a cura di Elena Dolcini
Intervista a GIOVANNA PATERNÒ
Clerkenwell di sabato mattina è una zona poco trafficata; i lavoratori della settimana non affollano le strade e molti negozi, bar e perfino le onnipresenti multinazionali del cibo take-away sono chiuse. È un sabato vicino alla City, dove il business è infrasettimanale, mentre dal venerdì sera al lunedì mattina si è come in stand-by. Anche se centrale, la zona di Clerkenwell non ha nulla di stereotipato e prevedibile, al contrario, sorprende con la propria personalità e ritmo rilassato; e allora, tra una serranda abbassata e l’altra, si possono incontrare vari negozietti e bar indipendenti, ad esempio lungo Leather Lane, una tra le mete imperdibili per lo scettico italiano che crede che il nostro caffè sia il più buono al mondo.
Anche numerose gallerie d’arte popolano le strade del quartiere; queste sono attività per cui il sabato è speranza, dal momento che chi non lavora ha finalmente tempo di fare un salto in galleria e guardarsi intorno. Vado a trovare Giovanna Paternò, proprietaria di dalla Rosa gallery. Giovanna mi racconta della sua esperienza personale, passato, presente e futuro di una giovane italiana a Londra da dieci anni, e della sua passione per l’arte contemporanea, perfettamente visibile nell’impegno con cui gestisce e porta avanti la sua galleria.
Come sei arrivata qui, Giovanna? Ora come ora il profilo professionale del gallerista è molto variabile; diciamo che non c’è un tracciato pre-definito da seguire, e gli addetti ai lavori vantano le specializzazioni più eterogenee. Qual è il tuo background?
Ho studiato storia dell’arte all’Università di Firenze e dopo la laurea ho deciso di trasferirmi all’estero, dove, almeno qualche anno fa, l’arte contemporanea era più popolare e accessibile. L’Italia, e soprattutto l’Università di Firenze, per lo meno all’epoca, erano più orientate allo studio se non proprio del classico, direi del moderno, ma di certo non del contemporaneo. Ormai sono dieci anni che sono a Londra, e dopo tirocini in case d’asta ed esperienze nel settore dell’editoria, ho deciso di aprire il mio spazio. Siamo aperti dal 2010, una galleria giovane quindi; inizialmente gestivo uno spazio in una warehouse (deposito) in zona Whitechapel, poi, dopo una breve parentesi in uno spazio nel quartiere di Hackney, mi sono definitivamente trasferita a Clerkenwell. Tutti mi chiedono da dove proviene il nome della galleria; dalla Rosa è il cognome da nubile di mia madre. L’ho scelto perché è semplice da ricordare e soprattutto da pronunciare anche per le persone inglesi, quindi più memorabile.
Dalla Rosa gallery è uno spazio mini, per così dire; le mostre sono organizzate nella stanza che fa anche da entrata. Per te il piccolo non è solo una questione di dimensione, ma anche la tua personale scelta curatoriale. Una scelta molto coraggiosa, direi, considerando quanto agli occhi delle persone, anche inconsciamente, il binomio grande-bello gioca un’assoluta importanza. Tu invece ti interessi principalmente di lavori su carta. Da dove viene questa passione?
Direi che in generale ha a che fare con un’idea specifica di produzione e del suo relativo valore; voglio dimostrare ciò che si può realizzare quando si ha a disposizione un materiale apparentemente limitato. La scelta della carta parte da un interesse e gusto personale, a cui si è aggiunta la volontà di valorizzare il mezzo, non come disegno preparatorio, ma come materiale autonomo. La carta, nella cui definizione includo anche il collage e lavori mixed-media, è intima e il suo essere per così dire approcciabile si contrappone a un’opera d’arte grandiosa e ampollosa.
Lavori con artisti italiani solitamente? C’è un metodo specifico attraverso cui scegli le tue collaborazioni?
Tendo a collaborare con artisti che vivono a Londra, italiani e non; questo perché ho l’urgenza di poter constatare il lavoro dal vivo. C’è troppa differenza tra l’aspetto di un lavoro sullo schermo di un computer e quello in carne e ossa, per cui preferisco collaborare con artisti che posso visitare in studio, anche per constatare lo sviluppo del lavoro in situ e discutere progetti futuri nel contesto giusto.
Nonostante certe difficoltà logistiche, per ora, questa autonomia non mi dispiace, anzi è un modo per tenere sotto controllo l’andamento della galleria, per capire cosa è necessario o meno perché questo business possa continuare. Ciò che per me è fondamentale quando si tratta di iniziare a collaborare con nuove persone è una comprensione reciproca. Con tutti gli artisti con cui lavoro si tratta di una partnership, i ruoli sono separati, ma la responsabilità di promuovere le loro carriere è condivisa. Il dialogo, se continuo e produttivo, aiuta a comprendere cosa posso aspettarmi dagli artisti e vice-versa. Alcuni vivono nel mito dell’essere rappresentati, ma se non esiste reale collaborazione la galleria (specialmente se è ancora ai primi passi) non può prendersi carico di tutto il lavoro necessario per avanzare in un mondo così competitivo.
Parlando strettamente di business, che differenze trovi tra la situazione londinese e la nostra in Italia?
Sinceramente, ci penserei due volte prima di aprire una galleria d’arte contemporanea in Italia, anche nei momenti in cui l’economia sembra felice. Questo per l’eccesso burocratico che ha sempre caratterizzato e continua a caratterizzare il nostro Paese. In Gran Bretagna è tutto più veloce e snello e c’è meno pressione fiscale.
In settembre la galleria ospiterà una mostra collettiva dall’interessante titolo di Pseudo-Museologia; puoi descrivere in anteprima il progetto?
Certo, sarà una collettiva di quattro artisti, Kasper Pincis – una delle sue opere è stata recentemente acquistata dalla National Art Library (Victoria & Albert Museum) – Catrin Morgan che ha da poco completato un dottorato in Visual Communication al Royal College of Art, la giovane artista francese Caroline Corbasson, che al momento è parte della collettiva They Used To Call It The Moon al Baltic di Newcastle, ed infine l’artista inglese Jane Hayes Greenwood. Questi artisti sono accomunati dall’uso di un codice visivo analitico – se vuoi serio – che presenta allo spettatore un linguaggio simile a quello delle categorie di studio ed analisi di vari dipartimenti museologici. Immagini che si rifanno a reperti archeologici, studi meteorologici, cartine geografiche; questi sono alcuni dei temi trattati dalla mostra. La museologia del titolo sta a indicare la struttura impostata su concetti tradizionali di fruizione; allo stesso tempo riesce a esprimere un senso ludico e per questo abbiamo aggiunto il prefisso pseudo. L’inaugurazione della mostra sarà a settembre e non vedo l’ora di installarla.
Info: www.dallarosagallery.com