Intervista a MARCO MANCUSO di Livia Savorelli*
Tra le letture più interessanti che sviscerano i vari aspetti del rapporto arte, scienza e tecnologia, troviamo il volume edito Mimesis di Marco Mancuso – critico, curatore ed editore indipendente, la cui ricerca si focalizza sull’impatto delle tecnologie e della scienza sull’arte, il design e la cultura contemporanea – uscito l’autunno scorso: Arte, Tecnologia e Scienza. Le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea.
Un’analisi lucida e appassionata che, muovendosi nel territorio della New Media Art contemporanea, guida il lettore in un mondo interdisciplinare e ibrido tra arte, design, architettura, suono, moda, performance, ricerca scientifica e innovazione tecnologica.
Ne parliamo approfonditamente con l’autore…
Nel tuo libro tracci un’approfondita analisi di come il panorama artistico, con particolare riferimento alla New Media Art, si sia trasformato nel dialogo con la tecnologia, grazie ad una ricerca industriale che evolve rapidamente e offre strumenti sempre più innovativi ed efficaci. Quale è, allo stato attuale, l’impatto di tecnologia e scienza nella cultura contemporanea?
Lo sviluppo della tecnologia e le più avanzate ricerche scientifiche hanno indubbiamente un impatto sempre più importante sulla cultura, l’arte e la società contemporanea. Impatto che non ha sempre necessariamente ricadute positive, anzi molto spesso determina strane distopie e pericolose derive, anche se è sotto gli occhi di tutti il modo in cui sta modellando il presente delle nostre vite e ponendo le basi di un possibile sviluppo futuro del mondo in cui viviamo. Come emerge dal mio libro, l’arte che viene classificata come New Media Art non è altro che lo specchio e l’occhio critico di questo scenario così complesso; essa si presenta come un oggetto culturale maturo, consapevole, in grado di dialogare efficacemente con ambiti disciplinari diversi a cavallo tra arte e design contemporaneo nonché con contesti che spaziano con efficacia tra apparati istituzionali, spazi espositivi, contesti fieristici e festivalieri, istituti di formazione e le principali industrie che operano nel campo dell’ICT e della ricerca scientifica. È capace – da anni ormai se consideriamo anche l’impatto di quelle avanguardie di cui parlo nella prima parte del testo – di riflettere in modo critico su come tecnologia e ambiti della scienza incidano sulle nostre vite, la società in cui viviamo, il nostro rapporto con l’ambiente circostante, la nostra identità, il nostro gusto estetico ma è al contempo in grado di esprimere una moltitudine di linguaggi espressivi ibridi capaci di prendere spunto da contesti ed esperienze completamente differenti e accumunate da una pura volontà di sperimentazione attorno a software, hardware, reti, macchinari DIY e, più recentemente, a sistemi di realtà aumentata, a oggetti virtuali, alle intelligenze artificiali e alla robotica, nonché alle bio e nanotecnologie e alle neuroscienze.
Quali fattori e condizioni, con particolare attenzione alle industrie ICT (Information & Communications Technology, ndr) e a quelle che operano nell’ambito scientifico, possono realmente contribuire a tracciare dei modelli alternativi di sviluppo economico che possano significativamente cambiare il rapporto tra sperimentazione, creazione artistica e mercato, fino ad arrivare a trasformare la società? Ci puoi indicare qualche esempio di collaborazioni in cui questo dialogo si è espresso al massimo livello? Nuovi orizzonti e falsi miti…
I nuovi orizzonti e i falsi miti di cui parlo nel libro sono strettamente legati all’idea di Art Industries, neologismo da me proposto nel libro, rispetto al modello conosciuto delle Industrie Creative. Quest’ultimo, sebbene ricco di valori e di esperienze importanti capaci di accumulare uno storico importante di successi che hanno avuto impatto in ambiti culturali ampi, non ha prodotto un vero cambiamento nel campo dell’arte e del design contemporaneo, per lo meno nei termini di capacità di imporre un reale modello produttivo contrapposto a casi sporadici di successo. Al contempo, gli ambiti della New Media Art sono stati capaci nel corso degli ultimi vent’anni, forse perché sempre troppo marginalizzati dai grandi mercati e dall’occhio dei media o delle principali istituzioni, di prendere parte dei modelli funzionali delle Creative Industries e trasformarli in un’esperienza autonoma, spesso efficace e innovativa, che ha prodotto una serie di eccellenze – parte delle quali vengono narrate nel libro – nate dalla creazione di efficaci filiere di produzione che hanno visto unirsi professionisti del mondo dell’arte, istituzioni, centri di formazione e accademie, tecnici, scienziati e attivisti, grandi corporation del mondo dell’ICT e della ricerca scientifica. Che piaccia o meno, questo è il modello che tiene in piedi grandissimi centri di ricerca, produzione ed esposizione come l’Ars Electronica di Linz, il Sonar+D di Barcellona o il NEW INC del New Museum di New York, solo per citarne alcuni. Una mappatura molto più ampia e completa è fornita dal libro, senza la pretesa di essere esaustiva, ma con la volontà di spazzare dubbi e incomprensioni su cosa sia veramente la New Media Art, cosa significhi il rapporto arte, tecnologia e scienza oggi e indurre quindi ulteriori spunti di confronto e discussione.
