MILANO | Auditorium San Fedele | #report
Intervista ad OREN AMBARCHI di Carlotta Petracci
Al quinto e ultimo appuntamento di Inner Spaces, che si è tenuto come di consueto all’Auditorium San Fedele, abbiamo intervistato il chitarrista e improvvisatore australiano Oren Ambarchi dopo il suo live con Thomas Brinkmann. Dal rock al free jazz, dal minimalismo alla composizione elettronica contemporanea, il percorso di Ambarchi attraversa varie scuole stilistiche. Inizialmente ispirato da uno dei protagonisti più emblematici del noise giapponese, Keiji Haino, la sua ricerca si muove tra astrazione e ritmo, temporalità dilatate, lente variazioni e multisfaccettate influenze musicali. Tra le sue collaborazioni più autorevoli ricordiamo Sunn O))), Jim O’Rourke, Fennesz, Alvin Lucier e Robin Fox.
Al San Fedele abbiamo avuto il piacere di ascoltare il tuo primo live con Thomas Brinkmann. Come ha preso forma il set?
La perfomance è stata una vera e propria sfida, perchè l’ambiente dell’Auditorium ci ha obbligato
a modificare quasi completamente quello che avevamo in testa. Durante il soundcheck ci siamo accorti che non potevamo usare troppe basse frequenze, che sono parte integrante della musica di entrambi, perchè facevano vibrare il pavimento in legno e il tavolo su cui suonava Thomas, rendendo quasi impraticabile il suo lavoro. Questo vincolo ci ha reso più molto più inventivi rispetto alle nostre precedenti collaborazioni in studio. Del resto per me suonare con Thomas è sempre molto stimolante, perchè entrambi siamo interessati alla combinazione di ritmo e astrazione. Lo avevamo già intuito nel 2011 in Giappone quando avevamo suonato per la prima volta insieme e con Mika Vainio, tanto che l’anno successivo avevamo fatto uscire subito un disco come duo, The Mortimer Trap, composto scambiandoci materiale tra l’Australia e la Germania.
Hai un background da batterista mentre Thomas Brinkmann è una figura di rilievo nel panorama della minimal techno. Come avete fatto convergere le vostre differenti concezioni di ritmo?
Thomas è un musicista inusuale, uno di quelli che ama fare l’opposto rispetto a quello che ci si aspetta da lui. Il suo lavoro, come il mio, risente di molteplici influenze, tra cui la musica africana. Ricordo in particolare il remix di Concept 1 di Richie Hawtin. Mi aveva colpito la sua restituzione in stile voodoo music. Forse è stato in quel momento che sono diventato un suo fan. Entrambi siamo interessati nel determinare una condizione di ascolto molto mentale, lavorando sul ritmo, la ripetizione e le variazioni lente. Il minimalismo per me è un punto di riferimento importante: non solo quello americano degli anni sessanta e settanta. Ho diversi album di Robert Ashley o dell’italiana Cramps, per citarne alcuni. In generale mi piacciono i progetti dove lo sperimentalismo incontra la minimal techno.
In che modo il free jazz ha contribuito a forgiare il tuo punto di vista sul rapporto tra improvvisazione e composizione?
Penso di essermi avvicinato al free jazz essenzialmente per due motivi: la libertà e il suono. Al centro dei miei interessi non c’è il rapporto con gli strumenti. I compositori che amo di più si concentrano sul suono come materia da plasmare, muovendosi in una direzione esplorativa. Per me non c’è una distinzione netta tra improvvisazione e composizione, se non nella misura in cui l’improvvisazione richiede una predisposizione maggiore nel lavorare sotto pressione, nell’adeguarsi alla situazione e al tempo: tutte variabili che trovo affascinanti.
Trasformazioni progressive e narrazione. Sono entrambi presenti nella tua musica?
Direi di sì. Da un lato mi piace l’aspetto single minded, totalmente estraneo alla dimensione narrativa, dove il cambiamento e la direzione del movimento si avvertono dopo venti o trenta minuti di ascolto. Dove la forma emerge lentamente e si viene accompagnati nella sua comprensione. Dall’altro mi piacciono anche le tracce brevi, con molte idee e variazioni repentine dentro, quindi dove la presenza di elementi narrativi è più accentuata.
Ordine e caos coesistono nel tuo lavoro o si escludono a vicenda?
Non credo si possa distinguere tra queste due posizioni. O almeno, io non sono dell’idea di farlo oggi. Forse quand’ero più giovane vedevo nel noise un principio di disordine. La mia musica era più permeata di informazione e variava in maniera più improvvisa. Col tempo ho preferito orientarmi verso una dimensione più immersiva, costituita da tracce più lunghe, dove parlare di distinzione tra ordine e caos diventa difficile, perchè lo scopo è trascinare l’ascoltatore in un viaggio, non focalizzarsi su questioni di natura tecnica. Preferisco un approccio più libero e ispirato alla contaminazione. Musica elettronica, free jazz, etnica, indiana, tutto quello che ascolto entra a far parte del mio linguaggio, che non asseconda facilmente i dualismi.
Che cosa ci dici invece della melodia?
Mi piace moltissimo, come il noise, le textures e l’astrazione. Non trovo differenze considerevoli tra una cosa e l’altra. Provengo da diverse esperienze musicali e ho sempre ascoltato molta musica, maturando un punto di vista piuttosto fluido. Negli ultimi due anni per esempio ho dedicato molto tempo a riascoltare la disco, perchè sono tornato a lavorare sulla ritmica e il nuovo album risente di influenze new wave pop anni ottanta, che fanno parte del mio background.
L’incontro con Keiji Haino è stato molto importante nella ricerca e definizione di un tuo approccio musicale. Rock, noise, improvvisazione, psichedelia, percussioni, minimalismo, per lui i confini sono intangibili ed effimeri. Lo consideri un maestro?
Quando facevo parte della scena jazz, il mio desiderio di aprire gli orizzonti e di provare sistematicamente cose nuove, non veniva particolarmente apprezzato. Questo mio disallineamento rispetto all’importanza attribuita al virtuosismo tecnico, mi aveva tenuto a lungo ai margini. Haino in quel momento fu una svolta. Il suo modo di suonare la chitarra era terribilmente personale e mi permise di comprendere il valore dell’individualità nel rapporto con lo strumento e della costruzione di un proprio linguaggio sonoro.
Live Knots uscito su PAN nel 2015, riprende un’idea che hai portato avanti a più riprese, fino a Quixotism: lavorare sul concetto di ensemble, sulla reazione più che sull’improvvisazione con altri musicisti. É così?
Knots era un pezzo di Audience of One. Un album che ha rappresentato un momento di passaggio e di rottura. Probabilmente il primo in cui ho sperimentato l’idea di reagire alla musica di altri. Avevo chiesto a Joe Talia di suonare la batteria, con un preciso stile, tempo e durata, lasciandomi la possibilità di costruire la mia composizione intorno. Successivamente volevo replicarlo live e ci sono riuscito nel 2013, all’Unsound con il contributo della Sinfonietta Cracovia e in una perfomance a due con Talia, all’interno del leggendario SuperDeluxe a Tokyo. Live Knots ripropone entrambe le registrazioni in un unico album.
Inner Spaces
scenari sonori a più dimensioni
Oren Ambarchi e Thomas Brinkmann
a cura di Manuela Benetton
appuntamento #5
2 maggio 2016 #report
Auditorium San Fedele, Milano
Via Ulrico Hoepli 3/b
Info: svnsvn.tumblr.com