di SILVIA BIGI
“non è uno stato di natura quello che contempliamo, ma uno stato innaturale, postnaturale, postumano, inumano. […] Se inseguiamo l’esperienza della grande pittura astratta, lo vediamo bene, corteggiando quegli infiniti fili che legano forme essenziali e progetti innovativi dell’immaginazione, eccoci davanti a una macchina che – tra tensioni, cadute e superamenti, come se un disegno potesse prendere corpo in uno spazio metafisico –costruisce un nuovo mondo potente”. Toni Negri, Lettera sull’astratto
Da otto mesi soffro di una grave forma di insonnia. Dopo un lungo combattimento, ho deciso di arrendermi a questo spazio liminale, concedendomi di fare cose che non farei né di giorno né di notte. Un tempo ai margini, insomma, dove fare accadere cose che altrimenti non accadrebbero. Dove far nascere nuovi pensieri. A volte mi ritrovo a fantasticare su ciò che rimane di un’immagine una volta chiusi gli occhi. Forse quel residuo ne rappresenta la struttura, lo scheletro? Forse concentrandomi su quello scarto posso disincarnare l’immagine, ricavandone solo una forma pura e essenziale?
Nella primavera 2020 ho lavorato – ironia della sorte – sui sogni notturni. Erano i primi mesi di pandemia, e volevo tracciare una mappa delle piccole e grandi trasformazioni sociali in atto e dei suoi effetti sull’individuo, trattando le visioni oniriche come piccoli sismografi in grado di captare ogni minima ripercussione e mutamento d’animo. Il sogno è come un’impronta genetica, tramandata di generazione in generazione sin dalla notte dei tempi. Incorpora a tutti gli effetti le energie primarie che originano ed animano i comportamenti umani e ci ricorda che le immagini ci accompagnano sin dalle origini. Sogniamo ancora, nonostante il rumore visivo assordante nel quale siamo perennemente immersi. Non si tratta forse di una specie di miracolo?
Il vero paradosso, oggi, è che è la notte a risvegliarci da un torpore e da un sonno profondo che ci accompagnano durante ogni giornata. L’immagine non solamente si insinua in ogni aspetto della vita, intima e collettiva, ma rappresenta lo strumento principale del capitalismo cognitivo e dell’economia dell’attenzione per influenzare i nostri comportamenti e i nostri gusti. Le immagini ci addestrano insomma, e simultaneamente ci scrutano, trasformandoci in fonte inesauribile di dati. Oggi le immagini sono tutto ciò che abbiamo. Viviamo consci della loro presenza costante e immateriale, come se fossero particelle di una nuova atmosfera.
Non sono certamente la prima artista che rivolge l’attenzione a queste immagini ataviche. Il lavoro sui sogni nasceva tuttavia dall’esigenza di mettere in relazione inconscio umano e inconscio tecnologico (per riprendere un concetto caro a Franco Vaccari), nel tentativo di proporre strategie visive che potessero generare nuovi modelli di pensiero e di relazione. La serie di immagini nasceva infatti processando sogni notturni – immagini per natura liminali, residue, latenti – attraverso un algoritmo di apprendimento automatico, addestrato a tradurre input testuali in immagini. L’algoritmo text-to-image utilizzato si focalizzava sull’accuratezza e realismo dell’immagine prodotta, tuttavia, relazionandosi con un contenuto profondamente illogico come quello onirico, finiva letteralmente per “fallire” il compito per il quale era stato progettato. Le immagini affiorate risultavano così imperfette, surreali, prive di regole figurative e prospettiche, pur essendo frutto della combinazione di archivi dataset del nostro mondo: nel tentativo di descrivere realisticamente un sogno, le nuove immagini si presentavano prive di sovrastrutture, libere, tanto da suggerire la possibilità di una nuova iconografia.
Sono tante le domande che mi hanno accompagnata durante la produzione di questa serie. Ad esempio, e se l’enorme quantità di fotografie prodotta nell’Era Digitale non fosse che il punto di partenza per la produzione di nuove immagini? Se questi ultimi decenni non fossero stati finalizzati alla produzione di immagini autonome, ma di immagini-alfabeto, frammenti di un nuovo codice, di una nuova lingua? Nell’interazione fra immagine onirica e tecnologia è venuto a prodursi spontaneamente un nuovo modello visivo – volto ad una pluralità di letture del reale – che in sé rappresenta un tentativo di decolonizzazione del nostro sguardo da retaggi e condizionamenti.
