REGGIO EMILIA | COLLEZIONE MARAMOTTI | 21 FEBBRAIO – 25 LUGLIO 2021
In tempi non “sospetti”, nel 2019, Ralph Rugoff aveva scelto di dare il titolo May You Live In Interesting Times alla sua Biennale di Venezia. Titolo che, se da un lato evocava l’idea di tempi particolarmente difficili e sfidanti, dall’altro denunciava l’eccesso di semplificazione che troppo spesso si applicava anche all’ambito artistico. Quasi due anni dopo, con un anno di pandemia alle spalle e una crisi sanitaria e sociale in atto, ci troviamo a dover riconsiderare pressoché in toto il sistema dell’arte, aprendoci al digitale e tracciando nuove strade. Capita dunque che una mostra sia presentata online alla stampa ed aperta virtualmente al pubblico tramite private view e conversazioni con l’artista. È questo il caso di HOW TO BE ENOUGH, il progetto ideato dall’artista ruby onyinyechi amanze (Port-Harcourt, Nigeria, 1982) per la pattern room della Collezione Maramotti di Reggio Emilia. In attesa che l’Emilia Romagna torni in zona gialla e che i musei possano riaprire, poniamo alcune domande all’artista che, per la sua prima personale italiana, ha realizzato un monumentale “affresco su carta”.
Cosa significa per un artista non poter essere presente all’allestimento, indipendentemente da tutto il supporto e le professionalità messe in campo dalla Collezione Maramotti? Da artista, come stai vivendo questo particolare momento storico?
È stato difficile non essere lì per accompagnare il lavoro nella sua vita successiva allo studio, per vedere con i miei occhi come stava nello spazio, come lo viveva. Il team della Collezione Maramotti è stato fantastico e si è occupato anche di elementi davvero delicati per completare l’opera. Mi manca, tuttavia, una parte significativa del processo, che non ha trovato una conclusione.
Non sono ancora del tutto sicura di cosa voglia dire vivere questo particolare momento della storia. Mi trovo a fingere che tutto sia a posto, che tutto andrà bene. Sembra oggi davvero strano che un giorno ci guarderemo indietro e ricorderemo o racconteremo quanto accaduto. Ci sono tante emozioni e, allo stesso tempo, un certo torpore. “Tieni duro, finirà presto”, mi ripeto. Ma non posso negare di trovarmi ad analizzare quanto stiamo passando tutti a partire da una posizione privilegiata.
Come artista, non realizzo quello che potrebbe essere considerato come un lavoro politico. Non sono un giornalista o un attivista e non uso il mio lavoro per commentare il presente quindi, in questo senso, la mia pratica non è cambiata. Continuo ad essere me stessa, cercando di restituire un lavoro autentico.
Per la tua prima mostra personale in Italia hai deciso di confrontarti con una dimensione monumentale, realizzando un’installazione site-specific che occupa un’intera parete della pattern room. In quale modo hai ideato e realizzato questo progetto in studio? Come lo hai traslato nella grandissima dimensione?
Inizialmente non pensavo che sarebbe stata necessaria questa scala. Ci sono arrivata dopo molte conversazioni con il team della Collezione Maramotti e dopo il loro incoraggiamento a rischiare. Mi è stata data l’opportunità di creare un’opera che altrimenti non avrei realizzato e presentato in questo modo. Questo tipo di libertà è stata una grande ispirazione per me e il mio lavoro.
Dopo aver esaminato le planimetrie, ho deciso di creare un’opera che coprisse l’intera parete centrale della pattern room, senza mettere nulla sulle due pareti laterali. Tutto il mio lavoro negli ultimi dieci anni si è sviluppato per me secondo una logica di continuità: è lo stesso corpo che si raffina e continua ad evolversi. Quindi, i personaggi e gli elementi sono sempre gli stessi, ma sono modificati e spostati in nuovi capitoli nel corso degli anni. Anche se questi personaggi sono stati con me per tutto questo tempo, il processo di creazione di questo lavoro è stato completamente nuovo. La dimensione scelta mi ha costretto a lavorare su un piccolo modello che è stato successivamente ridimensionato. Potevo concentrarmi solo su un massimo di tre pannelli alla volta. Lo schizzo e il modello erano, quindi, un riferimento importante. Dover andare avanti e indietro tra qualcosa che non potevo vedere – e che non sono stata in grado di vedere fino alla fine… – e qualcosa che stavo traslando dalla piccola alla grande scala, era nuovo per me. Mi ha fatto pensare a cosa significa costruire, costruire un disegno.
