PISTOIA | GALLERIA ME VANNUCCI | 5 DICEMBRE 2021 – 29 GENNAIO 2022
intervista a SERENA BECAGLI di Livia Savorelli
Nel progetto curatoriale di Serena Becagli, Paesaggi personali, inaugurato nel mese di dicembre alla Galleria Me Vannucci di Pistoia, attraverso le visioni di nove artisti – Antonello Ghezzi, Sergia Avveduti, Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Luca Caccioni, Fabrizio Corneli, Marco Degl’Innocenti, Lori Lako, Erika Pellicci, Sandra Tomboloni – lo spettatore viene invitato a concepire ogni opera come “un posto dove non siamo mai stati, un sentimento che non abbiamo ancora provato”, perché, come scrive la Becagli nel suo testo, “Paesaggi personali è un paesaggio plurale in cui il personale – privato ed intimo – si apre alla rivelazione e alla condivisione”.
Abbiamo approfondito con lei la genesi del progetto, nell’intervista che potrete leggere a seguire…
Partiamo dalla suggestione che muove tutta la mostra, un incipit, una traccia ma soprattutto una tua personale dimensione legata al paesaggio che apre l’esposizione: la caduta di un meteorite, nella notte del 1 ottobre 2021, tra Pistoia e Prato. Quali riflessioni la caduta di un pezzo di Universo sulla Terra ha originato in te e come le hai convogliate nel progetto Paesaggi Personali?
Stavo già lavorando alla mostra quando questo fatto di cronaca è accaduto. Il titolo e molte opere erano già state scelte. Un meteorite che cade nella provincia, tra i paesi che attraverso in macchina per andare a Pistoia per fare i sopralluoghi, piccole frazioni che sono improvvisamente connesse con qualcosa di misterioso che arriva da molto lontano. La provincia allora non è così lontana e sperduta ed è improvvisamente protagonista di una caccia al tesoro. Scienza, sogno e vita quotidiana in quel momento si sono allineati.
In mostra sono diverse le opere che parlano di tempo, di sconfinamenti, di mistero.
Girando intorno all’opera Tifone di Sergia Avveduti (Lugo, Ravenna, 1965) scopriamo una costellazione, una stampa su zinco di una costellazione lontana è incastonata su una sorta di tavolino di legno, la cui base è in realtà un meccanismo di orologio ingrandito montato su tre gambe. La costellazione (il titolo della stampa è Siderale) che appare come retro dell’immagine di Tifone mi fa pensare a questa idea del tempo abissale che Sergia cerca di fermare, misurare, come appunto l’essere umano da sempre tenta di fare. E questa piccola stampa fa parte di un insieme, la si scorge soltanto cercando con attenzione, la stessa attenzione che hanno messo tutti coloro che per un po’ hanno scandagliato le campagne tra Prato e Pistoia cercando questo frammento di infinito.
Altri cieli e altri spostamenti nel lavoro Possibly / Maybe di Lori Lako (Pogradec, Albania, 1991), un cielo solcato dalle scie degli aerei, un tempo e una distanza che l’uomo ha colmato. Un segno, un disegno nel cielo. Anche qui una quotidianità, un’astrazione, il cielo sopra Piazza Santa Croce a Firenze diventa un qualsiasi cielo di una qualsiasi parte del mondo – astratto – capace di essere contemporaneamente ovunque. Da qui la riflessione dell’artista attorno alla possibilità reale di spostarsi, incontrarsi, realizzare, sconfinare, risalire alla provenienza e alla destinazione.
Il duo Antonello Ghezzi (Nadia Antonello, Cittadella, 1985 e Paolo Ghezzi, Bologna, 1980) lavora da tempo sul legame tra terra e cielo e quando i due artisti hanno saputo del meteorite si sono subito entusiasmati: si sarebbero uniti volentieri anche loro alle ricerche che si sono tenute i primi di ottobre tra Lucciano (Pistoia) e Oste (Prato).
In mostra hanno presentato una serie di disegni/progetti di una delle loro ultime opere Cielo stellato su prato, una grande installazione dove una serie di rotoballe di fieno sono fasciate con una speciale rete realizzata in materiale luminescente, giocando sull’idea di ricreare sul prato una sorta di specchio del cielo stellato. In tutta la loro ricerca il rapporto con il cielo è evidente, c’è sempre un tentativo di collegare la terra al cielo come in una delle loro ultime azioni, mentre da diverso tempo portano avanti un lavoro, Shooting stars (non in mostra), realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica di Medicina (Bologna). Nata come installazione sonora capace di captare e riprodurre i rumori delle stelle cadenti, l’opera – presentata in diverse mostre e festival dal 2014 – ha avuto una sua versione visiva la scorsa estate. In questo caso a ogni stella cadente captata corrisponde l’accensione di una striscia di luci a led montata su una sorta di antenna.
