BERGAMO
TRENTO LONGARETTI intervista di Matteo Galbiati*
Lo scorso 7 giugno ci ha lasciati l’artista bergamasco Trento Longaretti (1916-2017), abbiamo deciso di rendere omaggio alla sua figura, al suo impegno poetico, che non ha mai tradito quel suo caratteristico lirismo pieno di sentimento con cui ha guidato la sua avventura artistica e umana, rivolgendogli il nostro ultimo saluto più caro e sentito. Ricordiamo i suoi modi gentili, la forza intensa delle sue immagini, la grazia e la potenza delle sue parole attraverso quella passione vera che alimentava il sacro fuoco della sua arte, un segno che contraddistingue solo i grandi maestri quale lui era.
L’arte ha guidato e connotato tutta la sua esistenza, senza lasciarlo mai, amato e stimato, vogliamo dare memoria e commiato al maestro Longaretti con la testimonianza dell’intervista che ci ha rilasciato in occasione della pubblicazione del numero 91 di Espoarte, quando lo avvevamo incontrato nel suo studio intento a lavorare davanti all’ultimo suo nuovo quadro. Ecco le parole che ci aveva riservato Il grande viandante della pittura:
Come nasce il suo amore per la pittura?
Da un fatto molto semplice: la natura mi ha dotato di una grande predisposizione per il disegno. Ne ho avuto padronanza fin dalla più tenera età e, mentre gli altri bambini disegnavano pupazzetti, io ero considerato un ragazzo prodigio. Ho iniziato a dipingere a sei anni, a quattordici ho realizzato il mio primo vero e proprio quadro. In prima elementare stupii la maestra che ci chiese di copiare una cartolina, la mia era la più costruita, la più elaborata, la più attenta.
Come ha sviluppato questo suo dono?
Finite le scuole dell’obbligo sono riuscito a convincere la mia famiglia a mandarmi a Brera, del resto tutti apprezzavano e vedevano la mia inclinazione e il mio talento artistico. All’accademia seguii i corsi del Carpi, ci sono stato dieci anni a perfezionarmi. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ho iniziato a fare l’artista e nel 1953 vinsi il concorso per la cattedra di direttore della Scuola di pittura dell’Accademia Carrara, un istituto prestigioso, fondato nel 1794 dal conte Carrara. Ero l’ottavo direttore della sua storia e sono stato l’ultimo. Quando sono andato in pensione nel 1978, mi subentrò, dopo dieci anni di incaricati, il fotografo Mario Cresci, ormai i tempi erano mutati e per la prima volta l’Accademia veniva guidata da un artista che non era pittore.
Quali sono i ricordi di tutti quegli anni di insegnamento?
Ricordo i miei allievi, ne ho avuti moltissimi, poco meno di 600 ufficiali – numeri importanti per il nostro piccolo istituto – diverse migliaia se conto anche quelli che hanno seguito qualche mio corso da esterni.
Qualcuno ha emulato il suo successo?
Qualcuno che si è affermato c’è ma, in generale, non hanno avuto il coraggio di uscire dall’ambito provinciale. Bergamo resta una città generosa coi suoi artisti e dà lavoro a tutti sostenendoli, per questo molti di loro restano ancorati all’ambito territoriale. Una parte dei miei allievi ha seguito l’esempio della mia pittura figurativa, altri hanno – giustamente per i loro interessi e pensieri – intrapreso direzioni più contemporanee. Tra i nomi che mi fa piacere ricordare ci sono Bettineschi, Ferrario, Stefanoni, Marra, Capelli. Ormai quelli che erano i miei giovani allievi, oggi hanno tutti una certa età… Sono nonni anche loro.
Quale sentimento l’ha mossa a seguire per tutta la sua vita l’esperienza della pittura figurativa, che in lei resta una coerente testimonianza di temi, soggetti, linguaggi e contenuti precisi?
Credo sia stato essenzialmente il mio temperamento: non sono un rivoluzionario, preferisco attenermi alla tradizione e concentrarmi su questa. In secondo luogo la formazione a Brera con Aldo Carpi, lui è stato fondamentale. Credo di essere l’allievo carpiano per antonomasia, sia per tecnica sia per mondo poetico.
La scuola carpiana si è quindi legata a lei indissolubilmente?
Certo, si sono legati a me i sui temi: quelli sociali, quelli legati all’uomo, quelli dei sentimenti e delle emozioni. Carpi è stato prima di tutto un maestro di vita e di pensiero, prima ancora che di pittura. Mi ha molto colpito, ad esempio, che nei suoi diari di prigionia mi avesse citato come allievo serio. Quando la moglie mi confidò questa cosa mi commossi moltissimo.
Ha sempre dipinto la “figura”?
