di ELENA BELLANTONI
“L’estate sta finendo…” cantavano i fratelli Righeira nel 1985, da quell’anno sono passati ben sette lustri e quest’anno stiamo vivendo un’estate che non sarà fatta solo di falò in spiaggia e primi amori da muretto, ma di corpi che vivono e sperimentano la paura del corpo Altro.
In questi stessi giorni, oltre alla pandemia globale che ha innescato questa “bomba epidemiologica”, siamo stati spettatori di una grossa esplosione, in Libano a Beirut, che nella sua forma richiama la medesima conformazione del fungo atomico di Hiroshima. A distanza di settantacinque anni i corpi ne portano ancora le ferite così come la terra stessa. Il 6 agosto 1945, alle 8.15 del mattino, fu sganciato il primo ordigno atomico a uso bellico della storia; un bombardamento che ha segnato la fine della Seconda Guerra Mondiale e ha inaugurato l’era della paura nucleare.
Continuo il mio giro di boa e ritorno al 1986 – avevo 11 anni – e un’altra reazione nucleare esplode. Non è il fungo atomico a cui noi bimbetti cresciuti alla fine degli anni settanta siamo stati abituati – forse per esorcizzare la paura – vedendo appunto i cartoni animati giapponesi.
Sono le ore 1:23 della notte del 26 aprile quando la centrale nucleare di Chernobyl è scossa da un’esplosione.
Il sito si trova a 18 chilometri dalla città di Chernobyl, a 3 chilometri da Pripyat, nell’area settentrionale di un’Ucraina ancora parte dell’Unione Sovietica. È il più grave incidente mai verificatosi in una centrale nucleare. L’esplosione libera un’enorme quantità di grafite e provoca un incendio che comincia a disperdere nell’aria isotopi radioattivi. L’incendio sprigiona una grande nuvola, densa di materiale radioattivo, che comincia a contaminare tutta l’area attorno alla centrale che arriva fino in Europa.
Negli anni successivi al disastro, circa 600mila persone si occuparono della rimozione dei detriti, della decontaminazione del sito e delle strade intorno. Furono i cosiddetti “liquidatori”, reclutati in Bielorussia, Russia e Ucraina tra militari e civili, a cui vennero consegnati speciali certificati e una medaglia al valore, molti di loro – come gli stessi abitanti della zona colpita – sono morti negli anni per tumori alla tiroide. Oggi Pripyat, il centro abitato allora più vicino al luogo dell’incidente, resta una città fantasma. La flora e la fauna della zona manifestano ancora i segni delle radiazioni. Un intero bosco di pini ha assunto un colore rossiccio ed è morto, ha preso così il nome di Foresta Rossa.
“La Terra si sta ribellando contro il mondo. L’inquinamento diminuisce in maniera evidente. Lo dicono i satelliti che mandano foto della Cina e della Padania del tutto diverse da quelle che mandavano due mesi fa…” afferma la voce di Franco Berardi Bifo nelle sue “cronache della piscodeflazione” riflettendo sugli effetti, sul pianeta, di questo blocco globale durante il periodo di lockdown.
Come nel gioco dell’oca ritorniamo al punto di partenza: Italia 9 marzo 2020, Conte annuncia nella conferenza stampa il via del DPCM con nuove misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sull’intero territorio nazionale.
A questo decreto abbiamo reagito con una sorta di “panico” iniziale, esorcizzato sui balconi, a cui è subentrato un senso di abbattimento e di triste rassegnazione. Abbiamo capito che anche le relazioni stavano cambiando radicalmente, tutti siamo diventati umorali con giornate sì e giornate decisamente no. Come in una scatola di oggetti fatti di cristallo abbiamo iniziato a fare movimenti rallentati e il nostro corpo, decreto dopo decreto, si è lentamente fermato.
Lo slogan dell’autoreclusione domestica con l’hashtag che ci ha accompagnato in questi mesi #iorestoacasa si basa sul principio che tutto sia convertibile in attività casalinga. La prigionia domestica può distruggere i rapporti e generare una sensazione di blocco che non si traduce nella voglia di leggere romanzi o altro. Abbiamo cominciato quindi a percepire che qualcosa stava per rompersi.