L’ibridazione dei linguaggi che ne deriva tocca un po’ tutti gli ambiti della creatività: arte, design, fashion e architettura. Nel processo di ibridazione tra arte e industria, sottolinei giustamente come uno degli aspetti più rischiosi di questa interazione sia la salvaguardia della libertà espressiva e creativa dell’artista, soprattutto quando la ricerca artistica si avvale dei processi dell’industria che sono finalizzati al profitto… Puoi approfondire queste criticità ed individuare possibili strumenti di salvaguardia?
Il rapporto tra arte e mercato è da sempre caratterizzato da idiosincrasie e momenti maggiormente virtuosi al fianco di episodi tristemente emblematici. Nel caso del rapporto arte, tecnologia e scienza non si fa eccezione: non mi sembra che la presenza di un’industria che per definizione genera profitto possa incidere di più o di meno di alcune classiche dinamiche dei mercati dell’arte contemporanea e delle sue compenetrazioni con le grandi istituzioni, i musei, le gallerie di riferimento e le testate giornalistiche di settore che incidono, spesso notevolmente, sulla produzione, la qualità, la diffusione, il successo di specifici artisti e opere. La differenza la fanno i professionisti e la serietà dei processi virtuosi che vengono costruiti: questo è il principale e, francamente, unico strumento di salvaguardia. Riuscire a creare un paradigma di produzione che coinvolga i professionisti migliori, gli artisti più radicali, gli istituti maggiormente illuminati, le accademie più sperimentali sottese a un processo di reale creazione di reti di valore che nascono da precise e documentate esperienze nel dialogo con ambiti disciplinari ibridi e nel rapporto con le industrie e i laboratori che quelle tecnologie producono e che sono interessati a sviluppare a contatti con filiere di creativi e intellettuali che non costituiscono il loro uditorio primario, al di là di logiche politiche, economiche e clientelari. Tutte, ma veramente tutte le interviste che sono riportate nel libro, rappresentano una serie di case study di diversi tipi di professionisti del mondo della New Media Art che questo processo lo hanno avviato in modo fruttuoso e maturo.
Attualmente sono in corso in Italia due mostre che vedono protagonisti due artisti cui dedichi un approfondimento nel libro: il giapponese Ryoichi Kurokawa (Galleria Civica di Modena fino al 24 febbraio) e la tedesca Hito Steyerl (Castello di Rivoli fino al 30 giugno 2019). Il primo concepisce i suoi lavori come sculture “time-based”, suono ed immagine si riuniscono in modo indissolubile in un’arte che si fonda sullo scorrimento temporale e che dialoga costantemente con la scienza, avvalendosi della collaborazione costante di membri della comunità scientifica; la seconda si avvale degli strumenti della rete e del mondo virtuale per smascherarne i disastrosi effetti su cultura, economia, politica…
Sia Hito Steyerl sia Ryoichi Kurokawa sono due buoni esempi di quella tipologia di artisti che rappresentano, per motivi diversi, un ottimo spunto di partenza per riflettere sui cambiamenti avvenuti nel campo della New Media Art nel corso degli ultimi vent’anni; di come sia maturata e di come oggi sia importante non creare inutili distinguo rispetto agli ambiti e i contesti dell’arte e del design contemporaneo. Sono artisti che hanno entrambi formazioni ibride, in parte legate a percorsi di ricerca tradizionali e in parte autodeterminate da un percorso indipendente di sperimentazione. Sono altresì professionisti che, nel corso di questi anni, hanno saputo far evolvere la loro ricerca artistica pur rimanendo assolutamente coerenti ed efficaci: la Steyerl, ammirevole tra l’altro per il suo lavoro accademico di analisi critica del medium digitale e dell’impatto delle reti sulla società contemporanea, si è mossa in questi anni a cavallo tra internet, video, performance, identità di genere e solo recentemente, come nel caso della mostra al Castello di Rivoli, intelligenza artificiale (il trend del momento per un numero crescente di artisti che lavorano con le tecnologie). La ricerca della Steyerl si focalizza su temi importanti della nostra società, che la caratterizzano nella sua complessità determinata da fenomeni di globalizzazione culturale, dal ruolo dei media, ma anche da elementi come il femminismo, la militarizzazione, i processi di migrazione e i fenomeni di razzismo.
