a cura di Elena Dolcini
Intervista a ATTILIA FATTORI FRANCHINI
Quando arrivo all’Atelier Dalston, caffè in East London dove ho appuntamento con Attilia Fattori Franchini, sono le undici di mattina; solo un paio di tavoli sono liberi, il resto è occupato da portatili mac e dai loro user, presumibilmente a lavoro. Un particolare da non tralasciare quando a posteriori ripenso alla conversazione con Attilia…
Curatrice italiana a Londra da sei anni, Attilia è di Pesaro, ha studiato in Bocconi, ma una volta terminata l’università, come molti altri giovani, ha sentito il bisogno di espatriare e vivere all’estero. Pensava a Londra come a una sistemazione temporanea, il suo obiettivo era New York, ma dopo un corso post-universitario alla Goldsmith University e anni di gavetta ha capito che la capitale britannica era più di una contingenza: “Mi interessa analizzare il nostro divenire storico – ha esordito la Franchini – e Londra è la città ideale dove osservare il qui e ora; ogni giorno succede qualcosa a livello artistico (e non) e questo dinamismo culturale è uno stimolo per la creatività delle persone.”
Quando hai iniziato a curare mostre?
All’università; in Goldsmith abbiamo organizzato una mostra collettiva con un open call di artisti e in quel momento ho capito cosa significa per me la pratica curatoriale, non una disciplina teorica ma un vero e proprio evento, attraverso cui mi sforzo di interpretare il lavoro degli artisti con cui collaboro.
La curatela per te non è solo un progetto artistico ma anche un’emozione, un avvenimento personale e relazionale. Quando ne parli il tuo entusiasmo è palpabile…
Sì, quando lavoro con artisti, sia che li conosca per passate collaborazioni sia che siano persone appena incontrate, mi accorgo che si tratta di un passaggio di fiducia. Le mostre collettive in particolare mi permettono un approccio più creativo; non si tratta solo di facilitare gli artisti, ma di metterli in relazione tra di loro, estraniando le loro pratiche dai contesti abituali per esplorare nuove connessioni formali e di significato.
In questi anni a Londra hai avuto numerose esperienze, anche differenti tra loro, ne vuoi accennare alcune?
Ho iniziato con un tirocinio nello spazio espositivo della Collezione Zabludowicz; sono stati mesi stimolanti, durante i quali mi sono relazionata a un importante spazio pubblico e alla gestione di una collezione privata. Poi nel 2012 ho incontrato Nick Hackworth, allora direttore della galleria Paradise Row. Nick mi ha chiesto di coordinare quello che doveva essere un cambio nella programmazione e io ho accettato volentieri. Da quel momento in poi, per un anno, ho curato il Basement, un programma dedicato ad artisti emergenti, ospitato nella pianta bassa della galleria. Purtroppo la Paradise Row ha appena chiuso, ma questo non significa che ciò che abbiamo iniziato in quel contesto non si possa sviluppare altrove.
Dove per esempio?
Uno dei progetti che stavo finalizzando al momento della chiusura di Paradise Row è un group show che inaugureremo nella prossima primavera alla Seventeen gallery. Yuri Pattison, con cui collaboro da tempo, sarà uno degli artisti coinvolti; il suo lavoro si concentra sul rapporto tra lo spazio digitale e fisico, l’impatto che i progetti on-line hanno sui sistemi politici e sociali.
Qui introduci un tema a te caro, la post-internet art, argomento problematico per quanto riguarda la sua definizione (e non solo). Considerando il mio dilettantismo a tal proposito, potresti dare ai lettori qualche coordinata?
Premetto che il mio lavoro è on-line come off-line; per me la post-internet art è più un sentimento, un approccio alla creazione artistica. Non credo nel costringere le parole in categorie; tra l’altro questa è una definizione che è destinata a essere dimenticata, perché tutto è già, e sarà ancora di più negli anni a venire, post-internet. Faccio parte del progetto Opening Times, una piattaforma online dedicata alla promozione e ricerca in ambito digitale attraverso commissioni e residenze; qui commissioniamo lavori online per dare possibilità ad artisti con pratiche differenti di sperimentare con il formato. Ad esempio, abbiamo chiesto la collaborazione di Ruth Proctor, artista inglese rappresentata da Hollybush Gardens qui a Londra e da Norma Mangione in Italia, che non lavora con internet in maniera specifica. Il nostro lavoro online, come dicevo, è più un’attitudine, una presa di coscienza che in questo momento storico non si può prescindere da internet. Ciò che il movimento post-internet sottintende è che nell’arte contemporanea è molto raro lavorare con un solo medium; l’artista tende ad appropriarsi dei vari mezzi, pittura, scultura, installazione e performance, senza alcuna gerarchia.
Come credi che sia vista l’Italia da Londra, cosa arriva qui del nostro fermento contemporaneo e infine cosa credi che renda unici l’esperienza e il mercato artistico anglosassone?
Tralasciando poche realtà come il Mart di Rovereto, le Fondazioni Prada e Trussardi o la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, qui arrivano poche informazioni. Ma non c’è da meravigliarsi; l’audience locale in Gran Bretagna non trova informazioni sull’arte oggi in Italia. L’utilizzo dell’inglese è minimamente diffuso e ciò impedisce uno scambio non solo linguistico ma anche culturale. La più grande differenza tra il Regno Unito e l’Italia per quanto riguarda l’arte sta nell’educazione e nelle politiche di governo; qui l’arte è un cultural capital, è business. Negli anni novanta il movimento degli Young British Artists e l’apertura della Tate Modern nel 2000 hanno cambiato per sempre il corso degli eventi.
Purtroppo però anche qui le cose sono deteriorate; ora, affitti alle stelle e in generale uno spropositato costo della vita stanno mandando all’aria le conquiste del passato, spingendo tutti gli artisti, di fama non ricchi, fuori dalla città. Ora Londra sta mangiando le briciole di vent’anni fa.
Info: otdac.org