Nel video che ho prodotto durante il confinamento casalingo emerge questa “crepa”, I Fear è un autoritratto video performativo in cui l’io si “identifica” nella paura.
L’inizio del video sembra spensierato – anche se l’azione del tagliare i capelli non è del tutto quotidiana ma appartiene alla comune condizione di isolamento – il motivetto sonoro accennato dalla voce sottolinea una situazione di leggera inconsapevolezza. Quanto il canto intimo si trasforma in un verso animalesco qualcosa cambia: la trasposizione sul piano visivo è l’assunzione di connotati da dittatore. L’io che emerge è spaventoso e grottesco, come un animale in cattività – l’urlo delle scimmie aggiunge un elemento non solo istintivo ma anche distopico – l’io autoritratto scopre una parte di sé nascosta e perturbante.
Il lavoro è una riflessione sulla condizione di costrizione e di potere sui nostri corpi durante il periodo di quarantena, in cui la pandemia sembra aver prodotto un grande esperimento sociale.
Il personale è politico, slogan del movimento femminista teorizzato da Carla Lonzi, echeggia qui ed indica bene la questione: la messa in discussione della separazione tra la sfera pubblica e quella privata. La privata oppressione, il controllo, diventa oggetto da cui scaturisce una riflessione anche sul piano collettivo.
La paura che emerge è quella della regolamentazione e del ritorno a nuove forme di totalitarismo, di sospensione dei diritti, non solo imposta esternamente e socialmente, ma che permea ed incide sul piano intimo e personale trasfigurandolo.
Considero il dittatore tedesco un’icona negativa del nostro Novecento, già “utilizzata” da altri artisti che ne hanno evidenziato la violenza evocativa attraverso concetti di brutalità e caduta. I rimandi chiari alla storia della performance sono molti: lo stesso gesto di tagliarsi i capelli che è il punto di partenza, appartiene qui invece ad una condizione comune in questo periodo di quarantena forzata.
Nell’attuale periodo post-pandemico che stiamo vivendo, in cui i corpi sono diventati sempre più luoghi di violenza e sottomissione, di rivendicazione sociale come anche da parte del movimento Black Lives Matters che lotta per un corpo senza confini di pelle, che non deve più inginocchiarsi di fronte al suprematismo bianco feroce e tirannico. Quello che resta da tirare giù insieme alle statue che cadono pesanti come corpi morti a terra, sono le nostre paure che rimbombano come polvere e restano appiccicate addosso creando un velo di pregiudizio sottile che a volte facciamo fatica a riconoscere: I Fear.
Il corpo, il nostro personale corpo, come spazio di esistenza e come luogo di potere, come nucleo di procreazione e di impiego di efficienza, è diventato il nuovo spazio all’interno del quale si manifestano le aggressive politiche di confine che concepiamo e sperimentiamo da molto tempo sull’Altro da noi, ingaggiando una battaglia al virus, agli “intrusi”. Lo spazio che percorriamo così come l’aria che respiriamo vogliamo che sia solo nostra, se incontriamo qualcuno camminando siamo pronti a cambiare marciapiede o ad attraversare anche la strada. Sfiorarsi è identificato come una minaccia e, allo stesso tempo, come un bisogno. Il confine è diventato oggi la nostra stessa pelle. Per molto tempo abbiamo inviato migranti, profughi ed esuli, i minori, i richiedenti asilo, i senza fissa dimora nei centri di “accoglienza” dei luoghi sospesi, in between. In questi mesi siamo stati noi a vivere in una forma di carcerazione dentro le nostre stesse case.
Chi si sposta da un confine all’altro deve spesso attraversare il mare, per farlo “escogita” diverse strategie per compire un viaggio di cui si conosce bene il punto d’inizio ma non quello di arrivo.
Ho passato il mese di via libera post lockdown in Puglia a lavorare per un nuovo progetto invitata dal curatore Paolo Mele a riflettere sul “concetto” di torre, per una grande mostra diffusa lungo tutto il territorio delle Puglie.
Sono in Salento a Gagliano del Capo la punta estrema di questa regione dove si incontrano i due mari: l’Adriatico ed il Mar Ionio. Percorrendo le strade sulla costa capto la radio greca dall’altra sponda, che si vede nei giorni di cielo terso, che canta a ritmo di Sirtaki e si intreccia anche con la lingua albanese. Questo mare intesse storie differenti, è come un’enorme strada d’acqua che fa emergere visioni e narrazioni, sono in una terra di confine.