Kurokawa è artista appartenente alla seconda generazione di sperimentatori, capaci di produrre performance e installazioni generate con flussi integrati di suoni e immagini, in grado di esprimersi con entrambi i media in maniera sincronica e perfettamente integrata grazie ai più sofisticati software di produzione digitale di immagini generative. Se nella prima fase della sua carriera, era maggiormente conosciuto nei contesti dei festival di musica sperimentale e arti digitali, da alcuni anni ha intrapreso una carriera virtuosa maggiormente legata alla rappresentazione audiovisiva di dati scientifici, sotto forma di grandi installazioni, oggetti e ambienti che lo ha portato a contatto con gli ambiti e gli spazi espositivi tipici dell’arte contemporanea, come è appunto la Fondazione Fotografia di Modena.
Sei tra i curatori di Fantomologia (insieme a Daniela Tozzi e Ilaria Bignotti, per la parte storica), progetto che si sviluppa negli spazi di CUBO Unipol e che vede coinvolti il media artist Stanza, il duo di science artist Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand e Ugo La Pietra. Come nasce il progetto?
Fantomologia è un termine coniato dallo scrittore e filosofo polacco Stanislaw Lem, nel suo libro “Summa Technologiae” del 1964, uno dei trattati più lucidi e visionari mai scritti sull’impatto della tecnologia e della scienza nel rapporto tra uomo, società e ambiente. L’assunto di partenza è che la percezione umana è limitata dalla sua stessa biologia per cui l’idea utopica di onnipotenza dell’uomo sulla realtà che lo circonda – che ha governato l’epoca industriale, post-industriale e tecnologica più recente – deve lasciare necessariamente il posto a un processo di mimesi e integrazione con il paesaggio in cui l’uomo stesso è immerso: fisicamente, emotivamente e percettivamente. Partendo da questo assunto, il progetto curatoriale che ho proposto a CUBO Unipol insieme a Daniela Tozzi, co-direttrice con Amerigo Mariotti dello spazio Adiacenze di Bologna, verte su un’indagine interdisciplinare del rapporto tra uomo e ambiente inteso nella accezione quanto più ampia e completa possibile del termine. Non solo contesto naturale quindi – tematica ampiamente trattata da ricerche e trattazione attorno all’idea di Antropocene – ma anche e soprattutto contesto fenomenologico, tecnologico e biologico di cui la Natura è appunto la summae complessiva. Per interpretare questa complessità, abbiamo strutturato il progetto curatoriale in tre parti: un’installazione (The Nemesis Machine – From Metropolis to Megalopolis to Ecumenopolis del software artist inglese Stanza) che illustra il rapporto tra l’uomo contemporaneo e il costrutto tecnologico attorno a noi, una performance (Force Field del duo di science-artist Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand) che evidenzia la nostra interdipendenza con l’universo sub-atomico che ci sottende, due tavole rotonde (la prima con ospiti Ariane Koek, Alfredo Cramerotti e Ugo La Pietra, la seconda con la presenza di Paolo Rigamonti, Bertram Niessen e Salvatore Di Dio) in cui discutere il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente fenomenologico, il layer invisibile che si sovrappone alla realtà in cui viviamo, e il rapporto tra tecnologia-ambiente-percezione. A queste tre fasi è legata infine una ricostruzione filologica e storica di contestualizzazione del progetto attraverso alcune opere dell’artista Ugo La Pietra, a cura di Ilaria Bignotti.
*Intervista tratta da Espoarte #104.
Marco Mancuso è critico, curatore, docente ed editore indipendente, che focalizza la sua ricerca sull’impatto delle tecnologie e della scienza sull’arte, il design e la cultura contemporanea. Fondatore e direttore dal 2005 della piattaforma Digicult, del Digimag Journal e della casa editrice Digicult Editions. Insegna presso NABA e IED a Milano, Accademia di Belle Arti Carrara di Bergamo. Fa ricerca e cura mostre e progetti sul rapporto arte-tecnologia ed è stato partner di molte delle più importanti istituzioni internazionali del settore. Tiene conferenze e prende parte a tavole rotonde e incontri ed è dottorando di ricerca presso l’Università IUAV di Venezia. È autore del libro Arte, Tecnologia e Scienza. Le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea per Mimesis Edizioni e collabora con lo spazio per l’arte Adiacenze di Bologna.
IL VOLUME:
Marco Mancuso. Arte, Tecnologia e Scienza.
Le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea
Mimesis Edizioni, Collana Eterotopie, pp. 292
www.mimesisedizioni.it
IL PROGETTO:
FANTOMOLOGIA. Dal micro al macro ai fenomeni del reale
a cura di Marco Mancuso, Daniela Tozzi e Ilaria Bignotti
nell’ambito di das – dialoghi artistici sperimentali
fino al 6 aprile 2019
CUBO Unipol
Piazza Vieira de Mello 3 e 5, Bologna
Info: www.cubounipol.it