La pattern room della Collezione Maramotti era, un tempo, un laboratorio dedicato alla progettazione di nuovi modelli e tessuti. La tua installazione, composta da 15 fogli di carta, sembra richiamare, ad un primo sguardo, la grande forza progettuale del cartamodello, a partire dal quale tutte le parti vengono tagliate e cucite per creare l’abito, l’opera finale. Quanto ha influito questo spazio nella realizzazione dell’opera?
Mi sono innamorata dello spazio non appena l’ho visto. Quel lungo muro che si opponeva alle finestre, dal pavimento al soffitto, era così bello. Dopo alcune proposte iniziali che incorporavano tutti e tre i muri disponibili, ho deciso di concentrarmi su un singolo muro. Non stavo pensando direttamente alla creazione di modelli, ma questa storia e questa connessione risuonano davvero con me. Sono cresciuta con una mamma che ha cucito di tutto. Comprare la stoffa, stenderla sul pavimento del soggiorno per tagliarla… non poter mai usare le sue forbici per la stoffa… cuscini con spilli… modelli… tutto questo ha fatto parte della mia vita dalla nascita. Non è stata quindi una sorpresa la scelta di studiare tessuti, fibre e materiali al college e anche alla scuola di specializzazione. Il mio interesse non è rivolto all’abbigliamento (anche se un tempo ho sognato di diventare una stilista e ancora apprezzo molto e “consumo” la moda), ma alla trama e alla manipolazione della superficie incorporando strati di materiali diversi. So che c’è, dentro di me, questo amore profondo per la carta e il tessuto e i punti in cui essi entrano in collisione. Per molto tempo li ho considerati una cosa sola.
La mostra s’intitola HOW TO BE ENOUGH. Qual è il significato profondo di queste parole?
Il titolo strizza l’occhio alla carta, al disegno e al minimalismo, sia dal punto di vista del mezzo fisico che del contesto più ampio. Non sto più combattendo contro la pittura, come ho fatto (scherzosamente) in passato. Non mi interessa quella polemica, oggi ormai morta. Ma sono una sostenitrice del disegno, della carta, del segno, per quanto esso sia grandioso o trasparente o cancellato o permanente o quasi invisibile. È tutto abbastanza.
La parte secondaria dell’origine del titolo è legata a cosa significhi fare tutto questo, pur essendo nero in America. Non possiamo approfondire qui il discorso, ma in breve percepisco alcuni limiti su ciò che gli artisti neri possono o dovrebbero creare. “Loro” (il mercato? il collezionista?) vogliono vedere subito la figura. Ritrattistica. Colore. Dipingere. Massimalismo. Sto realizzando i miei disegni e mantengo silenziosamente la posizione. Credo sia sufficiente.
Come è nata la mostra alla Collezione Maramotti? Come si è sviluppata?
Nel 2018 ho conosciuto Serena Trizzino a Brooklyn. Era interessata al mio lavoro per una mostra che stava co-curando con Mario Diacono. Era intelligente e genuina e abbiamo avuto un’ottima conversazione, ma la verità è che non ero interessata al progetto come mi era stato inizialmente presentato. Era una mostra con altri artisti africani ed è arrivata in un momento in cui accadeva spesso che gli africani venissero messi insieme. Sebbene questa modalità abbia dato visibilità a molti artisti (me compresa), presenta tuttavia diverse problematiche. Ho cortesemente rifiutato la partecipazione, ma per fortuna Serena ha insistito e mi ha chiesto francamente il perché. Non mi era mai stato chiesto il motivo prima! Mi ha colpito, in senso positivo. Da lì sono stata invitata a presentare il mio lavoro a Mario e al Sig. Luigi Maramotti che erano in visita a New York in quel periodo. È andato tutto bene e mi è stata offerta l’opportunità di fare una mostra personale. Dalle prime conversazioni ad oggi sono passati quasi due anni e mezzo. È interessante come possano svilupparsi queste cose…
Nelle tue opere è sempre presente la carta – supporto d’elezione – e ci sono alcune figure che spesso ritornano, come i danzatori, le piscine, i tuffatori, le motociclette, gli uccelli, quasi a costruire un personale alfabeto. Questi elementi si muovono nello spazio, lo definiscono, vengono combinati tra loro come le figure nella danza… Da dove viene questo alfabeto? Quali sono i criteri che ti portano a posizionare le figure nello spazio?
