrio precario tra forze uguali e contrapposte. Metaxù, un’installazione consistente in vecchie scale a pioli che conducono a un intervento murario in terra ed erba, costituisce di per sé un ulteriore momento di riflessione sul passaggio del tempo. Le scale, consunte dal peso di migliaia di passi, sono impreziosite dall’oro che non solo ne nobilita l’aspetto ma ne sottolinea soprattutto la strenue resistenza al logorio costante cui sono state sottoposte negli anni.
A un rapporto privilegiato con il tempo non può che corrisponderne uno altrettanto stretto con lo spazio. L’artista è solita lavorare site specific, adattando alla perfezione le opere alla loro destinazione finale. Così da avere una percezione il più possibile fedele degli ingombri originali, dispone dei piccoli plastici in cui inserisce miniature dei suoi lavori in scala. Che si tratti di grandi formati, di polittici dalla struttura complessa o persino di piccoli lavori 30×30 cm, è per lei fondamentale creare una narrazione continua all’interno dello spazio, restituendo l’impressione che – come lei stessa afferma in modo evocativo – “le opere si prendano per mano”.
In studio l’artista legge, approfondisce, elabora il proprio pensiero e lo infonde nelle opere. Tra le tante, una lettura più di ogni altra è stata rivelatrice: Il libro dell’orologio a polvere di Ernst Jünger dimostra come la percezione del tempo cambi a seconda che lo si misuri attraverso il sole, con mezzi meccanici o con gli orologi a polvere. Questi ultimi sono i soli che quantificano un tempo sempre concreto, visibile, che viene lasciato essere. Sophie Ko lascia appunto che il tempo agisca indisturbato sulle proprie opere, accetta di poterle controllare sino a un certo punto. Analogamente a quanto accade alle copie di statue greche, ad esempio, che recano uno stato conservativo differente, benché originate da una matrice comune, o similmente anche ai monocromi di Malevič, divenuti – nel corso dei decenni – tutto fuorché monocromatici ma anzi un intricato reticolo di crepe, le Geografie temporali di Sophie Ko sono in continua metamorfosi. Lo studio appare un’estensione di tale mutamento, esso cambia pelle a seconda dei lavori che accoglie e sulla base delle necessità dell’artista. Si affolla in momenti di intensa attività, al punto che è quasi impossibile raggiungerne alcune zone, progressivamente poi, in occasione delle mostre, si svuota del tutto, in un ciclo perpetuo, proprio come si trattasse di un’enorme clessidra.
Sophie Ko (Tbilisi, 1981) pone al centro dei suoi lavori la questione del tempo istituendo una forte relazione simbolica tra i materiali utilizzati – per lo più ceneri di immagini bruciate e pigmenti puri – e le immagini create. Il mutamento e l’instabilità dei materiali in relazione allo scorrere del tempo sono alcune delle costanti della sua ricerca artistica. Tra le sue ultime mostre personali si ricordano: Il resto della terra, Galleria de’ Foscherari, Bologna, 2021. La forma dell’oro 9/12 Metaxú, BUILDINGBOX, Milano, 2021. Atti di resistenza in Materie Spazi Visioni, BUILDING Gallery, Milano, 2020, Geografie temporali, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia, 2019, Sporgersi nella notte, Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano 2018, The Open Box, Milano 2018, Terra. Geografie temporali, Galleria de’ Foscherari, Bologna 2016, Silva Imaginum, Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano 2015, Solo Show, AplusB Contemporary Art, Brescia 2014. Ha vinto il Gran Premio della Pittura al MAC di Lissone nel 2016.
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