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THE HAGUE (NL) – L’AIA  | Museum Beelden aan Zee | 12 maggio – 27 agosto 2017

di LUCA BOCHICCHIO

Nero/Alessandro Neretti, column barefoot, 2017, terracotta smaltata, pneumatici usati 129 x 69 x 73,5 cm courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Nero/Alessandro Neretti, column barefoot, 2017, terracotta smaltata, pneumatici usati
129 x 69 x 73,5 cm
courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

La vita è un pneumatico che brucia: con questa rassicurante constatazione Nero/Alessandro Neretti (Faenza 1980) sbarca nei Paesi Bassi, al Museum Beelden aan Zee dell’Aia, con una mostra personale che, senza dubbio, testimonia un passo avanti nella decennale carriera dello scultore faentino.
Definire Nero scultore è un vezzo da storico dell’arte che mi prendo volentieri, conoscendo bene il percorso dell’artista e sapendo quanto la sua ricerca dipenda dalla necessità di costruire, modificare o modellare strutture immerse nello spazio. Forse, tra le molte residenze svolte negli ultimi anni in Italia e all’estero, quella di Albisola (2015) che ci ha visti ancora una volta lavorare insieme dopo la personale al MAR di Ravenna (2014) è stata particolarmente significativa da un punto di vista critico. Seguire da vicino Nero nel costante (e obbligato) confronto con i maestri dell’ultima stagione modernista, da Fontana a Fabbri, da Jorn a Leoncillo, è stato in qualche modo un momento rivelatore della sua profonda aderenza alla materia, al processo che sta alla base della sua scultura in ceramica e di quella, per estensione, installativa, polimaterica e multimediale.

Nero/Alessandro Neretti, proof of concept (ball breaker), 2017, legno recuperato, fotocopia, materiali misti 186 x 216 x 109 cm courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Nero/Alessandro Neretti, proof of concept (ball breaker), 2017, legno recuperato, fotocopia, materiali misti
186 x 216 x 109 cm
courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Tuttavia, per questa ultima fatica olandese non si deve più parlare di ceramica ma, appunto, di ruote e di gomme bruciate, non solo in senso metaforico. Come recita il testo di sala, questa esposizione si snoda lungo un percorso segnato da diverse sculture e installazioni nate dalla riflessione sull’ambiente che le ospita: dal museo al tessuto urbano circostante, fino agli spazi naturali della spiaggia e alla sua storia antica e recente, legata ai commerci marittimi ma anche all’arte concettuale olandese. La caratteristica comune a tutte le sculture ambientate di Nero è quella di inglobare strutture che non servono soltanto da sostegno ma consentono di allestire una immediata fuga: una sorta di sgombero rapido, sia esso forzato o previsto, comunque già messo in conto dall’artista.

Una scultura che è dunque nomade a partire dal suo presupposto fenomenologico, quello del supporto che determina il suo apparire. Impalcature, tasselli, carrelli, ruote, cavalletti non sono più soltanto simboli di un’umanità precaria e di un senso esistenziale personale ancor più randagio, come avveniva nei lavori precedenti, ma sono qui decisamente ingombranti, perfettamente calibrati in quanto perni della scultura stessa.
Assistiamo dunque all’assoluta verità dei materiali e dei media, la “storia” che sottende l’intero ciclo di opere è, per così dire, a vista: dall’impalcatura architettonica di white woman with cushions an african lion on eight buckets, all’intima ricostruzione ambientale di proof of concept (ball breaker), al monitor che veicola il cortometraggio tales from the northern seas, ai cavalletti di lazy susan, lazy susan, lazy susan, lazy susan, lazy susan e actually with no title.

