MARCEL DUCHAMP. LE INTERVISTE POMERIDIANE DI CALVIN TOMKINS | POSTMEDIA BOOKS
Intervista a MARCO SENALDI di Matteo Galbiati
Bisogna tornare al 1964 per trovare l’inizio di un lavoro la cui gestazione si è prolungata per 5 decenni e che ha portato Calvin Tomkins (1925), acuto critico del New Yorker, alla pubblicazione di The Afternoon Interviews per Badlands Unlimited solo nel 2013. Il critico e giornalista americano in quel lontano anno, che faceva da spartiacque ai ruggenti anni Sessanta, aveva raccolto, in alcuni pomeriggi trascorsi con Marcel Duchamp (1887-1968) nel suo appartamento nel Greenwich Village, preziose testimonianze dirette di un artista che è stato, come pochi altri, vera chiave di volta del XX secolo.
Postmedia Books ha da poco editato il volume con il titolo Marcel Duchamp. Le interviste pomeridiane di Calvin Tomkins (il testo è stato trascritto e editato dalle registrazioni audio originali con il permesso degli Archivi del MoMA, Calvin Tomkins Papers, V.2 e V.3. The Museum of Modern Art Archives, New York) accompagnato da un’intensa postfazione dell’eccellente Marco Senaldi, con lui approfondiamo i contenuti del volume:
Inizierei chiedendoti perché Calvin Tomkins riesce a pubblicare le sue interviste-conversazioni pomeridiane con Duchamp 50 anni dopo averle realizzate? A cosa si deve questo dato di “sfasamento temporale”, come tu stesso lo hai definito?
Il motivo dello sfasamento è suggerito da Paul Chan, l’evanescente artista-editore che ha fondato Badlands (le edizioni che hanno pubblicato le interviste) nonché sodale e complice di Tomkins, il quale ha rivelato come queste interviste si basino su cinque ore di registrazioni effettuate dallo stesso Tomkins nel 1964. Si tratta praticamente di materiale d’archivio a cui il giornalista era riluttante a mettere mano, anche per motivi diciamo sentimentali (io personalmente andrei in crisi a risentire registrazioni di quando ero adolescente…!); il che non toglie che ci sia, nell’intera operazione, un tocco autenticamente duchampiano. Già quando uscì la prima edizione americana, nel 2013, molti osservatori notarono che l’anno scelto corrispondeva esattamente al centenario della realizzazione della Ruota di bicicletta (1913); ma questo sarebbe del tutto banale se non si aggiungesse anche che, come del resto ha fatto notare Chan stesso, all’epoca degli incontri pomeridiani, Tomkins, pur non essendo alle prime armi, aveva 39 anni e intervistava un maestro che andava per i 77. Quindi direi che lo “sfasamento temporale”, in tutto ciò che riguarda Duchamp, pare un accadimento non accidentale, ma centrale, fondativo; e finisce per costituirne una vera e propria cifra interpretativa. E questo a cominciare dal fatto che la fama, ma soprattutto la “portata”, della figura e dell’opera duchampiane, sono un effetto largamente retroattivo, una “ricostruzione” post factum, per così dire, di cui Duchamp stesso ha fatto giusto in tempo ad essere il testimone vivente: non a caso, morirà pochi anni dopo aver rilasciato le interviste più importanti, cioè queste, poi i dialoghi con Charbonnier, quelli con Cabanne e, soprattutto, il meraviglioso documentario di Jean-Marie Drot, Jeu d’echecs avec Marcel Duchamp (1964).
Rispetto al volume originale di Badlands Unlimited ci sono delle differenze o diversi contenuti in quello che è stato editato, sotto la tua supervisione, da Postmedia Books?
No. Praticamente avete tra le mani una bella, solida e attenta traduzione dell’originale americano, effettuata nientemeno che da Gianni Romano stesso, con qualche suggerimento anche mio (solo per potermi fregiare di averlo fatto, naturalmente!). Compreso il dialogo, molto interessante, fra Paul Chan e Calvin Tomkins, realizzato nel 2012, che apre il volume e spiega molti dettagli – e il tutto che passa di poco le 100 pagine. Io direi che è davvero un livre de poche, persino un po’ totemico (come – di nuovo! – tutte le cose a cui Duchmap metteva mano, persino indirettamente): intendo dire proprio un oggetto-talismano da cui non separarsi mai. Io l’ho letto e riletto, ma, non so neanche perché, me lo porto sempre dietro; forse per la foto in copertina, con quella pianta d’appartamento dietro Marcel, che fa tanto installazione à la Guillaume Bijl.
Cosa traspare dalle interviste del rapporto tra Tomkins e Duchamp?