Sì, ci sono elementi ripetuti nei miei disegni che creano un vocabolario, un alfabeto. Cerco di costruire una storia non lineare e poetica con questi elementi che provengono da un ampio archivio di immagini di cui dispongo. Raccolgo e catalogo immagini e le separo in cartelle e sottocartelle e periodicamente sfoglio e rimuovo quelle che non mi interessano più. Poi ce ne sono altre dalle quali sono sempre attratta… Continuo a voler tornare a loro e ridisegnarle più e più volte, forse fino a quando non le ho capite completamente. A quel punto posso ritirarle per un po’. Le compagnie spesso eseguono la stessa danza per decenni. Mi affascina l’idea di poter disporre di un repertorio di immagini al quale attingere, ma che ogni volta rivela qualcosa di nuovo. Questa è l’essenza di avere un alfabeto: puoi organizzarlo in infinite parole, più e più volte.
Queste immagini sono venute da me una per una, a cominciare da ada (la donna fluorescente), quando nel 2012 vivevo in Nigeria. Da allora si sono evolute e ora ne ho solo sette (dopo le modifiche più recenti). Sono curiosa di conoscere gli infiniti spazi che si possono creare a partire da una manciata di elementi.
Oltre che artista, sei anche danzatrice e coreografa e, nel corso della mostra, è prevista una tua performance alla Collezione Maramotti. Puoi darci qualche anticipazione?
Sono una ballerina, una coreografa… forse. Sono in procinto di coreografare il mio primo balletto. Ho avuto l’opportunità di lavorare come promotrice con alcune compagnie di movimento/danza e ho fatto alcune esibizioni con diversi miei amici artisti. È stato qualcosa di parallelo alla mia pratica negli ultimi anni e ora è una parte importante del mio lavoro.
Oltre a muovermi fisicamente, mi è sempre piaciuto ballare in modi diversi: collezionando immagini, andando a vedere spettacoli e mostre basate sulla danza, guardando documentari, leggendo memorie di coreografi. Un terzo delle immagini da cui traggo ispirazione riguarda il movimento. Cerco una tensione, un’anticipazione, cerco la bellezza, la fisicità, il movimento, ma anche la goffaggine o una certa assurdità. Cercare di pensare come coreografo, ha cambiato il modo in cui penso allo spazio e il modo in cui realizzo il disegno. La carta non mi è mai sembrata piatta, ma ora ancora di più mi avvicino ad essa dal punto di vista della dimensionalità.
La danza mi ha liberato da ogni aspettativa circa un racconto lineare. Fare un passo indietro e pensare come coreografa, invece che come artista, a volte mi ha davvero aiutata a pensare in modo oggettivo alla forma, alla bellezza e al movimento. Uno spazio in cui posso tuffarmi e da cui posso tirare fuori le cose.
La performance di giugno sarà realizzata in collaborazione con un’amica ballerina, Mor Mendel. Ci siamo conosciute tramite una compagnia fondata da un comune amico, Tamar Ettun. Recentemente il progetto si è allargato per includere Emilee Lord, anche lei ballerina e artista visiva. Noi tre abbiamo fatto brainstorming, ricerca, lettura di poesie, scrittura, ascolto e movimento. Il processo è organico e fluido. Non stiamo cercando un prodotto, stiamo raccogliendo informazioni per ora, assecondando le nostre curiosità. Da questo emergerà una danza, in parte coreografata e in parte improvvisata.
A cosa stai lavorando ora? Progetti e mostre in calendario?
Il mio prossimo progetto sarà una mostra personale, THINGHOOD, alla Mariane Ibrahim Gallery di Chicago nel maggio 2021. Consisterà in sette nuovi disegni che sono una continuazione della ricerca emersa alla Collezione Maramotti. Sto costruendo i disegni da diversi fogli di carta separati, ancora una volta costruendo e stratificando secondo una “narrativa” molto libera.
ruby onyinyechi amanze
HOW TO BE ENOUGH
21 febbraio – 25 luglio 2021
Collezione Maramotti
Via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia
Info: +39 0522 382484
info@collezionemaramotti.org
collezionemaramotti.org