Riflettere sull’acqua significa anche specchiarsi, avere una visione di sé, guardarsi dentro. Ho pensato di scegliere la prospettiva dal mare per “buttare” un ancoraggio, gettare l’ancora o un corpo morto implica sia uno sforzo fisico che simbolico ovvero quello del gettarsi.
Buttare, lanciare… Sono tutti sinonimi che sottolineano questa dimensione del coraggio di immergersi ed attraversare il mare. In questa tensione, in questo gioco-forza nasce Corpomorto.
Ho deciso di lavorare sul concetto di corpo morto – preso in prestito dal linguaggio marinaresco – producendo delle lettere galleggianti in polistirene espanso che diventano dei punti di ancoraggio per i corpi morti in cemento gettati in fondo al mare in una piccola gola vicino al porto di Tricase.
Mi interessano gli aspetti linguistici di questi elementi marinari: la parola corpo-morto che evidenzia con il peso del cemento e la presenza di molti corpi morti nei nostri mari; la parola an-coraggio sottolinea l’azione di buttarsi, il coraggio di avvicinarsi ed attraccare per raggiungere la terra ferma.
Il linguaggio diventa un “salvagente” un luogo su cui potersi appoggiare, tutte le lettere – che butto in acqua attraverso un’azione performativa – sono di colore arancio intenso lo stesso dei giacchetti di salvataggio usati in mare. I corpi morti, in fondo al mare, riportano come un riflesso la stessa scritta che affiora a pelo d’acqua: ancora corpo morto tra cielo e terra coraggio, da questo gioco di parole emerge un monito di natura poetica-politica che arriva da lontano.
Appare in questo processo di scrittura, letteralmente, il rapporto tra il corpo, che diventa traccia, e la parola. La poesia visiva – praticata da molte artiste dagli Anni ’70 – diventa performativa. La poesia e la performance hanno, per me, un linguaggio molto simile; lavorano su una narrazione asciutta efficace che fluisce per immagini. Dal mio punto di vista il corpo scrive, incide lo spazio, diventa segno e forma allo stesso tempo. La performance ha un enunciato secco, lavora e de-scrive immagini chiare, esattamente come fa un certo tipo di poesia a me molto cara: la parola diventa incarnata.
Echeggia qui la visione fenomenologica del mondo e del saper vedere attraverso le cose del filosofo francese Merleau-Ponty che, nell’estate del 1960, all’età di 52 anni scrive il suo ultimo saggio prima di morire “L’occhio e lo spirito”. Nelle sue pagine dense e suggestive il filosofo si sofferma, in un punto, sulle piastrelle sul fondo di una piscina: quando vedo attraverso lo spessore dell’acqua le piastrelle sul fondo della piscina, non vedo malgrado l’acqua ed i riflessi, le vedo proprio attraverso essi, mediante essi. Attraverso l’acqua la “carne del mondo” emerge, la visione prende forma e come in una relazione chiasmatica tra cielo e terra, il corpo morto reclama il suo essere al mondo tramite la forma del linguaggio.
Mi definisco spesso un’archeologa-investigatrice poiché il mio lavoro è di ricerca: metto insieme tracce e frammenti per arrivare all’opera finale. Questo succede perché il mio lavoro è di natura processuale e di analisi del territorio in cui decido di passare del tempo. Qui l’essenza del mar Mediterraneo emerge con tutta la sua forza, da sempre esso ha rappresentato una strada d’acqua percorsa da popolazioni che giungevano e ripartivano.
Lavoro per immersione, in questo caso, con Corpomorto l’immersione avviene anche in senso letterale buttandomi in mare per costruire la mia azione. Il gettarsi, il buttarsi fa emerge un aspetto importante sia della mia pratica artistica che del ruolo dell’artista oggi: attraverso il mio agire posso dichiarare apertamente lo “shock” di questa “gettatezza” (il desein heideggeriano, per intenderci), manifestando esplicitamente – attraverso il mio processo di lavoro e le mie performance – questa discrepanza fra il mondo interno ed il reale.
