Un quadro è un capolinea: è un arrivo (per chi l’ha fatto) e una partenza (per chi lo guarda)
(Salvo, pseudonimo di Salvatore Mangione)
Nell’autunno di quasi dieci anni fa Luisa Castellini incontrava Salvo, al secolo Salvatore Mangione, a Torino, nel suo studio. Da quell’incontro nasceva un’intervista pubblicata nel catalogo edito in occasione della mostra personale Salvo. Opere recenti alla galleria Cerruti Arte di Genova. Era il 2006 e solo un anno più tardi la GAM di Torino gli avrebbe dedicato un’importante antologica.
Espoarte si è occupata a più riprese dell’opera dell’artista, morto sabato 12 settembre, nato a Leonforte (in provincia di Enna) nel 1947 ma che da tempo viveva e lavorava nella sua città adottiva, Torino, con incursioni nella sua casa di Costigliole d’Asti, tra Langhe e Monferrato, i cui paesaggi collinari hanno dato tanto alla pittura degli ultimi anni. Una pittura che è stata nella sua vita un “ritorno” dopo le esperienze maturate nel contesto dell’Arte Povera. Nell’intervista che oggi ripubblichiamo Salvo è Vivo, per parafrasare una delle sue più famose Lapidi anni ’70.
Intervista a Salvo di Luisa Castellini
Torino, mercoledì 20 settembre 2006
Lo studio di Salvo ha quel rigore architettonico tutto torinese. Ma gli stipiti delle porte sono lilla e i selezionati pezzi d’arredo – antico – sono un fiorire di luce e colore. Zona di confine, ove il pensiero corre veloce. Come la conversazione, scandita da improvvise ma ricorrenti citazioni. Pittori. Ma anche poeti, scrittori e scienziati, le cui voci sono attualizzate nel pensiero di Salvo, con quella leggerezza anarchica che solo l’esperienza regala e un’ironia latente, che allontana dalle secche della tautologia per approdare alla fluidità della vita e del fare arte. Perché di questo si tratta, di fare. Opere che attraverso la reiterazione e una familiarità rassicurante dischiudono orizzonti di estroflessione. Equilibri sintetici tessono epifanie che sono l’alchimia ineluttabile (T.S. Eliot) di quella emozione.
Torino. Anni ’70.
Quando è nato il futurismo, ogni giovane artista aveva ottime probabilità di aderire al movimento, poiché è insito nella gioventù essere attirati dall’innovazione. Chi invece aveva già maturato il proprio stile, non poteva diventare futurista. Allo stesso modo, quando sono entrato in contatto con quello che era il milieu dell’avanguardia a Torino -che ruotava intorno a Sperone- la pittura non era neppure in discussione. Assolutamente vietata. E così sono nate le opere concettuali: è stato un periodo, anche molto intenso, figlio della gioventù e all’insegna della sperimentazione.
Le Lapidi. Oggi.
Non saprei chi metterci: le liste erano stese con impeto e una certa incoscienza giovanile, quasi per gioco, secondo quelli che erano allora i miei orizzonti culturali. Oggi sarei più prudente e non confonderei poeti, pittori, scienziati e matematici. Forse terrei solo i pittori, e ne resterebbero pochi in lista.
Il pubblico.
È sovrano. Solo quando un comico sale sul palcoscenico scopre, nella risata del pubblico, se è davvero un comico. Altrimenti accetta il fallimento o si rifugia nella convinzione d’essere incompreso. Quando ho deciso di dedicarmi solo alla pittura, in un momento in cui nessuno si sognava di prendere in mano un pennello, cercavo di fare qualcosa d’originale, volevo una voce che fosse soltanto mia (T. Bernhard). Ognuno deve esprimere le proprie differenze, ma in arte è molto difficile perché si copia sempre.
Il tanto citato ritorno alla pittura.
Non c’è stato, perché non ho mai abbandonato la pittura. Anche quando, nei primi anni ’70, un gallerista nascose a un collezionista un mio quadro. Se ne vergognava. A un certo punto, nonostante i miei lavori concettuali fossero apprezzati, ho sentito la necessità di allontanarmi da quella che ormai era una moda, una tendenza troppo generalizzata di un gruppo d’artisti che, comunque, volevano vedere le proprie opere esposte nei musei accanto a Leonardo, Monet o Mondrian. Mi sono chiesto se davvero si fossero esaurite tutte le possibilità d’espressione sulla tela.
La pittura è la capacità di rappresentare lo stesso oggetto in un’infinità di modi differenti.
Rembrandt dipingerebbe questo studio sfruttando la luce del caminetto, Vermeer quella che filtra dalla finestra. Seurat ricorrerebbe ai puntini e Cézanne alla spatola. L’oggetto non ha una possibilità di definizione limitata.
Il viaggio.
Kafka, sentendo che erano in palio un milione di corone per chi avesse attraversato la Groenlandia, commentò che si sarebbe potuto dare lo stesso premio a chi avesse percorso un intero isolato.
