a cura di Alessandra Redaelli
La settima Pillola d’arte, a chiusura di questa settimana, è dedicata a un artista che ha ripensato in modo molto personale il concetto di objet trouvé. I materiali di Nico Mingozzi sono fotografie vintage, vecchi ritratti seppiati datati tra la fine dell’‘800 e l’inizio del ‘900 che lui recupera nei mercatini e dei quali si è smarrita la storia. Su queste figure destinate all’oblio si innesta la sua fantasia sfrenata, gotica, che affonda le proprie radici nell’arte del passato – surrealismo e simbolismo in particolare – ma anche nella narrativa e nel cinema. Tagliando, strappando, ricomponendo le immagini, ma anche scorticandole, insanguinandole con l’inchiostro rosso, cancellandole col bianco che annulla sguardi ed espressioni e poi dipingendovi sopra, Mingozzi ribalta di fatto la muta perfezione delle pose per farvi scaturire da dentro l’innominabile e il mostruoso.
Una rivelazione che allo spettatore appare sottilmente inquietante, perché in quegli scatti non può non riconoscere anche le tracce del proprio passato. È un’operazione che l’artista confessa avvenire quasi di getto, per un’ispirazione, e che lui trova, a lavoro finito, rassicurante. Come se finalmente si fossero messe a posto le cose. Uno sgorgare del lato oscuro che lui vive come un disvelamento di verità. Questi sposi rigidi nella posa, questi bimbi perfetti vestiti di trine, queste signorine languide, che fissano l’obiettivo pensando al fidanzato al quale la fotografia è dedicata, sono infatti ingabbiati in ruoli prestabiliti, costretti da un perbenismo che ne ha fatto delle maschere. L’artista, dunque, si pone lo scopo non solo di restituire un’identità a queste figure senza nome, ma anche di dar loro la libertà di esprimere ciò che di aggressivo, perverso, inconfessabile e selvaggio portano dentro. Con dolore, forse, magari con spargimento di sangue, ma in nome dell’autenticità. Di recente, Mingozzi ha cominciato a lavorare su vecchie foto a colori, e queste pin-up dissezionate, rimontate, ferite e ricucite, in virtù di quel colore sembrano ancora più vicine a noi. L’attenzione si rivolge qui al ruolo della donna, alla sua oggettivazione da parte dei media e della pubblicità, riproposta in questo caso come smembramento, mutilazione, perdita dei contorni.
1 – Definisciti con tre aggettivi.
Attento osservatore, intuitivo, sognatore-concreto.
2 – Qual è stato il momento in cui hai capito di essere artista ?
Ho sempre pensato che la parola artista fosse troppo ridondante e che spesso venisse usata in maniera non appropriata. Sono una persona che non può fare a meno di osservare i lati più oscuri della realtà e, quando lavoro, rispondo a un’esigenza interiore urgente. Ad altri lascio il compito di definirmi o meno un artista.
3 – Hai scelto la rielaborazione di fotografie perché…
Ho iniziato di getto, affiancando questi lavori fotografici ad altri dal carattere molto diverso. Man mano mi sono accorto del potere magnetico che queste fotografie esercitavano su di me e anche sugli altri, liberandomi al contempo di un’energia profonda e oscura.
4 – L’opera d’arte che avresti voluto realizzare tu.
Un qualunque scatto di Joel Peter Witkin.
5 – Qual è il momento più emozionante della tua giornata?
È difficile definire un preciso momento della giornata, ce ne possono essere tanti o nessuno, e spesso sono legati agli aspetti più quotidiani della mia vita.
6 – L’arte è ispirazione o applicazione?
Nel mio caso il 99% è ispirazione e l’1% applicazione. Il mio è soprattutto un lavoro interiore, poi l’applicazione pratica si risolve in pochi istanti.
7 – Chi eri nella tua vita precedente?
Tutti mi dicono che ero un serial killer, ma in realtà ero solo il vicino di casa di Jack Lo Squartatore.
8 – Tre qualità che non possono mancare all’artista del Terzo Millennio.
Caparbietà, coraggio, una certa sconsideratezza.
9 – Il sogno che non hai ancora realizzato.
Una personale in un’istituzione museale italiana.
10 – La bellezza salverà il mondo?
No, sarà piuttosto la bellezza a doversi salvare dal mondo e dai suoi abitanti.