Il mondo ci attraversa e noi in quanto artisti “engagé” – se è lecito ancora utilizzare questo termine – possiamo prendere delle posizioni rispetto al mondo che abbiamo davanti e utilizzare il nostro linguaggio creando nuovi punti di vista, così come quello dal mare… Non posso non pensare ad Albert Camus che, negli anni Cinquanta, dopo il suo viaggio in Grecia, appunto, rielabora il così detto «pensée de midi» che abbraccia i paesi del mediterraneo. Corrado Rosso nella prefazione all’”Uomo in rivolta” (Bompiani) afferma che esso è “l’espressione di una legge, propria di quel pensiero mediterraneo, antigermanico, antistorico che è la legge che fonda la rivolta”.
“Mi rivolto dunque siamo” scriveva lo scrittore Algerino nel 1951 – frase da cui nel 2014 ho prodotto anche un lavoro a neon – in un’azione si scopre la dualità, il se plurale. Quella solidarietà cara allo scrittore apolide – in cui mi ritrovo – la cui posizione scomoda emerge da una dicotomia con il mondo, da una frizione inevitabile che genera pensiero mettendo in crisi il sistema costituito e codificato, il passato e le grandi ideologie. Con Corpomorto la storia viene mietuta e fatta parlare, riletta e riscritta, il linguaggio dal profondo prende vita con un gesto artistico e come un mezzo di salvataggio resta a galla.
Elena Bellantoni (1975) vive e lavora a Roma. Dopo essersi laureata in Storia dell’Arte Contemporanea, studia a Parigi e Londra, dove nel 2007 ottiene un MA in Visual Art al WCA University of Arts London. Nello stesso anno è cofondatrice del progetto Platform Translation Group che indaga i temi di lingua, cultura e traduzione nelle Arti Visive. Nel 2008 apre lo spazio no profit 91mQ art project space di Berlino, nel 2015 è cofondatrice di Wunderbar Cultural Project.
Successivamente con numerosi workshop in Italia e all’estero, approfondisce la sua esperienza nel linguaggio video e nelle arti performative. È attualmente docente di Fenomenologia del Corpo e di Metodi e Tecniche per L’Arte Terapia all’Accademia di Belle Arti di Roma.
La sua ricerca artistica riflette sui concetti di identità e alterità attraverso dinamiche relazionali che utilizzano il linguaggio e il corpo come strumenti di interazione, spaziando tra il video, la fotografia, la performance, il disegno e le installazioni.
Negli anni ha partecipato a numerose residenze d’artista tra cui: nel 2019 da Beo_Project, Belgrado; nel 2017 The Subtle Urgencies, con Adrian Paci, Fondazione Pistoletto – ArtHouse, Biella-Scutari, Italia/Albania; nel 2016, Soma Mexico Residency, Mexico City e nel 2009 As long as I’m walking residenza con Francis Alÿs e il critico Cuauthémoc Medina, curata da 98weeks Research Space, a Beirut.
Nel 2018 con il progetto On the Breadline è tra gli artisti vincitori della IV edizione dell’Italian Council. Con il progetto Ho annegato il Mare risulta invece vincitrice, nella sezione Collateral Events, a Manifesta 12 del 2018 e nel 2011 con il progetto In Other Words, the Black Market of Translation – Negotiating Contemporary Cultures per il bando NGBK (Neu Gesllschaft für Bildende Kunst).
Tra i riconoscimenti ricordiamo anche il Premio speciale Repubblica.it al Talent Prize 2014 (2014), nel 2009 Movin’up Worldwide del GAI (Giovani Artisti Italiani) dalla Presidenza Consiglio dei Ministri Italiano; e nel 2006 il primo premio del Tempelhof-Schöneberg Kunstpreis Zum Ball-Spiel di Berlino.
Le opere di Elena Bellantoni sono presenti in diverse collezioni pubbliche e private, tra cui la Collezione del Ministero Affari Esteri La Farnesina e la Fondazione Pietro ed Alberto Rossini. I suoi lavori video sono inoltre presenti nell’Archivio Careof DOCVA e nell’Italian Area Contemporary Archive a cura di Viafarini a Milano. www.onthebreadline.it