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ROMA | MATTATOIO (EX MACRO TESTACCIO) | FINO AL 13 OTTOBRE 2024

di MATTEO DI CINTIO

L’ultima opera letteraria dello scrittore e saggista Emanuele Trevi, La casa del mago, è la testimonianza incalzante e commovente di un complesso rapporto padre-figlio, intessuta e impreziosita dalle fascinazioni che il celebre e riservato psicoanalista junghiano Mario Trevi, padre dello scrittore, procurava nell’animo del giovane Emanuele. L’enigma racchiuso dalla figura del padre, il significato della sua esistenza come “profanatore” oracolare degli intrighi dell’inconscio dell’umano, si configura come punto d’innesto per lo sgrovigliamento di una matassa narrativa fatta sì di ricordi, flashback, frammenti di un incontro garbato, mancato e ritrovato, ma anche e soprattutto riflessioni legate alla “visitatrice” che s’innerva nell’esistenza umana, ossia Psyché, l’anima. Non è un caso che lo scrittore romano faccia ricorso al femminile per sagomare la natura di Colei che ci abita e che, nell’abitarci, si ritrova ferita, immersa «in un perpetuo stato di contraddizione, di inganno, ordito contro sé stessa». L’anima, continua Trevi, è «una donna bellissima […] che muovendosi però si lascia dietro una specie di schifosa, imbarazzante bava di lumaca». Potremmo parafrasare questo resto viscido come un flusso di energie debordanti, fuori corso, che fa dell’anima stessa una straniera in terra, un ospite scomodo che s’incomoda in noi per ricordarci che non apparteniamo esclusivamente a questo mondo, che la parte più intima di noi stessi, per dirla agostinianamente, ci proietta verso territori alchemici sconosciuti, aggrumi di simboli collettivi. Il femminile, archetipo dell’intuizione e del debordamento di forze creative, è al centro del percorso artistico di Andrea Lelario (Roma, 1965) così come delineato dalla mostra Nomadi del sogno, a cura di Nicoletta Provenzano, presso il Padiglione 9 del Mattatoio.

Andrea Lelario, Taccuino IV, 2022_24, penna punta micron 003 su carta, cm 10,5×6, photo Andrea Lelario

Tale struttura, allestita in modo tale che in ciascuna delle stanze che la caratterizzano si concentrino opere realizzate con una stessa tecnica (stampe calcografiche, schizzi, disegni, matrici e fotoincisioni), sembra imporsi alla visione dello spettatore come una Wunderkammer, dove il magico, l’alchemico e il sogno si fondono per esprimere tutte le potenzialità immaginative dell’inconscio. Quest’ultimo, questo «sapere che non si sa di sapere» come lo definì lo psicoanalista Antonello Sciacchitano, ha per Lelario una spinta energetica femminea; non è un caso che proprio al muro dirimpetto all’ingresso, in fondo come a troneggiare su tutto lo spazio, divisa fra reminiscenze rinascimentali e iconografia da Belle Époque, ci sia un’immagine di Eva, donna primordiale, essere catturato e sedotto dalla conoscenza. L’artista romano sa che l’epopea del sogno non può che proliferarsi dalla vertigine di una aporia: la rosa che dimora sul ventre di Eva ci rimanda all’eterna dicotomia tra bellezza e decadenza, passione ed elevazione spirituale, apertura cosmica e segretezza dell’intimo. Potremmo aggiungere, per alimentare la tensività di forze che dimorano nel gesto artistico di Lelario, una doppia intuizione dell’inconscio in quanto scenario onirico: l’impronta e la traccia.

