GLI ITALIANI DI VIVA ARTE VIVA | 57. BIENNALE ARTE 2017 | 13 maggio – 26 novembre 2017
Intervista a RICCARDO GUARNERI di Matteo Galbiati*
Abbiamo avuto un’intensa conversazione con Riccardo Guarneri (1933) che, nonostante l’impegno della sua partecipazione alla 57. Biennale di Venezia, ci ha riservato con entusiasmo il tempo per questa intervista. Con l’artista fiorentino tracciamo, quindi, un breve itinerario sulla storia della sua ricerca, sulla poesia raffinata del suo colore che, nelle velate trasparenze cromatiche, rinnova sempre il senso di una riflessione impegnata e sapiente. Presente in laguna con opere recenti di grandi dimensioni, la sua pittura conserva il valore di un’attualità che trae la propria energia iconica dalle radici della tradizione e conferma lo spirito di un artista dall’attitudine “rinascimentale”, ma la cui essenza ha ancora un senso vivo nel pieno della modernità del XXI secolo.
Quest’anno la sua storia artistica trova un’importante celebrazione con la partecipazione alla Biennale di Venezia. Cosa rappresenta per lei questo prestigioso traguardo e riconoscimento?
Per me questo invito rappresenta perfettamente la chiusura di un cerchio. Tutto era cominciato con la partecipazione alla Biennale del 1966 e oggi, a distanza di cinquant’anni, ritorno con l’ultima mia produzione. Credo che ormai, a 83 anni, per me sarà anche l’ultima! Sono ovviamente felice e soprattutto sorpreso di questa chiamata in una manifestazione che ha lo scopo di mostrare la novità e le ricerche dei più giovani.
Alla luce di questo, cosa significa partecipare alla Biennale di Venezia per un artista con la sua storia?
Ribadisco il senso di sorpresa per essere invitato con i giovani e di questo ringrazio la curatrice Christine Macel per la sua attenzione e sensibilità rivolta anche agli aspetti e ai valori di una pittura di tradizione. Ho fiducia nelle sue scelte che non si configurano nel senso di quella spettacolarità e teatralità che hanno segnato molte edizioni della Biennale veneziana. Dalle sue dichiarazioni leggo l’intenzione di ripensare in termini di un neo-umanesimo che si anima di valori di cui non sentivo da moltissimo tempo parlare da parte di critici e curatori. In questo caso lei guarda ad una visione filosofica dell’arte, alla sua profonda poesia. Credo che pochi critici italiani avrebbero avuto il coraggio di porre attenzione su questi aspetti. A fronte del dilagare dei nuovi media, sono contento che qualcuno si accorga ancora dell’esistenza del “quadro”.
Con quali opere si offre al pubblico internazionale?
Sono tutti lavori inediti e recenti, opere di grande formato che ho realizzato per l’occasione e che si inseriscono in un filone tipologico che porto avanti dal 2010. Sono pensate per la Biennale, vogliono dare un impatto forte ed espressivo, fondato sul valore percettivo.
Da oltre cinquant’anni i gradienti tipici della sua ricerca sono stati il colore e la sua “geometrizzazione”, letti quasi al limite della percezione. Come si alimenta la sua visione? Come è evoluta e come continua ad evolvere nel tempo?
Il mio lavoro si fonda sul metodo, si basa sulla continua variazione di una partenza, poi gli atti che mi muovono sono un continuo aggiornamento di togliere e mettere quelle “novità” – che sono sempre dei ritorni e riscoperte – che mi vengono dal Tempo. Il tempo fa variare la metodologia d’intervento sulla superficie, gli elementi, le mie sensazioni, le mie intuizioni, muta le contingenze, i sentimenti. Come artista sento la necessità, con la mia opera, di filtrare quanto accade attorno a me sempre attraverso la definizione coerente del mio metodo.
Abbiamo un altro elemento fondante: la luce…
Certo, deriva dal mio periodo iniziale legato all’Informale, tolta, poco a poco la materia, ho lasciato emergere la luce del bianco. Ho voluto che diventasse tutto leggerissimo, trasparente, poco decifrabile. Affascinato dalle chine dei maestri Zen, ho lavorato sui quadri bianchi e, con matite o l’acquarello, che trasfiguravano nella leggerezza e nella sfumatura il loro stesso colore, ho conferito la luminosità che volevo, divenuta poi caratteristica delle mie opere. La luce viene dalle trasparenze, da dentro al quadro, e si proietta nell’esteriorità.
La straordinaria attitudine delle sue opere è, quindi, quella di vivere nel chiarore quasi abbagliante che costringe ad uno sforzo percettivo. La luminescente trasparenza, effimera e delicatissima, diventa elemento fondante, eppure tutto è iniziato dalle cupe tele di Rembrandt…
Lo vidi negli anni ’50 quando suonavo in un’orchestra a L’Aia. Di Rembrandt mi aveva rapito la bellezza misteriosa dei suoi autoritratti, delle sue opere fatte di impasti materici densi e compatti che lasciano trasmigrare una luce intensa; sono stati un punto di riferimento per il mio lavoro. Nel tempo quell’intuizione, seguita, mi ha permesso di ripulire.
Si è scritto dei “diversi metodi” che si applicano alla sua pittura fatta di linee nette e campiture ampie, di colori soffusi ed altri intensi, quali modalità regolano le sue composizioni?
L’opera si fonda su un’idea di base, su un’impostazione data: sulle grandi campiture bianche lascio che si definiscano – utilizzando tecniche diverse – forme e colori che strutturo con contorni definiti e staccati, poi lascio sempre spazio libero al pensiero.
Non tutti sanno poi della sua passione per la musica: come ha influenzato il suo linguaggio pittorico?
È importantissima: da liceale, tra i 15 e i 18 anni, mi ero appassionato a tal punto da rendere la musica la mia vera istruttrice, mettendo in secondo piano anche gli studi, diciamo che non ero uno studente modello! Pensavo sempre alla musica… Del resto in lei c’è tutto, c’è la mutazione continua del fare che rinnova sempre ogni cosa. C’è una mutazione con metodo, concetto che ha permeato il mio lavoro.
Come valuta il crescente interesse per la pittura “analitica” – ma più in generale della pittura aniconica – italiana degli anni Sessanta e Settanta?
Credo che il gusto si sia stancato del selvaggismo e dell’espressionismo pop dai colori forti. Si è spento quel collezionismo approssimativo legato a quelle piccole gallerie che muovevano opere di sola presa commerciale. Penso che ci sia la necessità di dar valore non alla ridondanza e alla spettacolarità, alla superficiale sciocchezza, ma a quello che ha un valore profondo, sensibile, che tocca l’interiorità. Per questo si ritrova la fiducia in una pittura intelligente e colta, coerente e profonda. Il tempo e la storia ha dato – e sta dando – ragione a questa nobile arte.
Cosa insegna la sua pittura? Quali valori ci trasmette?
Vorrei poter dire che trasmette tutti i valori… Per chi li sa leggere! L’opera d’arte deve impegnarsi a comunicare ogni valore possibile, come la letteratura, la musica.
*[da Espoarte #97 – Speciale Biennale]
Riccardo Guarneri è nato nel 1933 a Firenze, dove vive e lavora.
Gallerie di riferimento:
Galleria Michela Rizzo, Venezia
www.galleriamichelarizzo.net
Progettoarte Elm, Milano
www.progettoarte-elm.com