In un mondo iper-connesso, dove tutto sembra alla portata di un clic, hai voluto cimentarti in un tema infinito come quello del paesaggio, aperto a tantissime implicazioni. Attraverso lo sguardo plurale ed eterogeneo di nove artisti, di diversa generazione e provenienza geografica, hai concepito la mostra per stratificazione in un fluire di media e visioni, che possono singolarmente mutare nella percezione del visitatore, a sua volta ignaro portatore di un suo paesaggio personale, delineando altri paesaggi nel paesaggio…
Ho cercato di mettere sotto lo stesso tetto (o lo stesso cielo?) una serie di opere e di artisti che potessero suggerire visioni allo spettatore, nel tentativo di poter far trovare e aggiungere a ciascuno qualcosa di proprio a questo percorso. È stato curioso vedere come, una volta scelte le opere e gli artisti, ci fossero incroci e incontri tra loro. Intanto c’è molta Firenze/Toscana e molta Bologna in questa mostra, che sono luoghi a cui sono più legata avendo studiato a Bologna.
Con Sandra Tomboloni, ad esempio, ci conosciamo da ormai tanti anni e abbiamo fatto diversi progetti insieme; Sergia Avveduti insegna come Luca Caccioni all’Accademia di Bologna, dove si sono formati Antonello Ghezzi e in parte Erika Pellicci. Anche con Sergia ci siamo incrociate diverso tempo fa sia a Firenze che a Bologna quando frequentavo l’ambiente legato alla galleria Neon, mentre Sandra e Luca avevano fatto una mostra personale insieme nel 1997 e sono entrambi artisti che collaborano da un po’ con la Galleria Vannucci.
Lori Lako è un’artista a cui sono molto legata; ci confrontiamo spesso sulle cose che facciamo, e sia lei che Mohsen Baghernejad Moghanjooghi hanno partecipato alla prima edizione delle residenze alla Manifattura Tabacchi di Firenze. Fabrizio Corneli è fiorentino ma ha studiato come me al DAMS di Bologna. Però di tutti questi incroci e legami me ne sono resa conto soltanto dopo, una volta vista la bozza dell’invito. Ogni opera e ogni artista mi hanno permesso di affrontare temi e suggerimenti sul paesaggio, come racconti personali che, in questo caso, vengono condivisi.
In entrata ho scelto di collocare l’opera di Sergia Avveduti Ciglio di Sole, composta da una stampa su zinco – piegata – che raffigura il Sole e una piccola scultura in gesso ceramico con un buco al centro, che sembra occultare/oscurare/eclissare, in parte, il disegno.
Oltre a un titolo molto poetico che gioca, a mio avviso, sul doppio senso del termine “ciglio” inteso sia come limite ma anche come elemento antropomorfo che si inserisce nel paesaggio, l’opera invita lo spettatore a prendere un punto di vista, a piegare leggermente le gambe e guardare dentro al foro della scultura. Questo lavoro mi fa pensare a ognuno di noi che di fronte a quell’opera compie inconsapevolmente lo stesso gesto, piegando le gambe e guardando dentro al foro, ma ciascuno proiettando le proprie aspettative.
E poi è quasi una sfida che ingaggiamo con il Sole, nel cercare di fissarlo, quindi un rapporto visivo ma fisico con il paesaggio, con il cosmo.
La forma della scultura mi sembra quasi un solidificarsi dei raggi, ma anche una conchiglia che ascolta, come se a un certo punto ascoltasse le parole che escono dal video di Erika Pellicci collocato lì vicino.
Anche con Erika Pellicci (Barga, Lucca, 1992) ci conosciamo da qualche anno, quel video l’ha realizzato per la sua tesi di laurea e ho avuto il privilegio di vederlo già prima che lo rendesse pubblico. Forse proprio questa opera di Erika, Il luogo di origine, mi ha suggerito il titolo della mostra. Uno schermo da proiezione è collocato sul prato dietro la casa in campagna dell’artista, ma come fosse una porta spazio/temporale ci fa arrivare direttamente a New York: stando fermi seduti sul prato iniziamo allo stesso momento a camminare, uscendo dalla metropolitana e ritrovandoci immersi tra le luci di Times Square. L’inganno visivo, ottenuto con un sapiente uso dei mezzi video, ma anche accedendo all’immenso archivio di YouTube, è scaldato dalla voce dell’artista che legge e sussurra un testo autobiografico, che è una condivisione di tutte le sue riflessioni attorno al rapporto con la sua terra di origine, le fughe da casa, e i ritorni.