Nero/Alessandro Neretti, dettaglio da: lazy susan, lazy susan, lazy susan, lazy susan, lazy susan, 2017, terracotta smaltata, scala in alluminio e plastica, coni di plastica, legno di pino multistrato, movimento meccanico 157,5 x 229,5 x 92 cm courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Nero/Alessandro Neretti, dettaglio da: lazy susan, lazy susan, lazy susan, lazy susan, lazy susan, 2017, terracotta smaltata, scala in alluminio e plastica, coni di plastica, legno di pino multistrato, movimento meccanico
157,5 x 229,5 x 92 cm
courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Infine, lo pneumatico. Ruota o copertone che sia, non è solo la chiave di volta del titolo generale ma è anche il protagonista di cinque opere in mostra (series one bicycle wheel; fainted laocoonte after party; sisters; column with putto; column barefoot). Risaliamo ai tempi del New Dada e spostiamoci negli Stati Uniti per ricordare Automobile Tire Print (1953) e Monogram (1955-59) di Rauschenberg, entrambe caratterizzate dall’oggetto pneumatico: nel primo caso, con John Cage, per lasciare con una Ford Modello A un segno continuo su una striscia composta da venti fogli di carta incollati l’uno all’altro; nel secondo caso, il copertone circonda la capra impagliata su una piattaforma di legno. Le installazioni complesse di Rauschenberg nascevano nel momento in cui, trasferendosi a New York, egli prelevava oggetti e materiali di scarto dalla strada anzitutto perché gli servivano da supporti economici sui quali dipingere. L’urgenza della creazione scatenava in quel caso il riuso di oggetti trovati, nel rinnovo della poetica e del procedimento dada dell’objet trouvé.

Nero/Alessandro Neretti, actually with no title, 2016, antiche sculture in ceramica cinesi, scala in alluminio e plastica, legno recuperato 234 x 198,5 x 64 cm courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Nero/Alessandro Neretti, actually with no title, 2016, antiche sculture in ceramica cinesi, scala in alluminio e plastica, legno recuperato
234 x 198,5 x 64 cm
courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Nella sua attuale ricerca, classificata da tempo come post-reale, Nero ricorre agli oggetti di scarto così come centinaia di artisti hanno fatto nella seconda metà del secolo scorso e poi in questi primi decenni del millennio. Irene Biolchini (in catalogo) ha parlato per Nero di forma di resistenza contro la (sovra)produzione capitalista e, come l’artista stesso dichiara nell’intervista di Alberto Zanchetta (in catalogo), durante la sua formazione, sul finire degli anni ’90, i materiali di scarto gli servivano anche come elementi narrativi con i quali costruire il racconto, la propria auto-fiction post reale. Forse oggi le opere di Nero ci dicono che abbiamo ampiamente superato il momento storico nel quale inglobare il rifiuto del ciclo industriale nell’opera d’arte determina un’azione o un pensiero anti-capitalista. Il concept della già citata fainted laocoonte after party recita: “when the party’s over, there’s always a total mess to be cleaned up even though we should realize that the Earth can’t deal with everything”. Il party del capitalismo è terminato (mentre ancora stancamente si produce per esso) e il nostro spazio è saturo, tutto ciò che viene aggiunto si accumula. Nero, come noi, si muove su questo cumulo di macerie e dunque credo che questa mostra possa forse anticipare una rifinitura estetica dello scarto, che assurge al ruolo di elemento plastico tout-court.

Nero/Alessandro Neretti, tales from the northern seas, 2017, colore, suono 12’12” 235 x 323 x 174 cm legno recuperato, telo di plastica recuperato, scala in alluminio e plastica, materiali misti, schermo lcd musiche di Jan Pieterszoon Sweelinck (1562-1621) suonate da BRISK Recorder Quartet Amsterdam e Camerata Trajectina courtesy dell’artista foto Andrea Piffari

Nero/Alessandro Neretti, tales from the northern seas, 2017, colore, suono
12’12”
235 x 323 x 174 cm
legno recuperato, telo di plastica recuperato, scala in alluminio e plastica, materiali misti, schermo lcd
musiche di Jan Pieterszoon Sweelinck (1562-1621) suonate da BRISK Recorder Quartet Amsterdam e Camerata Trajectina
courtesy dell’artista
foto Andrea Piffari

