a cura di Elena Dolcini
Intervista a LUCIA FARINATI
“Change doesn’t occur through a single authorship” [Suzanne Lacy]
L’intervista con Lucia Farinati si è svolta nel suo studio di Islington a Londra, in un pomeriggio di giugno. Curatrice indipendente, Lucia è a Londra dalla fine degli anni novanta; qui ha partecipato a numerosissimi progetti tra arte e attivismo. Durante la nostra chiacchierata diventa chiara la centralità della capitale britannica all’interno di un discorso sull’arte. Da un lato, metropoli che ha sempre promosso l’arte, anche e soprattutto da un punto di vista di marketing; dall’altro, città che favorisce il momento creativo come protesta contro scelte capitalistiche. Lucia mi racconta storie, aneddoti, ma anche la sua visione professionale; la condizione d’essere della sua critica è il cambiamento, che non deve necessariamente accadere per essere vero. Anche solo la sua immaginazione, la sua utopia, implica mettere in discussione la realtà e, con questa, le strutture sociali e di potere.
Da Trento, dove hai studiato storia dell’arte ed estetica, a Londra dove continui a essere impegnata in un discorso e pratica sull’arte pubblica. Ci vuoi descrivere il tuo background?
Sono arrivata in Inghilterra nel 1999, inizialmente a Leicester, dove ho frequentato un master in European Cultural Planning, dall’approccio trasversale imperniato sui cosiddetti piani culturali europei; questo è un settore che analizza come la cultura, nell’accezione ampia del termine, sia utilizzata come risorsa per le politiche di sviluppo urbano. Da tempo ormai l’arte fa parte del cosiddetto capitale culturale e la si utilizza a livello di marketing per riqualificare aree urbane o periferiche che ancora non hanno subito il processo di gentrificazione, un termine che potremmo semplificare, se vuoi, con igienizzazione. Terminato il mio periodo a Leicester, sono arrivata a Londra dove ho studiato al Goldsmiths College, frequentando un master in Creative Curating.
Arte pubblica e curatela sono due termini che, pur facendo parte del mio vocabolario, non sono mai del tutto chiari e cristallini; cosa intendi per arte pubblica, a quale definizione e pratica ti senti più vicina? A cosa invece ti riferisci con curatela?
Arte pubblica è un’espressione dalle molteplici dimensioni: da un lato c’è chi la vede come un mero arredo urbano, per cui l’arte rientrerebbe all’interno dell’azione sofisticata dei governi per rilanciare lo spazio urbano. Indipendentemente dalla loro fazione politica, i governi qui in Gran Bretagna hanno sempre dato molto importanza alle industrie culturali e all’arte quale elemento catalizzatore, propagando da un lato il mito del creativo e del self-made man, che da solo, è capace di realizzare i suoi progetti. È un paese fortemente orientato al business e studiare qui mi ha aiutato a capire questa tendenza; un approccio educativo certamente utile per sviluppare un’attività autonoma ma al contempo problematico poiché fagocita un’idea dell’arte fondata sul talento e le capacità individuali, anziché promuovere l’arte e la cultura come risorsa comune. Arte pubblica può significare infatti anche arte per e con il pubblico, arte come impegno sociale (socially engaged practice), per cui il momento creativo è quello relazionale e partecipativo. Io, personalmente, definisco l’arte pubblica come la sfera dialogica che dà spazio al dibattito. Per quanto riguarda il termine curating prima di tutto terrei a specificare che per me è una parola molto distante dalla tradizionale visione critica legata all’estetica. La curatela è nella sua essenza un processo creativo per sé, costruzione, decostruzione e ri-creazione di un percorso che non si esaurisce nel momento espositivo, o nella semplice realizzazione di un’idea. Per me essere curatrice significa svolgere un’attività di critica operativa, ovvero critica subordinata all’insieme delle operazioni che implicano un certo modo di produzione e distribuzione di un’opera, e non tanto un giudizio a priori. Ciò che mi interessa è il processo, non tanto il prodotto finito. Ecco dove per me va posizionato il curatore, in itinere, pensandolo come a un facilitatore, a un compagno di strada
Prima di Sound Threshold, hai preso parte a numerosissimi progetti; ci vuoi raccontare alcuni momenti cruciali della tua esperienza come curatrice, soprattutto in prospettiva del tuo impegno attuale?
Un progetto molto importante per me è stato quello legato alle Olimpiadi del 2012 qui a Londra dal titolo We Sell Boxes We Buy Gold; le Olimpiadi sono state un evento dalla portata indescrivibile per la città e le persone che la abitano, o meglio, che l’abitavano. Mi riferisco in particolare al caso di Clays Lane Estate in Stradford, nella zona est di Londra; Clays Lane Estate era un gruppo abitativo dalle notevoli dimensioni, il secondo esempio di cooperazione sociale abitativa che si sia mai realizzato in Europa. Le case sono state demolite per le Olimpiadi del 2012, per essere sostituite dal villaggio olimpico, all’interno del massiccio progetto di gentrificazione che da anni caratterizza il paesaggio urbano di Londra. Le cosiddette housing-coops sembrano scomparire; negli anni ottanta/novanta sono state invece una realtà estesa e importante per la nascita di molti spazi auto-gestiti da artisti (artist-run spaces). Con una politica abitativa quasi inesistente, Londra è diventata il paradiso della proprietà privata, una città che non va per nulla incontro alle classi meno abbienti. Insieme con alcuni artisti, abitanti di Clays Lane e studiosi esperti di gentrificazione abbiamo realizzato una mappatura della zona dando origine a un dibattito molto acceso; seguendo una metodologia di esplorazione in situ, abbiamo utilizzato la camminata per documentare luoghi e spazi che non esistono più. Questo progetto si è poi tradotto in un archivio audio che vedo proprio come un omaggio, un memorial a Clays Lane.
