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BOLOGNA | Galleria Studio G7 | Fino al 20 settembre 2023

Intervista a DANIELE CAPRA di Gabriele Salvaterra

In un mondo sempre più preda del disinteresse, del disimpegno e dell’assenza di coinvolgimento politico (nel senso ampio di “relativo alla polis”, alla cittadinanza), la mostra curata da Daniele Capra alla Galleria Studio G7 cerca di fare una cosa molto semplice ma, nel suo piccolo, rivoluzionaria: far ragionare sul fatto che ogni gesto nello spazio, anche il più minuto, porta con sé questioni di etica e responsabilità.
Space as a Duty of Care non è una mostra politica in senso stretto, ma un progetto che, senza sottomettere opere e artisti alla dimensione del tema didascalico o dell’ambientalismo di maniera, insiste su quanto sia cruciale vedere lo spazio come ambito di cura, del quale curarsi, per il quale avere preoccupazioni e nel quale inserirsi con coscienza.

Veduta della mostra Space as a Duty of Care, Courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna Foto: Francesco Rucci

Ciao Daniele, ti trovo sempre molto impegnato con progetti e idee curatoriali. All’interno delle direttrici di ricerca che stai seguendo in questo periodo come si situa la mostra alla Galleria Studio G7?
La mostra nasce da un’intuizione avuta la scorsa estate mentre ero a pranzo con Giulia Biafore, direttrice della galleria. In quell’occasione abbiamo iniziato a discutere di cura e responsabilità verso ciò che ci circonda. Alcuni studio visit che ho avuto nei mesi successivi mi hanno poi portato a ragionare su come lo spazio sia, per alcuni artisti, non solo il luogo del possibile, ma anche del rigore e della responsabilità. Per loro l’opera non ha semplicemente delle funzioni espressive, ma nasce da un senso di coscienziosa responsabilità esterno all’artista, generico e in qualche modo collettivo. Lo spazio, quello astratto e quello fisico occupato dall’opera, è così un campo in cui esercitare una vigile e assennata attenzione.

Veduta della mostra Space as a Duty of Care, Courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna Foto: Francesco Rucci

L’elemento della cura per le cose del reale che hai usato come filo conduttore per questa mostra crea sottili cortocircuiti tra le procedure degli artisti selezionati e quelle del critico, solitamente addetto alla “messa in scena” delle opere che ha deciso di raccogliere. Sei interessato a questa osmosi tra aspetto visivo/creativo e, diciamo così, organizzativo? In altre parole: curatore come artista mancato o viceversa?
L’aspetto organizzativo è una semplice conseguenza dell’idea, mentre la scelta di un’opera e la sua collocazione in uno spazio rispondono a delle necessità argomentative e a delle questioni pratiche. In questo contesto il ruolo del curatore è quello di alimentare un’idea, contribuendo a distillarla dalle opere attraverso la scrittura, la mostra e le relazioni, sia dal punto di vista perfettivo/concettuale che fisico. L’allestimento è come il montaggio di un film, senza la stretta cronologia del cinema, ma con in più la questione dello spazio, dell’ingombro delle opere e dei movimenti dello spettatore. Per esempio gli spazi di Studio G7 non consentono una visione di ciascun lavoro in forma esclusiva. Ogni opera è sempre in dialogo con le altre, e vanno ridotti al minimo i rischi di conflitto visivo. In generale non penso il curatore debba essere artista, ma di certo possedere dei “contenuti” e delle forme per mostrarli e renderli intellegibili.

Lo spazio è l’altro elemento cardine di questo progetto, ma lo spazio è tutto, ci pervade costantemente. In che modo i cinque artisti riescono a tematizzarlo con originalità?
Nella pratica di questi artisti lo spazio è il luogo del possibile, del rigore e della cura. Le loro opere, che sono accomunate da una spiccata tensione formale e concettuale, possono essere interpretate come azioni di consapevolezza nei confronti delle tre dimensioni. In particolare in relazione all’ingombro (Simon Callery), alla storia di un oggetto (Anneke Eussen), all’intensità (Jacopo Mazzonelli), alla superficie (Goran Petercol) o al limite fisico dei materiali (Silvia Stefani). Lo spazio è per questi artisti un’estensione illimitata in cui poter testare le proprie grammatiche, proporre i propri dubbi e interrogare l’osservatore.

Veduta della mostra Space as a Duty of Care, Courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna Foto: Francesco Rucci

In che modo un progetto come questo si lega al crescente interesse che ho notato nella tua attività per la pittura in generale e quella praticata dalle giovanissime generazioni in particolare?
Non penso ci siano delle relazioni dirette. Ho tanti amori e tendo fenomenologicamente a occuparmi di aspetti differenti della produzione artistica. Ho troppi dubbi per avere argomenti ricorrenti o un medium preferito, anche se la pittura è sempre stata una compagna fedele dei miei progetti, ben prima della moda recente. L’unica cosa forse in comune nelle mie mostre è la ricerca (utopica?) della necessità, di opere e progetti che siano originali, veri, al di là del fatto che ognuno di essi sia un tentativo…

In breve cosa vorresti che si portasse a casa il visitatore di Space as a Duty of Care?
Mi piacerebbe che il visitatore avvertisse che la forza dell’opera sta essenzialmente nel suo essere una presenza instabile e discontinua rispetto al tessuto ordinario che chiamiamo realtà. Un’opera significativa dà forma all’imprevedibilità e deve mostrarci qualcosa che prima non si era manifestato né conoscevamo. O, in maniera ancora più sorprendente, qualcosa che prima era per noi del tutto invisibile.

Veduta della mostra Space as a Duty of Care, Courtesy degli artisti e Galleria Studio G7, Bologna Foto: Francesco Rucci

 

Simon Callery, Anneke Eussen, Jacopo Mazzonelli, Goran Petercol, Silvia Stefani
a cura di Daniele Capra

Fino al 20 settembre 2023

Galleria Studio G7
via Val d’Aposa 4/A, Bologna

Info: +39 051 2960371 – +39 3398507184
info@galleriastudiog7.it
www.galleriastudiog7.it/

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