a cura di Alessandra Redaelli
Ha cominciato confezionando indumenti, camicie da uomo in particolare, con fogli di carta da pacco e cartone da edilizia, perché quello che piace a Sara Lovari è ripensare i materiali e dare loro una nuova identità. A patto però che questi materiali e gli oggetti a cui li affianca nelle sue sculture e nei suoi collage abbiano una storia, una memoria, un vissuto che li ha visti passare per altre mani. Il materiale neutro non la interessa, perché proprio la memoria segreta degli oggetti è il centro focale del suo lavoro. La carta e i suoi derivati continuano a essere i preferiti: vecchie cartoline, fotografie vintage, spartiti e soprattutto libri, perché lì, tra quelle pagine, vivono storie dentro le storie, la storia del libro come oggetto e le sue vicissitudini, ma anche la storia che il libro racconta. E perché le parole e il loro senso non sono mai un accessorio alle sue installazioni, ma un ingrediente fondamentale accuratamente scelto. Come quando per raccontare la famiglia, Sara Lovari affianca tre antichi tabernacoli dentro ognuno dei quali è conservato un libro (Nel nome del padre, della madre e della figlia, 2018). Le parole sono anche il cuore del progetto che l’artista ha portato lo scorso febbraio al Mann di Napoli. L’installazione A pesca di vita era la versione macro di un suo lavoro in cui un amo da pesca raccoglieva frammenti di pagine strappate, ognuno incentrato su una parola. Lì, al Mann, era una gigantesca ancora arrugginita, un relitto restituito dal mare, a raccogliere le parole isolate, decontestualizzate, improvvisamente bisognose di ritrovare un senso. Un’installazione di grande respiro, profondamente lirica e concettuale, vicina per sensibilità a certi lavori sull’uomo di Christian Boltanski (penso al monumentale Personnes del 2010, dove il braccio di una gru pescava a caso dentro un cumulo di abiti smessi e li spostava), quasi profetico rispetto al momento che stiamo vivendo ora, costretti in casa a ripensare la nostra vita e a ridarle un senso alla luce della pandemia.
1 – Definisciti con tre aggettivi.
Solare, energica, matta.
2 – Qual è stato il momento in cui hai capito di essere artista?
Fin da piccola il mio sogno era frequentare il Liceo artistico e intanto disegnavo, ma essendo questo tipo di scuola lontano da dove abitavo, i miei genitori mi iscrissero a Ragioneria e da lì iniziò il mio percorso tra i numeri. Eppure, dentro, lo sapevo che la mia strada sarebbe stata un’altra.
3 – Hai scelto di lavorare sui materiali di recupero e sulla carta perché…
Perché amo raccontare e da sola non ci sarei riuscita, ho capito che le cose arrugginite, vecchie, rotte e dimenticate potevano aiutarmi. Le carte semplici e i pezzi di cartone hanno ritrovato il loro valore, e con loro foto, cartoline, spartiti musicali e vecchi libri pieni di frasi e parole dimenticate. Sono questi oggetti a comporre le mie storie, le nostre.
4 – L’opera d’arte che avresti voluto realizzare tu.
Reduce da poco da una visita a Napoli, devo dire il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino: ho avuto i brividi per tutto il tempo che sono rimasta lì a guardarlo.
5 – Qual è il momento più emozionante della tua giornata?
In assoluto la mattina, perché mi sveglio presto e sono piena di energia.
6 – L’arte è ispirazione o applicazione?
Credo che senza ispirazione non vi possa essere applicazione. Venendo io da studi tecnici, la mia impostazione è sì poetica e mentale, ma anche molto pratica, e spesso questo mi ha aiutata ad affrontare il complicato mondo dell’arte.
7 – Chi eri nella tua vita precedente?
Un pesce pagliaccio.
8 – Tre qualità che non possono mancare all’artista del Terzo Millennio.
Coraggio, perseveranza e umiltà.
9 – Il sogno che non hai ancora realizzato.
Devo dire che tanti li ho realizzati, ma uno spero di realizzarlo presto: vedere i pesci della barriera corallina.
10 – La bellezza salverà il mondo?
Sarà una delle cose che lo salveranno.