Cosa ti piace di più nel tuo lavoro di curatrice?
Ho scelto l’ambito della curatela perché ho sempre avuto l’esigenza di capire come lavorano gli artisti. Stabilire con loro un rapporto diretto, e un dialogo a lungo termine è per me un fattore essenziale così come lavorare in situ. Forse una delle cose che preferisco del mio lavoro e’ proprio il momento della ricerca sul campo. Per esempio raccogliere informazioni sulla città o i luoghi scelti per la produzione; in particolare mi piace ascoltare lo spazio urbano e creare momenti di dialogo e incontro. Al contrario, non sono interessata alla galleria nella sua accezione standard; non parlo del museo, che mantiene tuttora il suo fascino e interesse educativo, ciò in cui non mi riconosco è il white cube, piccolo o grande che sia! Il suono mi ha sempre incuriosito, anche se devo dire che questo mio interesse è per così dire casuale; non vengo né dalla musica né dalla video arte. Probabilmente ciò che mi attrae è la sua promiscuità, il suo assumere un significato sfrangiato, ad esempio quando si tratta di distinguere tra pubblico e privato. È infatti impossibile circoscrivere questi due territori da una prospettiva sonora; non credo alla teoria del suono puro, anche se è un filone molto importante nella sound art. Lo stesso concetto di soglia (threshold) scelto come riferimento nella mia ricerca, è ciò che guida in generale il mio operare a livello curatoriale.
L’ascolto è il filo rosso tra Sound Threshold e il progetto a cui stai lavorando in questo momento. Cosa significa per te ascoltare?
Fondamentalmente significa instaurare un rapporto dialettico con l’altro. Inizialmente Sound Threshold era nato nel 2007 da una collaborazione con Daniela Cascella, allora critica musicale di Blow Up, nonché scrittrice e curatrice di progetti legati al suono. Ho sempre visto Sound Threshold come una piattaforma di collaborazioni artistiche, o, se vuoi, uno spazio dialogico che a partire dall’interesse specifico per il suono abbraccia un approccio inter-disciplinare sull’ascolto. Tra le collaborazioni recenti vorrei citare per esempio quella con con Elena Biserna e Rita Correddu, co-curatrici di bib bop; insieme abbiamo creato dei gruppi di lettura intorno ad Autoritratto di Carla Lonzi. Tramite un’operazione che potrei definire meta-critica abbiamo voluto ridare voce (non solo metaforicamente trattandosi di un progetto nato originariamente per la radio) ad un testo che mette in discussione il ruolo del critico come detentore di potere, un potere che oggi si manifesta nelle grandi manovre curatoriali. Il progetto a cui sto attualmente lavorando tratta sempre il tema dell’ascolto; insieme all’artista Claudia Firth stiamo co-scrivendo un libro sul ruolo dell’ascolto tra arte e attivismo. È un lavoro in progress, che è nato dall’esigenza di riflettere su un tema che ci tocca da vicino poiché facciamo parte da qualche anno di un collettivo di attivisti formato da artisti, operatori culturali e insegnanti. Il tema dell’ascolto non ha finora avuto una trattazione estesa in campo filosofico e artistico, eccetto alcuni studi recenti dedicati alla sound art e alla musica. I miei punti di riferimento non sono tuttavia i sonic studies ma le opere di alcune femministe come Susanne Lacy e Adriana Cavarero; la prima è una figura imprescindibile per una storia dell’arte pubblica incentrata su termini quali processo, empatia, dialogo. La sua pubblicazione Mapping the Terrain. New Genre Public Art è una pietra miliare e sicuramente il libro da cui partire per ripercorrere i nessi tra arte relazionale, ascolto e attivismo. Adriana Cavarero è una filosofa italiana che da anni indaga il tema della voce in rapporto al concetto di azione (politica) teorizzato da Hannah Arendt. A partire da questi riferimenti il nostro libro seguirà un approccio dialogico strutturato attraverso le conversazioni con vari collettivi di attivisti e artisti che hanno sperimentato diverse modalità di ascolto nella loro pratica politica e artistica.
Mi sembra di capire che la tua idea di arte sia decisamente pragmatica; fare arte così significherebbe immaginare ed eventualmente realizzare un cambiamento, visibile e condivisibile all’interno di una comunità. Penso alla dialettica come al processo di tesi, antitesi, sintesi di cui mi parlavi per descrivere il tuo rapporto con Londra.
Per me vivere a Londra è sinonimo di fare-disfare-rifare, per vivere qui bisogna essere capaci di disintossicarsi regolarmente, e perciò il momento del disfare, diciamo dell’undoing, è fondamentale, probabilmente il più importante. Allo stesso modo, questo è un processo dialettico associabile anche all’attività curatoriale; forse allora sarebbe più appropriato descrivermi come una curatrice non-curatrice, o così mi viene da dire quale corollario a questa conversazione che mi auguro continuerà…
Info: www.soundthreshold.org