In questa prima parte della galleria, sull’altra parete rispetto al lavoro di Erika Pellicci troviamo un’altra “apparizione” di città, con QI Metropoli di Fabrizio Corneli (Firenze, 1958). Tra le opere di Corneli, che lavora da sempre con la luce, la proiezione, gli inganni ottici e l’immaterialità, ho scelto questa città proiettata da una sfera di vetro dalla serie QI. Un’opera che parla di magia, apparizione, ma anche di sogno.
Entrambe le città risultano come miraggi. Una – quella di Pellicci – in movimento e rumorosa, mentre il silenzio e la contemplazione sembra richiederci Corneli. Un ovale come un ologramma cattura il QI, l’energia vitale dell’Universo secondo la cultura orientale. Il QI non è visibile, ma è in grado di produrre cambiamento e movimento, quindi di manifestarsi con effetti materiali e visibili.
Il fatto che questi tre lavori Ciglio di Sole, QI Metropoli e Il luogo di origine (accompagnato da una serie fotografica installata a parete) siano collocati nella stessa zona, quasi allineati, mi fa pensare a tre entrate diverse da cui partire per questo viaggio, anche perché in tutti e tre i lavori ci sono dei fori nei quali metaforicamente introdursi per compiere un viaggio dentro sé stessi.
Tra fisico e concettuale, naturale ed artificiale, costruzione e decostruzione, sogno ed evocazione, memoria e sguardo al futuro, il percorso espositivo allude ad una circolarità della tua visione curatoriale. La mostra di fatto non si chiude ma prosegue prendendo sempre nuove strade…
Mi fa piacere che tu abbia colto l’apertura di questo progetto: chi si prende cura di una mostra dovrebbe prima di tutto ascoltare e l’ascolto porta sempre nuove cose e nuovi sguardi.
Dopo aver allestito la mostra – e standoci dentro – continuo ad avere nuovi spunti, come se le opere incrociandosi e guardandosi continuassero a rivelare nuove suggestioni.
Mi sembra una mostra in cui si parla di cambiamento. Penso ad esempio alle opere di Mohsen Baghernejad Moghanjooghi (Tehran, Iran, 1988) e a quelle di Sandra Tomboloni (Firenze, 1961), artisti molto diversi per formazione, provenienza e generazione, ma nei quali si ritrova questo tema della trasformazione e della cura. Nella sala principale troviamo solo una piccola opera di Mohsen, Diritto, una foglia realizzata in calcestruzzo e appesa ad una trave della galleria con un filo di ferro. La foglia non tocca terra, ma cade dritta dritta all’interno di un secchio da cantiere; accanto l’artista ci lascia un nebulizzatore riempito d’acqua. Lo spettatore è invitato a prendersi cura di questo organismo senza radici, che una volta spruzzato rilascia sulla propria superficie del colore azzurro, frutto del processo chimico che porta il solfato di rame, impastato nel calcestruzzo, a ossidarsi. Una foglia senza radici, una foglia che muta.
Pochi passi più avanti troviamo le opere di Sandra Tomboloni: a terra il dittico Irina e Irene in pongo: un giardino di fiori bianchi e fragili dei quali dobbiamo prenderci cura, realizzati con un materiale che porta in sé il senso di trasformazione. Metaforicamente Sandra ci dice che siamo fatti tutti della stessa sostanza e per me in questo titolo, che ha il nome di donna, Sandra rivede lei e la sorella gemella Paola. Mohsen ha intitolato un’altra opera in mostra – sempre una delle sue piante in cemento – Io e i miei fratelli.
Irene poi significa pace, e Irina è il suo corrispettivo slavo. Prendersi cura dei fratelli, di tutti noi, fatti della stessa materia. La stratificazione della Terra di Sandra Tomboloni rende ancora più esplicito questo concetto. Questo altorilievo in cera prosegue la ricerca dell’artista sui temi dell’antispecismo, iniziato con la mostra personale La fragilità degli ospiti, curata da me e realizzata proprio negli spazi della Vannucci nel 2020. La stratificazione della Terra è un fondersi di figure dal corpo umano e la testa di maiale – l’animale più sfruttato di tutti – che per Sandra diventa l’animale più puro, vittima e simbolo dell’avidità dell’essere umano. Nel suo lavoro diventa principe e protagonista di un’opera in cui dimostra la sua conoscenza del modellato e della scultura, con una particolare ammirazione per Donatello e Rodin.