Tornando all’autofiction, nel primo capitolo di tales from the northern sea Nero si imbatte casualmente in un tesoro sepolto nella sabbia e inizia una sfida di sforzo e resistenza (la memoria corre ai Drawing Restraint di Matthew Barney) per portarlo con sé. Il pensiero non può non andare, per coincidenza temporale, al mega(lomane) progetto di Damien Hirst inaugurato a Palazzo Grassi e Punta della Dogana pochi giorni prima della 57. Biennale di Venezia. Al confronto della gigantesca macchina messa in moto da Pinault e Hirst, dove la bio-fiction è orchestrata in senso cinematografico per scatenare una produzione artigianale di altissimo profilo estetico e mercantile (per carità, si danno qui per scontati i ben più profondi ragionamenti sul potere mitico e ipnotico degli accumulatori di tesori, in tutte le epoche, in senso antropologico, e sul valore magico che attribuiamo agli oggetti, d’arte e non, ecc… ecc…), la spartana e poetica produzione di Nero nasce come omaggio a un luogo, una porzione di spazio in Europa carico di storia artistica e commerciale, un ambiente che in qualche modo ne ha accolto il transito, che l’ha ispirato fra le dune di sabbia del Mare del Nord. Un video simbolico, onirico, metaforico, che pone l’incontro con l’altro, fuori dal tempo della storia, al centro di un racconto lasciato dipanare a ognuno di noi.
Nero lavora quindi sullo storytelling senza abdicare ai propri capisaldi processuali e formali: messaggi provocatori rivolti allo spettatore, piedistalli che provengono da (o destinati a) un qualsiasi cantiere edile, manipolazione dell’immagine e dei suoi molteplici significati, ricerca site e time specific che precede e segue tutto il lavoro di elaborazione e installazione.
In questa occasione, però, a sorprendere e a far intuire lo scarto avvenuto in questa mostra è la pulizia linguistica, la statura di ogni singolo lavoro. Ha ragione Claudia Casali (in catalogo) quando afferma che «ognuna delle mostre di Nero è un’epifania sciamanica, ogni opera porta a considerazioni disincantate, ogni gesto fa nascere un dubbio, apparente…forse!».

terracotta smaltata, legno di pino multistrato, segatura, Nero/Alessandro Neretti, white woman with cushions on african lion on eight buckets, 2017, secchi di plastica, ferro 174 x 162 x 84,5 cm courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

terracotta smaltata, legno di pino multistrato, segatura, Nero/Alessandro Neretti, white woman with cushions on african lion on eight buckets, 2017, secchi di plastica, ferro
174 x 162 x 84,5 cm
courtesy dell’artista. Foto: Andrea Piffari

Nero sembra aver trovato la sicurezza necessaria – quella dell’introiezione nei meccanismi inconsapevoli del respirare e del nutrirsi – a vedere realizzarsi l’idea senza ansie da prestazione nei confronti dell’altro da sé, sia esso il pubblico, lo spazio o il museo stesso, con i suoi secoli di riferimenti e manufatti. Ne nascono dunque opere che mostrano senza subordinazione i segni di una partitura consapevole del fare artistico, del muovere energie intorno ai materiali e agli spazi: il legno grezzo o levigato, la scaletta industriale, il bilico, il telo trovato nell’immondizia e quello perfettamente teso come un banner pubblicitario, la scultura in ceramica (con gli stampi modificati, lo smalto perfettamente steso oppure sporco e sbavato), i busti, le icone della storia dell’arte, gli pneumatici esausti e l’immaginario popolare e naif.

In questa scenografia viene di colpo azzerato il tipico confine tra alto e basso su cui in passato Nero aveva lavorato: tutto appare nuovo, nel senso di appositamente creato per il suo gioco d’inganni, per il suo magico trasformarsi, che è il più estremo potere dell’arte nel quale Nero crede con disperazione, al quale si dedica totalmente. È in questa crescita vertiginosa, sorretta dal riscontro delle opere, che vedo un’esaltazione rara e genuina, ma pur sempre folle, un rapimento figlio della tragedia. Appare dunque pertinente il richiamo ad Arturo Martini, citato anche nella bella intervista di Zanchetta pubblicata nel catalogo che include testi di: Bart Achterkamp, Claudia Casali, Irene Biolchini, Dick van Broekhuizen, Alessandra Laitempergher e Ian Teeuwisse.

Nero/Alessandro Neretti. Life is a burning tire

12 maggio – 27 agosto 2017

Museum Beelden aan Zee
Harteveltstraat 1, 2586 The Hague – L’Aia 

Info: 0031-(0)70-358 58 57
info@beeldenaanzee.nl
www.beeldenaanzee.nl

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