Amo viaggiare, ma via terra. Percorrere e attraversare gli spazi, sentendone gli umori e incontrando le persone, anche se si legge dappertutto quanto questo o quel paese sia pericoloso. Certo, a Teheran mi sono scivolati dalla tasca un paio di calzini e appena me ne sono accorto non c’erano più, ma mi è capitato lo stesso a Torino, con un cappello.
Oggi rimpiango i miei primi viaggi, quando dormivo ovunque e arrivavo a Kabul con un dollaro in tasca. La sete di un luogo può innescarsi da un dettaglio: una volta ho visto un film con Kirk Douglas, ambientato in Norvegia. Poi ci sono andato e non ho trovato nulla di quanto c’era nel film che, alla fine, era stato girato da un’altra parte. Ma queste sono esperienze comuni: ogni viaggio ha tre fasi. L’immaginazione, prima della partenza, l’esperienza empirica e, infine, il ricordo. Un ricordo che non può essere preciso e finisce col mescolarsi ad altri, inesorabilmente.
I grandi maestri. Archeologia.
Qualsiasi lavoro è frutto di un’accumulazione. Se sei un giudice devi studiare il codice, se sei un pittore, ti confronti con i maestri. Un pittore copia un quadro, nel momento in cui sbaglia il quadro è riuscito (P. Picasso).
Avverto un mutamento nella percezione dei grandi artisti del passato: oggi sembrano più antichi. Tutto quello che è accaduto nel ‘900, ha allontanato le opere di Botticelli, Leonardo o Raffaello. Sono capolavori posti al riparo dalla critica, qualcosa di imperituro. Dall’impressionismo in avanti, invece, riprende l’esercizio del giudizio, anche se si tratta di un periodo lontano, tutto crinoline, carrozze e cavalli.
Fare pittura.
Per me si è sempre trattato di imparare, di fare qualcosa. Da bambino mi chiedevo come fosse possibile tracciare una linea dritta o sfumare un cielo. I miei primi orizzonti erano azzurri, non osavo usare altri colori ma poi ho imparato, perché esistono i tramonti, i crepuscoli e le notti. Oggi si scorda che pensare o sentire non significa sapersi esprimere. Si tratta sempre di fare qualcosa.
Adesso sono impegnato in un quadro: di notte, in macchina, i fari squarciano il buio proiettando la luce solo sulle corsie dell’asfalto. Non è facile, alla fine si tratta di un quadro quasi totalmente nero. Il primo che ho dipinto non era male, il secondo migliore. Il settimo e l’ottavo saranno ancora diversi. È sempre una sfida, una ricerca costante nel fare.
Lo stile.
È arrivare in tempo. È un accumulo, una stratificazione di tic e manie. Una volta, in un’intervista ho detto -e lo penso ancora- che un pittore, ad esempio Picasso, fa dei quadri. Poi smette e fa dei Picasso. Non avere uno stile è un limite, significa che all’artista manca un’evidenza. Ma il modulo giunge con la pratica e un costante esercizio di sintesi, che mi piace chiamare pulire il pollo. Si racconta che Flaubert, per eliminare un che -tre semplici lettere- impiegò un’intera giornata. Questo credo dia la misura di quanto la sintesi sia un processo faticoso ma necessario, in tutte le arti. Pontiggia impiegava tre mesi per scrivere un libro e almeno due anni a eliminare il superfluo. Ma la ricerca dell’essenziale deve avere un limite, perché esiste sempre un tempo entro cui è necessario giungere all’equilibrio.
I tuoi quadri. Equilibrio di forma e luce. Nessuna cavità o quasi.
Keplero ha scritto che viviamo in un sogno di Dio. Io penso che se è così non c’è posto più tranquillo dove vivere, possiamo abbassare la guardia. Fruttero e Lucentini, guardando un mio quadro, notarono una zona d’ombra. Ma è così la realtà, un’altalena tra splendore e buio. Qualche volta ho dipinto anche porte e finestre ma di norma non lo faccio. I particolari non sono indicali. Quando attraversi una città percepisci la compattezza dei volumi che si stagliano sul tuo cammino, non le feritoie. In pittura non scendo nel particolare per mantenermi sulla struttura primaria dell’oggetto.
L’ignoto.
Ho iniziato a nuotare tardi: un giorno l’insegnante mi chiese all’improvviso di tuffarmi, quando io neppure ci pensavo. Fare un quadro è la stessa cosa: lasciar fare. Da un lato c’è il raziocinio, la parte controllabile dell’opera. Dall’altra, qualcosa che sfugge, un atto involontario, che nei tempi lunghi genera la differenza.
L’evoluzione dell’uomo e dell’arte. Ad maiora!
Poco tempo fa leggevo Faulkner: quando muore un artista se ne cerca un altro. Per lui è questa l’evoluzione fisiologica dell’arte. Se quindi Michelangelo non fosse morto, oggi lavorerebbe ancora. Questa riflessione mi ha sconvolto e ne riconosco la verità, ma ho sempre pensato che l’uomo evolva, in tutti i campi del sapere, sempre verso il meglio. Ma forse, una statua di Lisippo non può essere inferiore a una scultura contemporanea.