Ci avviciniamo a una zona della mostra in cui l’elemento terrestre è protagonista. Contro una delle pareti, sono poggiate a terra le opere di Marco Degl’Innocenti (Firenze, 1972), come se in questa zona della galleria ci si abbassasse, si guardasse a terra, con gli occhi bene attenti a dove mettiamo i piedi.
Quasi sulla stessa linea di Irina e Irene di Sandra Tomboloni, troviamo le sculture Terra perduta di Marco Degli’Innocenti: i calchi in bronzo delle mani dell’artista innestati sui bastoni rispettivamente di una pala e di una zappa per lavorare la terra. Un’idea di cura anche qui, quasi un toccare con le dita sapienti dell’artigiano e dell’artista il pavimento su cui camminiamo, in un rispetto assoluto per il paesaggio e l’ambiente. Del resto la sua poetica è quella di pensare alla mano dell’artista come una mano in sintonia con il mondo, una mano che fa amicizia con gli strumenti/protesi con i quali può modificare il mondo circostante. Le chiavi inglesi che germogliano dai rami della serie di opere Accordo parlano proprio di questo, di questa sintonia che l’uomo deve sempre trovare con l’ambiente, e gli strumenti dovrebbero essere solo estensione naturale del pianeta, nati per migliorare l’intorno e non per distruggerlo. Ecco che l’artista gioca con i materiali: zappa e vanga sono preziosi “autoritratti” in bronzo, in questo gioco di accordo tra “alto” e “basso”, tra umile e prezioso, tra straordinario e quotidiano.
Dal disegno nasce una scultura in gesso ceramico, tutto è in equilibrio e, anziché essere appeso a parete, è appoggiato a terra su piedistalli angolari in terracotta sui quali sono ben visibili le impronte della mano dell’artista, per un gesto del toccare che è umanizzare, tenere vivo.
E dalla terra e dall’acqua provengono i fiori di loto ai quali si ispira Luca Caccioni (Bologna, 1962) nella sua serie Lothophagie che prende ispirazione dai Lotofagi dell’Odissea, il popolo che mangia i fiori di loto per dimenticare. Nelle Lothophagie di Caccioni siamo di fronte a frammenti di paesaggio interiore, paesaggi nuovi, dai quali affiorano – dal vento, dall’acqua, dal cielo – nuovi segni e nuovi nomi.
Queste opere potrebbero essere la parte finale del nostro viaggio tra i paesaggi personali, scordare tutto e ricominciare il viaggio. Che poi scordarsi tutto e ricominciare è un po’ come rinascere.
Un ipotetico fondersi uomo-fiore, questo mangiare, interiorizzare, far scaturire un processo, prima chimico e poi percettivo, mnemonico e ipnotico. Ecco che da questi brandelli di tela appare la forma di un’ellisse, un’orbita, un UFO, un segnale che ci dice che siamo pronti a ricominciare. E questo segno sulla tela di Luca Caccioni, questo suo indagare nella memoria di queste carte mi fa guardare di nuovo ai lavori di Lori Lako, ai segni lasciati in cielo dalle scie degli aerei, scie temporanee, che per ognuno di noi hanno un significato legato a dei ricordi.
Lori Lako in questo suo tentativo di ricomporre le traiettorie, gli orari e le destinazioni dei segni in cielo, lega questo pezzetto di cielo anche a particolari suoi momenti qui, a Firenze, sulla Terra. Ma sono cieli senza radici, come la foglia di Mohsen Baghernejad, o i fiori sollevati a pochi centimetri da terra di Sandra Tomboloni o come due petali di ghisa muovono ugualmente al vento di Caccioni.
Di memoria parlano i collage Exotic Memories / Kujtime ekzotike di Lori Lako, parte di un lavoro realizzato per una doppia mostra personale con l’artista Adrian Paci nel 2019.
È un paesaggio sognato – esotico – ritagliato da una serie di fotografie scattate negli anni Novanta in uno studio fotografico di Pogradec in Albania, città natale dell’artista. Il sogno di un viaggio, di essere altrove, poco dopo la caduta del regime. L’artista raccoglie tante foto simili, prelevandole dagli album di famiglia di amici e conoscenti, tutti in posa davanti alle stesse palme. E queste palme, private dei volti e delle figure umane, diventano anch’esse astrazione: ritagliate e ricomposte in piccoli collage, foglie senza radici, sfondo senza un preciso “luogo d’origine” (prendendo a prestito il titolo di Erika Pellicci) come quel cielo “possibilmente/forse” ovunque in grado di espatriare.