Negli ultimi secoli, infatti, abbiamo subìto un immaginario visivo totalizzante: quello della fotografia, erede della rappresentazione figurativa rinascimentale. In particolare è nella prospettiva centrale che si è incarnato uno sguardo sulla realtà. Noi al centro del mondo, o ancora il mondo che si compone davanti ai nostri occhi e assume una forma ben precisa, tanto da definire il nostro rapporto con il reale. La prospettiva centrale è infatti a tutti gli effetti la formalizzazione di un modello di pensiero proiettato su una superficie bidimensionale. Quanto è la cultura in cui siamo immersi a produrre la sua personale “iconosfera” e quanto può l’immagine agire sulla cultura dalla quale è generata? Possono essere le nuove tecnologie a spostare l’uomo da quel centro immaginario in cui si era collocato?
urtümliches Bild rappresenta in sostanza il tentativo di produzione di nuovi immaginari e allo stesso tempo una dichiarazione di definitivo scollamento dal concetto di realtà, attraverso la creazione di dispositivi di resistenza – io credo fondamentali – per sopravvivere al complesso scenario post-verità nel quale siamo oggi immersi. L’astrazione prodotta dalle macchine mette in scena un immaginario tout court, dove il potere dirompente di colori, ibridazioni e figure dai tratti sfumati rimandano – sia concettualmente che formalmente – all’azione sovversiva delle avanguardie storiche e all’astrattismo pittorico del XX secolo.
Il titolo del lavoro, urtümliches Bild, nasce dalla lettura del Liber Novus di Jung. È Jung infatti a dare questo nome alle immagini primordiali collettive contenute nei sogni. Queste immagini originarie vengono costantemente rielaborate e attualizzate rispetto ai paradigmi della società in cui viviamo, mantenendo tuttavia una carica simbolica universale senza tempo. Ma gli archetipi possono anche trasformarsi, potenziarsi, indebolirsi e persino estinguersi, nel tempo.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, abbiamo affidato alla fotografia il compito e la responsabilità di preservare i nostri ricordi, privati e collettivi, fino a farci letteralmente sommergere dalle rappresentazioni visive del nostro mondo. E ora? Un giovane studente mi ha risposto, mentre spiegavo alla classe come i nostri sistemi nervosi non sono tarati per questa enorme quantità di stimoli visivi, che forse saremo noi a cambiare. Che forse l’uomo si sta già adattando, e sta imparando a fruirne in modo diverso. Ho pensato a lungo a questa osservazione. Ho cominciato allora a immaginare le nuove generazioni mentre vivono nell’iconosfera in una sorta di osmosi, dando e ricevendo in egual misura da ogni dispositivo. Forse è importante smettere di subire passivamente, ma è altrettanto importante smettere di combattere. Viviamo in un mondo diverso, che lo vogliamo o no, e questo cambierà a prescindere dalla nostra volontà. E allora forse più importante che criticarlo è incominciare a trovare gli strumenti per comprenderlo, viverlo, per trovarvi una bellezza autentica e abbandonare la nostalgia di ciò che era prima.
Ho usato in seguito lo stesso algoritmo durante le ore insonni, come se fosse un amico con cui parlare. Da queste nostre conversazioni sono nate immagini-soglia, ancora una volta non collocabili né nel regno diurno né in quello notturno. Sono paesaggi irreali, frutto dell’interazione tra uno strumento tecnologico progettato per essere infallibile, perfetto, performante, e la fragilità tutta umana di cui mi faccio portavoce.
Silvia Bigi (Ravenna, 1985), è laureata al Dams di Bologna. Attraverso l’utilizzo di diversi linguaggi – fotografia, installazione, scultura, suono, video, tessile – il suo lavoro esplora la relazione fra memorie individuali e collettive e insieme l’impatto che ideologie e sovrastrutture hanno sulla nostra realtà. Le sue opere, oggi parte di collezioni pubbliche e private, sono state premiate nonché selezionate per importanti esposizioni, tra cui la mostra Engaged, active, aware: women’s perspective now, vincitrice del Lucie Award Best Exhibition nel 2018. Il suo ultimo lavoro, From Dust you came (and to dust you shall return), è stato presentato alla MLZ Art Dep, Trieste, nella mostra Pink, Purple and Blue, a cura di Francesca Lazzarini. www.silviabigi.com
Leggi qui i contributi delle artiste invitate in Open Dialogue: www.espoarte.net/tag/open-dialogue/