a cura di Alessandra Redaelli
Protagonista di questa nuova Pillola d’arte è lo scultore Aron Demetz. Alla fine degli anni Novanta, la sua scelta di utilizzare il legno è una sfida coraggiosa. Non tanto perché il legno sia un materiale povero, quanto piuttosto perché, quando associato alla figura, questo mezzo è gravato dal peccato originale dell’artigianato, soprattutto nella zona da cui Demetz proviene: la Val Gardena. Eppure, proprio per questa sua appartenenza geografica, il legno lui ce l’ha nel sangue: le piante, i tronchi, l’odore di resina e di sottobosco. Parte da lì, dunque, Demetz, e comincia una personalissima indagine sull’uomo che conduce vagando per i suoi boschi, scegliendo i tronchi dai contadini, in autunno, e poi approcciandoli con la sega, l’ascia, lo scalpello, a colpi decisi, perché a lui non interessa tanto rendere la perfezione della superficie – più consona ad altri materiali – quanto esprimere la natura intrinseca del legno e dell’albero che era. Quelle figure solitarie, ieratiche, dallo sguardo perso in una fantasticheria, sagge, distanti, con la pelle scabra, diventano la sua firma. Improvvisamente il legno si fa veicolo per una nuova lettura della statuaria classica, non più abitata da eroi e guerrieri, da veneri e divinità, ma da uomini e donne che ci assomigliano e in cui ci specchiamo anche grazie alla scelta dell’artista di mantenere quasi sempre proporzioni pressoché reali. Ma è un’umanità dolente, quella di Demetz, che a dispetto della bellezza delle forme vede le proprie angosce suppurare sulla pelle martoriata. A volte dalla resina di pino, raccolta dall’artista, fusa e fatta colare sulla scultura a ricoprirne il volto, e poi lasciata lì a solidificarsi piano, a continuare a modificarsi, perché la resina, come il legno, è materia viva ed è questo che l’artista ama: creare qualcosa che abbia una sua esistenza autonoma, ancora e ancora. A volte a mangiare quella pelle è il fuoco, con la bruciatura che scolpisce e ridefinisce la forma riducendo l’epidermide a una terra brulla, essiccata dalla siccità, nera di morte. Altre volte sono funghi a fuoriuscire dalla figura come mostruose malattie o a mangiarne completamente il volto, trasformandolo in una maschera. La sensazione è quella di assistere a una condanna inappellabile, o a una sorta di auto da fé sopportato con la dignità e il coraggio di chi sa che deve attraversare il dolore per poter raggiungere lo stato di grazia. Utilizza anche altri materiali, Demetz, come bronzo e marmo, ma è nei suoi cedri e nei suoi tigli che riesce a inventare la sintesi perfetta e unica tra la pace della statuaria classica, il tormento di Michelangelo, la tattilità di Medardo Rosso e la rivoluzione portata in Italia dall’Arte Povera e in particolare da Giuseppe Penone. Quei legni che trasudano vita e profumano di bosco e di resina. Come accadeva due anni fa al Mann di Napoli, quando Demetz fu invitato a dialogare con le collezioni archeologiche del museo, e i suoi fanciulli e le sue donne dalle posture eleganti si annunciavano con gli odori del bosco, facendo risuonare il calore della loro pelle viva nel gelido, asettico silenzio del marmo.
1 – Definisciti con tre aggettivi.
Stipendio della paura.
2 – Qual è stato il momento in cui hai capito di essere artista?
Boulevard dei sogni perduti.
3 – Hai scelto la scultura perché…
Passi affrettati con conseguenze.
4 – L’opera d’arte che avresti voluto realizzare tu.
Be yourself.
5 – Qual è il momento più emozionante della tua giornata?
L’inconsapevole.
6 – L’arte è ispirazione o applicazione?
La domanda rimane a chi legge.
7 – Chi eri nella tua vita precedente?
Cuore e anima.
8 – Tre qualità che non possono mancare all’artista del Terzo Millennio.
Linguaggio diventa patria morendo acconsentimento.
9 – Il sogno che non hai ancora realizzato.
Aspetta il suo turno con gli altri.
10 – La bellezza salverà il mondo?
Il mondo salverà la bellezza.