Ho letto di recente che Tomkins, quando ha riascoltato i nastri, quasi si disperava di non aver fatto altre domande a Duchamp, su tutti quei dettagli, ormai destinati a rimanere oscuri, della sua carriera (a cominciare dal suo misterioso viaggio a Monaco nel 1912). Ma in fondo è così: chi ha fatto qualche intervista, soprattutto se a personaggi che si ammirano, sa bene che molte volte il rammarico prevale sul giusto orgoglio. Dal loro scambio di battute, dalle risate frequenti, si sente che c’è una notevole fiducia da parte di Duchamp, e una grande esperienza da parte di Tomkins. Ma secondo me, la vera bravura del giornalista, la sua specifica abilità (e ciò che differenzia questo documento rispetto ai colloqui con Cabanne) sta nel fatto di aver portato Duchamp a esporsi, a prendere posizione sui temi dell’arte contemporanea dell’epoca, dal mercato ai musei, dalla diffusione dell’happening alla nascita della pop art. Una cosa che, del resto, poteva avvenire solo a New York, e proprio in quei primi anni ’60: gli anni, per intenderci, in cui Arthur Danto, vedendo le Brillo Box di Warhol alla Stable Gallery, ha una specie di epifania che guiderà tutta la sua filosofia dell’arte.
Quali sono le ragioni che non rendono “un pezzo di antiquariato” questo dialogo, nato nella metà del XX secolo e tornato alla luce solo nel XXI secolo? Che insegnamenti, osservazioni, spunti (…) si possono ricavare nella loro validità? Duchamp vale nel passato, nel presente e nel futuro?
A quasi sessant’anni di distanza, le parole di Duchamp restano fresche come fiori appena recisi. Con la sua solita nonchalanche, fornisce delle riflessioni sul mercato, sui collezionisti e sui galleristi, che mi paiono fondamentali ancor oggi – come quando, ironicamente, afferma che è vero che il valore spirituale di un’opera d’arte è stato “raggirato” dal valore monetario stabilito dal mercato, però un collezionista resta sempre col dubbio eterno di aver pagato troppo o troppo poco per una certa opera. Infatti, se è poco, si chiede “avrò sbagliato?”, e invece se è troppo, si vanta della spesa (ma il dubbio resta: “e se quei soldi non li valesse?”). E così, Duchamp ci fa capire che Sua Maestà il Denaro, che oggi, soprattutto nel mondo dell’arte contemporanea, è idolatrato come il fondamento ultimo del valore di un’opera e di un artista, è una divinità ancipite e capricciosa, un dio alla fin fine completamente pazzo, di cui sarebbe meglio non fidarsi. Senza contare poi le osservazioni sul sistema museo, sulla contraddizione tra esporre e vedere le opere, sul ruolo dello spettatore – tutti temi oggi assolutamente attuali. Questo è il motivo per cui consiglio a tutti, dai giovani studenti ai (sedicenti) scafati galleristi-mercanti-collezioni-artisti, di leggere, e con attenzione, questi dialoghi. Potrebbero anche capire cose che forse non immaginavano nemmeno.
Trovo, rimanendo legati al discorso della temporalità, molto interessante la tua riflessione in merito alla “visione dilatata, e persino controintuitiva, del tempo” rispetto alla “strategia estetica di Duchamp”. In che senso lo dici?
È strano come la critica duchampiana abbia sottovalutato questo tema. Cioè, per meglio dire, lo ha confinato all’“interno” della sua opera, e non ha collegato quest’ultima a una vita che invece, secondo le sue stesse parole (rivolte a Jena-Marie Drot) dovrebbe diventare “un gesto altrettanto estetico di un quadro”. Eppure, Duchamp, anche con Tomkins, paragona spesso le opere d’arte a delle esistenze “umane”, che nascono, vivono e muoiono – come a dire che l’eternità è un’illusione, e il divenire la vera e sola realtà in cui siamo immersi. Ma quale “divenire”? Anche qui, alcuni suggerimenti di Duchamp sono restati lettera morta, o meglio, sono passati inosservati – proprio come il suo readymade Porte-manteau (Appendiabiti), che, nel 1916 fu esposto… all’ingresso della galleria e fu quindi preso per un puro e semplice appendiabiti! Uno di questi suggerimenti è il libro di John W. Dunne, An Experiment with Time, del 1927, che è una specie di manuale per “muoversi” nel tempo, attraverso premonizioni, sogni, esercizi di capovolgimento della quotidianità… Il tempo è una dimensione plastica, possiamo farne ciò che vogliamo: Duchamp ha applicato le strategie di Dunne all’intera costruzione della sua opera artistica, e soprattutto alla sua ricezione (che spesso arriva anni o decenni dopo l’intuizione iniziale), spingendosi letteralmente al di là dei limiti della propria esistenza fisica – come testimonia la sua ultima installazione, Etant donnée, elaborata in segreto per vent’anni e resa pubblica in forma postuma…
Le interviste pomeridiane come “pronunciano” Duchamp e come lui “si pronuncia”? Ricordando che era un artista che aveva un interesse peculiare per il linguaggio (pensiamo ai silenzi carichi di senso delle sue interviste radiofoniche)…
In queste interviste, in particolare, Duchamp sogghigna, fa battute, e poi ride, ride molto, evidentemente sembra parecchio divertito dal contesto effervescente degli anni ’60. La sua grandezza rifulge in questo: non prova, e si vede, nessuna invidia per i giovani artisti rampanti e di enorme successo che in effetti non fanno che riprendere idee già sue (si pensi a Rauschenberg, destinato, proprio nel 1964, a rappresentare l’egemonia culturale USA alla Biennale di Venezia…); e non mostra nemmeno alcun rancore per le amarezze del passato, le rivalità, gli odi e le gelosie. Eppure, non è nemmeno quella specie di monaco zen all’americana che fu John Cage, cioè un cultore della distanza, del vuoto o del silenzio. Non è il “nulla” il totem duchampiano – ma semmai, il “meno-di-nulla”, ossia quella dimensione paradossale (ma anche umoristica), in cui non raggiungiamo una consapevolezza nirvanica, o forse non raggiungiamo proprio nessuna consapevolezza, se non quella che abbiamo “le tasche piene di filo inutilizzato” (come ricorda Marcel, dopo la mostra del 1942), o, per dirla con le parole di Francis Scott Fitzgerald, siamo davanti a un vecchio bersaglio col fucile scarico.