In questi giorni di apertura della mostra, quali impressioni, commenti che hai raccolto, ti hanno maggiormente colpita e ti hanno aperto a nuove riflessioni?
Mi è giunto in effetti un commento che mi ha fatto molto piacere, mi è stato detto che si respirava un clima d’altri tempi creativo-comunitario durante l’inaugurazione.
Penso, e spero, che questa convivialità si percepisca all’interno della mostra, dove si parte dal presupposto e dalla consapevolezza che il nostro punto di vista è soltanto uno dei tanti.
Si parla di pluralità: il titolo infatti è un “personale” declinato al plurale, che vuole sottolineare questa idea di condivisione.
Uno degli artisti, mentre stavamo allestendo, mi ha parlato di mostra organica, e in effetti la percepisco come un’organismo. Qualcun altro, invece, ha notato nell’allestimento una divisione in zone a seconda degli elementi: aria, fuoco, terra e acqua, con tutte le varie declinazioni direi; cielo, stelle, vapore, fiori, foglie, rami, luce, legno.
Mi piace riflettere anche sui movimenti dello spettatore intorno alle opere, sia con lo sguardo che con tutto il corpo, che è poi anche un entrare in relazione con lo spazio già fortemente connotato della galleria. Mi piace vedere il colore del cielo che cambia sulla finestra sopra ai cieli di Lori Lako, o i raggi che in alcune giornate si allineano con i raggi di Ciglio di Sole.
Vorrei in chiusura una tua riflessione sul potere trasformativo dell’arte.
Mentre l’artista Mohsen Baghernejad stava realizzando la sua opera – una scritta incisa con scalpello e fresa sul muro esterno della galleria, con i rumori tipici del cantiere durante una tranquilla domenica pomeriggio – ho notato il vicino di casa che ci osservava dalla finestra.
Dopo poco quel signore è sceso in strada, guardandoci da lontano.
Ho temuto di aver disturbato la pennichella domenicale.
Piano piano ha varcato il cancello e ha continuato a osservare, e appena il rumore della fresa si è fermato si è avvicinato all’artista. Lì è iniziata una piacevole chiacchierata, il vicino di casa è un muratore straniero che vive e lavora da tanto a Pistoia: quei rumori e quegli strumenti gli sono familiari.
Mohsen Baghernejad incide il muro della galleria, va a scoprirne la memoria e l’anima, per lasciarci per sempre la frase “Each one in another one”, sotto la pelle dell’intonaco.
Letteralmente la frase significa “ognuno in un altro”, che può esemplificare questo inserirsi di Mohsen in questa preesistenza, in questo muro che porta la memoria e i segni di un luogo che è stato una fabbrica, con i suoi rumori, le sue macchine e i suoi operai.
Ma “ognuno in un altro” sono anche le opere e le storie protagoniste della mostra, che sembrano quasi inseguirsi e rimandare l’una all’altra. Questa scritta la vedo quasi come l’uscita dalla mostra, una firma, una grande didascalia ma a ben pensarci è stata la prima opera allestita, e per molti che entrano dalla porta secondaria della galleria (quella da cui in origine entravano gli operai della fabbrica) è la prima opera che si presenta. Su di lei le grandi finestre dell’ex fabbrica, con i riflessi che cambiano: a volte un cielo blu, a volte le nuvole bianche, a volte un tramonto rosso fuoco e quando fa buio le luci della fabbrica.
Ognuno in un altro, dove “another one”, si fonde in “anotherone”, tutto attaccato, come se tutto fosse ancora più vicino.
Lo sguardo incuriosito del vicino di casa, i suoi racconti sul suo cantiere, lo sguardo attento sulla cassetta degli attrezzi, mi ha fatto pensare che su quel pezzo di muro lui ci ha visto la sua quotidianità e la possibilità di trasformarla. Penso che quando prenderà in mano una piccola fresa come quella di Mohsen, proverà forse a incidere qualcosa sul muro, ricordandosi di questo incontro inaspettato con l’artista iraniano.
PAESAGGI PERSONALI
Antonello Ghezzi, Sergia Avveduti, Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Luca Caccioni, Fabrizio Corneli, Marco Degl’Innocenti, Lori Lako, Erika Pellicci, Sandra Tomboloni
a cura di Serena Becagli
5 dicembre 2021 – 29 gennaio 2022
GALLERIA ME VANNUCCI
Via Gorizia 122, Pistoia
Orari: da mercoledì a sabato 09.30-12.00 e 16.30-19.30. Domenica, lunedì e martedì su appuntamento
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