Anche io ho avuto qualche esperienza astratta e informale: per una mostra negli Anni ’80-’90 realizzai una serie di opere con questa configurazione aniconica, erano esperienze di ricerca. Però, a ben guardare, credo restino soggetti in bilico tra figurativo e non, mi ritengo comunque e sempre un pittore figurativo.
Quali sono i suoi temi ricorrenti?
Innanzitutto la famiglia: sono sempre stato legato alla mia d’origine, ma anche a quella che poi ho creato. Non sono uno scapigliato e la famiglia rimane un valore profondo e irrinunciabile. In secondo luogo la mia visione si rivolge al sociale. In settant’anni di pittura i miei temi sono ben riconoscibili: la gente in fuga, la madre-protettrice, i pellegrini, i viandanti…
Distingue tra viandanti e fuggiaschi, come si riflette nel dipinto tale distinzione?
Gli uni sono metafora esistenziale delle età della vita, dell’esperienza umana e della sua costante voglia di conoscenza e sapere e della sua trasmissione. Sono il paradigma del nostro esistere e della sua finitezza rispetto ai grandi desideri cui tendiamo. Gli altri sono più drammatici, anche il paesaggio che li accoglie lo diventa: sono forieri di un dolore interiore forte e aspro, sono stati sradicati dalle loro terre d’origine, sono smarriti e la loro espressione severa traduce il mondo drammatico in cui vivono e che li ha costretti alla fuga per forza. La figurazione, in questo senso, credo sia un’espressione sentita ancora oggi adatta a considerare certe tematiche.
Quindi la sua pittura travalica i suoi stessi orizzonti di contenuto?
Ogni mio quadro non deve essere solo buona pittura, si deve fondare soprattutto sul contenuto, deve essere pensiero, deve far capire quale compito deve avere un pittore. Spero, in 94 anni di lavoro, di aver saputo dare qualcosa oltre il bel quadro!
Come si devono leggere le sue immagini?
Si deve andare a fondo nel lavoro. Non mi fisso sull’improvvisazione ma sul fare e rifare, su un processo lento e lungo, molto meditato. Non mi accontento di quanto trovo subito, adotto, invece, la costanza dell’applicazione e la coerenza severa che se ne deduce. Il desiderio di ricercare continuamente con la pittura deve mantenere uno sguardo lucido rispetto alle influenze esterne. Io sono orgoglioso di restare sempre coerente con me stesso.
Quali modelli e artisti ha amato e ha seguito?
Achille Funi certamente è stato un esempio, ha insegnato anche a Bergamo. Ho amato molto gli artisti della Scuola Romana, poi Sassu, Birolli ma anche Morlotti, Cassinari, Treccani. Avevo una certa frequentazione con alcuni di loro negli anni milanesi di Brera e, in molte occasioni, venivano da me a casa. Ho avuto rapporti con la cerchia di artisti vicini a papa Montini, un grande estimatore d’arte. Molti di loro lo seguirono a Roma, ma la conoscenza risaliva agli anni del suo cardinalato nell’arcidiocesi di Milano. Grazie a lui ho realizzato diverse opere per chiese, sia con affresco sia con mosaico.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Per i miei cent’anni, Bergamo mi rende omaggio con varie iniziative, alcune ancora in costruzione come per esempio un’antologica promossa dal Museo Diocesano Bernareggi; la GAMeC poi sta lavorando ad una mia personale che ripercorre la mia vicenda artistica attraverso il disegno e i cicli pittorici murali da me realizzati in Bergamo. Inoltre stiamo lavorando a due docu-film con Teamitalia e AJP. Racconteremo anche del Festival del film d’Arte di Nino Zucchelli che mi ha visto in giuria per lungo tempo. Con Zucchelli abbiamo molto lavorato al premio Bergamo, alla sua rivista per la quale scrivevo spesso articoli corredati da disegni. Un personaggio con cui ho condiviso molte delle esperienze artistiche e culturali della mia città.
Cosa ci dice delle ricerche degli artisti più giovani?
Una domanda un po’ difficile per me! Ormai vivo a Bergamo, una volta frequentavo Milano con assiduità, desideroso di restare sempre aggiornato, oggi seleziono le mie uscite, del resto l’età un po’ me lo impone! Le ultime novità le leggo sulle riviste, quindi arrivo sempre un po’ dopo a vederle.
Però non smette mai di lavorare…
Quella rimane per me un’esigenza fondamentale, non posso rinunciarvi.
Ci alziamo e andiamo a vedere sul cavalletto l’ultimo dipinto, non ancora finito, fresco nel colore, lucente. Ancora uomini in cammino, esuli in una vita il cui viaggio di conoscenza guarda sempre al prossimo lontano orizzonte. Longaretti, vero viandante della pittura, ben conosce questa meta lontana e, dipinto dopo dipinto, vuole regalare anche a noi il dono della sua scoperta.