Andrea Lelario, Eva, 2015_19, grafite su cartoncino, cm 180×72, particolare, courtesy l’artista

L’impronta

Nel suo corposo saggio Il codice dell’anima, James Hillman teorizza la cosiddetta “Teoria della ghianda”. Per spiegarla, il famoso psicoanalista junghiano prende spunto dal mito platonico di Er, secondo cui l’anima, prima di arrivare sulla Terra, definisce già il proprio scopo nel mondo. Per sostenerla in questo compito, le si affiancata un daimon, il cui compito è quello di guidarla e orientarla verso la sua vocazione. Per la mitologia greca, il daimon rappresentava un ponte insondabile tra l’umano e il divino e la sua presenza permette all’anima di tendere verso la forma prescelta prima della nascita: le influenze esterne, la famiglia e la cultura in cui l’essere umano cresce, funzionano come stimoli per comprendere se le sue azioni sono in armonia con la sua vocazione. I taccuini Uffizi, composti in un arco temporale di dieci anni, anellano impronte vivide e feconde di una vocazione creativa tendente al fantastico e all’immaginifico. I soggetti rappresentati, fossili, roditori, anfibi, forme fungine avviluppate su se stesse che bordano sguardi sul vuoto, sulla levigatezza di un bianco di pagina accerchiata dal tratto rapido e multiforme sembrano testimoniare una sorta di “vocazionalità” della psiche, come se l’inconscio di Lelario fosse un ampio territorio fertile, un ispido e fitto brulicare di fauna e flora. Le foto della propria giovinezza, inserite qua e là e ornate dalla florescenza di un bucolico teatro del sogno, fissano ancora di più la necessità di un’autoriflessione della propria impronta, del contatto con il mundus imaginalis della propria (in)coscienza.

Andrea Lelario, Taccuino II, 2019_20, penna punta micron 003 su carta, cm 10,5×6, montato in veduta d’insieme, photo Soluzioni Arte

La traccia

Il giovane filosofo Federico Campagna pone al centro della propria riflessione l’opposizione fra Magia e Tecnica; se quest’ultima si configura come quel sistema di fruizione del reale oggi omnicomprensivo, caratterizzato «dalle norme della strumentalità e dall’imperativo di espandere infinitamente l’apparato produttivo», la Magia è «quel percorso metafisico/terapeutico che consente di abbracciare un particolare sistema di realtà alternativo». In altre parole, se la Tecnica è il regime dell’assoluto e del linguaggio categoriale, il principio primo della Magia è l’Ineffabile, la cosmologia di forze invisibili e misteriose. I lavori di Lelario incentrati sulla raffigurazione del cosmo sono evidentemente tracce mai rigide e monolitiche dell’ineffabilità di un processo cosmogonico che ci sovrasta ma che al contempo scuote le potenzialità psichiche dell’inconscio umano. La dice bene Provenzano, quando osserva che l’osservatore è spronato «all’esplorazione di una molteplicità di mondi emersi tra sogno e spazio, luce e ombra, microcosmo e macrocosmo, attraverso rimandi storici e letterari, memoria e mito», ma questa congerie di tracce che sobillano e reiterano la sapienza ancestrale dei miti dell’uomo non sono altro che residui indissolubili di ogni tentativo di traduzione linguistica e categoriale. Ciò che colpisce, ad esempio, nell’esperire le immagini planetarie incise e dipinte dall’artista, queste ferite di mondi lunari tese fra fascinazioni astronomiche e metafore ovulari, è il delinearsi di un anelito metafisico non dottrinale ma sapienziale, che urta contro ogni forma di irrigidimento e idolatria. La mente sosta dove il penetrante movimento dell’ineffabile fa della stessa una ierofania: manifestazione del sacro, mitologema di una creatività liberatrice.

Andrea Lelario, Abraxas, 2014-2024, maniera nera, acquaforte, puntasecca e bulino su rame, 800x 1000 mm, ph Ottavio Celestino

Andrea Lelario. Nomadi del sogno
a cura di Nicoletta Provenzano

13 settembre – 13 ottobre 2024

Mattatoio di Roma
Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma
Padiglione 9a

Info: www.mattatoioroma.it 

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