Hai intitolato il tuo scritto Dispositivo Duchamp, ce ne spieghi le ragioni?
Sì, forse ho ceduto un po’ alla moda di impiegare questo fortunato neologismo, ma certamente meno nel senso “disciplinare” foucaultiano (che ritengo troppo unilaterale) che in quello “teologico”, secondo la meravigliosa esegesi che ne fa Agamben; in altre parole, Duchamp è sì un “dispositivo”, perché agisce nel presente come una sorta di nome-collettivo, un evocatore provocatorio di nuove condizioni e nuovi modi di pensare e creare. È, in tal senso, un eroe di quello che personalmente ho battezzato “ristrutturalismo” – il passo successivo, cioè, al vecchio strutturalismo. Se quello si occupava di individuare le strutture simboliche fondamentali dei fenomeni, a noi oggi tocca il compito di rileggerli completamente: il che non significa abbatterli, demolirli, per poi ricostruirli, ma, al contrario, riarredarli e quindi rileggerli radicalmente, come accade oggi quando si usa una chiesa come spazio espositivo o una caserma come shopping mall. E Duchamp, il senso della sua opera, il fatto stesso che di essa siano state date interpretazioni così diverse, gli infiniti rifacimenti, miniaturizzazioni, espansioni, sovversioni, a cui lui stesso l’ha sottoposta, è di certo l’emblema di quanto lontano ci si possa spingere in questa direzione.
Consideri, in un passo conclusivo che ritengo di notevole e determinante forza intuitiva, l’intervista un “preciso espediente, una vera e propria tecnica” che consente sia di discutere di arte come tematica, ma anche di farla in concreto…
Si sente parlare molto oggi di personaggi come Hito Steyerl, che cercano di coniugare aspetto linguistico-teorico con produzione artistica e fanno dei loro interventi delle vere e proprie perfomance, o di professori come Kenneth Goldsmith, il creatore del fantastico sito Ubuweb, o dello stesso Paul Chan, che, sull’esempio di Duchamp, si è autoesiliato dal mondo dell’arte per oltre otto anni… per tacere di Joseph Beuys (uno non proprio tanto simpatico con Duchamp) che arrivò a dichiarare che le sue lezioni all’Accademia di Düsseldorf erano sic et simpliciter delle “opere d’arte” (mi immagino la costernazione degli studenti). Per carità, mi paiono tutti bravissimi, però in tutti (e soprattutto in Beuys) prevale questa “volontà” di trasformare una cosa innocente, come l’intervista, necessariamente in una cosa aulica come l’arte – mentre in Duchamp accade quasi l’opposto, è una cosa aulica come l’arte che diventa innocente, “pomeridiana”, come una semplice intervista. Arrivare però a questa rarefazione, saper impiegare, senza darlo a intendere, la forma-intervista ai propri scopi estetici, non è cosa da tutti: non basta essere professori a Berlino o a Yale, e neanche aver dietro le spalle grosse gallerie: questa qui, amici cari, è “arte” per davvero. E, come sai, se hai letto il mio libro su Duchamp, lui è riuscito persino a farlo con la forma più ambigua e pericolosa, cioè l’intervista televisiva…
So che lo hai studiato moltissimo, ne hai scritto in molte e diverse occasioni, ma posso chiederti, in due battute, chi è Duchamp per Marco Senaldi?
Ti sembrerà paradossale: uno dei pochi veri amici su cui contare.
Titolo: Marcel Duchamp. Le interviste pomeridiane di Calvin Tomkins
Autore: Calvin Tomkins
A cura di: Marco Senaldi
Traduzioni dall’inglese: Gianni Romano
Anno: 2020
Pagine: 110
Prezzo: Euro
ISBN: 9788874902682
Editore: Postmedia Books
© 2020 Postmedia Srl, Milano
© 2020 Dispositivo Duchamp, Marco Senaldi
The Italian translation is published by arrangement with Association Marcel Duchamp and Badlands
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