PISTOIA | MUSEO DEL NOVECENTO E DEL CONTEMPORANEO DI PALAZZO FABRONI | 2 ottobre – 28 novembre 2021
di ANTONELLO TOLVE
Nel suo ridisporsi in questa prima antologica organizzata a Pistoia, il lavoro di Giovanni Termini mostra il pieno volto di una plasticità tutta giocata – orientata direi – attorno al duplice coinvolgimento di spazio e di tempo, intesi dall’artista come materiali indispensabili della sua prassi linguistica.
Articolandosi negli eleganti ambienti del Museo del Novecento e del Contemporaneo di Palazzo Fabroni, questo nuovo percorso è infatti da intendersi non solo come un progetto – a cura di Marco Bazzini – che raccoglie opere realizzata tra il 2010 e il 2021, ma anche come un momento, per l’artista, di autoriflessione, come un territorio di fertile agire, come un luminoso labirinto di ipotesi («quasi laborem / habens intus» suggerirebbe Sanguineti) mediante le quali riarticolare la progettualità, varcare ulteriori soglie di possibilità, esercitare nuove pressioni formali su una forma che non è chiusa e che non va più vista come eterna o immutabile, ma anzi in process, in itinere, in divenire: caricata, in alcuni casi, di varianti dettate e determinate dalla ricollocazione e riorganizzazione dell’opera («personalmente sostengo che lo spazio sia in sé il pretesto per denunciare, attraverso storie residuali già presenti nel luogo, aspetti legati all’essere-tempo e al suo divenire»). L’imponente Armatura (2013) che l’artista ebbe a concepire in occasione della sua personale alla Fondazione Pescheria Centro Arti Visive di Pesaro è oggi riorganizzata, ad esempio, nella sala monografica dedicata a Claudio Parmiggiani, per dialogare con la stupefacente Scultura d’ombra e ri-mettersi-in-forma nello spazio, tanto da prendere per la coda il concetto di re-enactment messo in campo da André Lepecki, e dunque di subire una naturale (misurata) metamorfosi grazie a un andamento dinamico che rileva – e con estrema chiarezza – la problematica teorica di una scultura aperta a evoluzione, riarmata, non più fossilizzata o staticizzata ma anzi rilocalizzata e contestualmente riformata. «Se devo parlare nello specifico della ricollocazione del lavoro, non posso non parlare che di una nuova sfida perché si tratta proprio di una nuova spazializzazione, di un riposizionamento (anche ideologico), di un rapporto differente con lo spazio circostante e dunque con il contesto. Quello che maggiormente trovo interessante nella rielaborazione del lavoro è guardare infatti a un’opera che si rigenera nello spazio e nel tempo, vista come un’architettura in costante movimento, che si espande e si rinnova di continuo, e che personalmente devo dire che mi accomuna ad alcune riflessioni poste al centro dell’attenzione da Kurt Schwitters», suggerisce l’artista in una traccia di poetica.
Al primo piano del museo, tra le opere della collezione permanente, Termini colloca e ricolloca, occupa e ricalibra alcuni lavori – propone Ipotesi (2018) nella sala Nigro, L’equilibrio dell’incongruo (2018) in quella dedicata a Melani, Idea di coesione (2013) nella Nativi, Stretta all’angolo (2015) nella Chiari, Dialogo costruttivo (2017) in quella di Castellani – con una ritmica sofisticata, con una magistrale attenzione nei confronti del particolare e dell’insieme.
Legati tutti ai meccanismi poetici dell’остранение così come indicati da Šklovskij per avvalorare una certa tattica adottata da Tolstoj, la cui scrittura mira a «vedere le cose, estratte dal loro contesto» con uno sguardo affilato, capace di trasportare un oggetto «dalla sua percezione abituale nella sfera di una nuova percezione» tanto da creare, nell’ordine del discorso, «una originale variazione semantica», i lavori di Termini mirano a isolare, a inquadrare, a trasporre, a trasformare alcune dinamiche prese a prestito dal mondo della ingegneria, della carpenteria o della muratoria, per spostare l’oggetto (o il materiale) dal suo ambiente comune e offrire al pubblico uno sguardo differente – anche ironico, erotico, eretico, tragicomico – sull’abitudinarietà del quotidiano.
Visto da una latitudine strettamente spaziale – del farsi-spazio e del fare dello spazio un ingrediente indispensabile, appunto, dell’opera – ogni progetto di questa sua brillante mostra intitolata da quale pulpito (titolo ambiguo e bifronte che si identifica non solo nella reale materialità di un pulpito ma anche nello sprezzante detto italiano che ironizza sulla presunta superiorità di qualcuno che vive nei propri allori) è aperto all’aperto dell’altro, a una dinamicità dove esterno e interno dell’opera vivono profondi rapporti di compartecipazione e di compenetrazione.
Ritrovare al secondo piano il Tempo instabile con probabili schiarite (2018) – realizzato per la prima volta nell’ampio capannone della Galleria ME Vannucci di Pistoia – diviso da un muro, efficacemente sezionato per assecondare lo spazio circostante e assimilare la struttura architettonica del museo, è davvero emozionante: qui Giovanni Termini tocca dei punti di alta abilità, di camaleontismo e cannibalismo e versatilità che lasciano senza parole.
C’è, in questo brillante itinerario dove ogni singolo progetto pre-vede e pre-occupa lo spazio di quello successivo (nel suo proiettarsi e rivoltarsi come racconto, nel suo riadattarsi e riformarsi e ridarsi), un lavoro più recente, Tappeto in-solido (del 2020) installato nella sala Carnicelli e metaforicamente spinto verso una ridefinizione del rapporto tra l’arte e l’abitare.
In una delle otto colonne di Armatura, va ricordato e sottolineato, l’artista ha intelligentemente e sensibilmente innestato qualcosa di nuovo che si mette in contatto ad ampio spettro con il preesistente: «è stato costruito questa volta un pulpito (da qui il titolo della mostra da quale pulpito) con sopra posizionata una comune sedia, spesso utilizzata nelle manifestazioni e negli eventi cittadini» avvisa Termini. «Tra l’altro, innestando il pulpito sulla colonna e la sedia sul pulpito, si è generato un nuovo rapporto con lo spazio circostante perché il pubblico può potenzialmente sedersi e guardare, attraverso una delle due finestre della sala in cui è collocato il lavoro, la Pieve di Sant’Andrea che a sua volta contiene al suo interno un altro pulpito, quello di Giovanni Pisano».
Giovanni Termini – da quale pulpito
a cura di Marco Bazzini
2 ottobre – 28 novembre 2021
Museo del Novecento e del Contemporaneo di Palazzo Fabroni
Via Sant’Andrea 18, Pistoia
Orari: dal martedì al venerdì ore 10.00 / 14.00; sabato, domenica e festivi ore 10.00 / 18.00. Chiuso il lunedì
Catalogo Gli Ori
Info:
Massimiliano Vannucci
M. +39 335 6745815
massimiliano.vannucci67@gmail.com
www.vannucciartecontemporanea.com