INTERVISTA DI ILARIA BIGNOTTI
Rigorosa e coerente, la ricerca artistica di Nadia Galbiati, esposta a partire dal 7 maggio nella sede monzese di Leo Galleries, offrirà al pubblico un affascinante viaggio nel suo “fare scultura” attraverso sculture e installazioni site-specific: il percorso dell’artista, classe 1975, con un background formativo ed espositivo di tutto rispetto e attentamente selezionato, è infatti complesso e stratificato, esprimendosi ogni volta in una serie di tappe progettuali e creative dove la precisione tecnica si associa ad una notevole sensibilità spaziale e ad una sorvegliata ricerca plastica. Un lavoro “difficile”, fatto di lenti passaggi e di lunghe attese che Nadia Galbiati conduce in un grande studio-officina, tra metalli e pietre, torchi e vasche di acido: un laboratorio da Dottor Caligari, dove l’artista si rifugia solo alla fine di un processo creativo ben più ampio.
Ilaria Bignotti: La tua ricerca parte sempre da una ricognizione sul luogo, sia esso un edificio architettonico o un panorama urbano che documenti, scatto dopo scatto, con l’utilizzo della fotografia: quale il senso di questa prima fase del lavoro?
Nadia Galbiati: La fotografia è il linguaggio che mi è più congeniale innanzitutto perché mi permette di “catturare” frammenti di realtà che indicano ed esprimono la mia esperienza di relazione con i luoghi urbani e con l’architettura. I miei scatti costituiscono così un vero e proprio archivio di memorie, un album di passeggiate in città conosciute e di viaggi in luoghi nuovi, ancora da scoprire. A volte mi colpisce la fuga prospettica di una strada, altre un particolare strutturale sul quale si articola la forma di un edificio. Le immagini poi si trasformano: con altri linguaggi visivi e plastici continuo a rielaborarle, cercando una sintesi.
La prima sala della Galleria ci accoglie con una grande installazione che si estende sull’intera superficie, formata da lastre metalliche incise: un Coefficiente Spazio, come lo hai intitolato, che richiede, o meglio impone, la nostra interazione. Quanto conta il ruolo dello spettatore rispetto alla tua ricerca?
L’arte contemporanea deve superare lo scoglio della mera contemplazione passiva. Portare lo spettatore ad una, seppur minima, interazione con l’opera è un modo per offrirgli, e offrirmi, possibili aperture cognitive e sensoriali. Vivendo l’opera, attraversandola con lo sguardo, calcandola con i propri piedi, verificandone il peso e la tenuta in un confronto corpo a corpo, il fruitore consegna all’opera stessa un valore aggiunto, una nuova chiave di comprensione e relazione più vicina alla contemporaneità, ai nostri bisogni e alle nostre esigenze individuali e collettive. L’opera d’arte e l’artista che la crea esistono in funzione del pubblico che la accoglie e la comprende.
Giorgio Bonomi, curatore della mostra, la intitola Architetture Di/Segnate: il tuo lavoro si caratterizza spesso per la presenza della parola, o del segno ripetuto, che interviene sull’opera: un desiderio di pittura, come appunto Bonomi sottolinea nel testo, o forse anche il bisogno di indicare, fissandoli ancor più perentoriamente, dei concetti plastico-architettonici per te fondamentali?
In realtà alla base del mio lavoro vi è, da sempre, un’assoluta libertà rispetto a vincoli imposti dalla scelta di un determinato linguaggio piuttosto che di un altro: decido di lasciarmi liberamente “contagiare” da tutte le possibilità tecniche e creative, come Giorgio Bonomi ha giustamente letto nel mio lavoro, trovandovi il retaggio filosofico della “contaminazione delle arti”. Questa libertà mi permette, innanzitutto, di trasmettere e amplificare il messaggio che intendo rivolgere all’esterno, al fruitore, allo spazio e al tempo in cui vivo. A volte l’artista non sa nemmeno “dire” fino in fondo le ragioni razionali di una scelta: ma sa che deve seguire quella direzione e nessun’altra, sente che in quel momento deve utilizzare altri media, smarginare dal suo binario preferenziale, che resta tuttavia la traccia fondamentale del lavoro. A un certo punto porre una parola accanto a una linea è diventata per me una necessità espressiva: l’ho fatto.
Le altre tue splendide sculture esposte in mostra, Strutture e luce, giocano frequentemente con la forma angolare impressa alla materia. L’angolo è anche spesso presente quale nome inciso sulle tue opere: che significato dai a questo termine e perché è così ricorrente?
La mia ricerca costruttiva e segnica nasce dall’analisi della forma angolare, primo elemento di un alfabeto di segni atti a rappresentare lo spazio. Nella mia visione della forma scultorea, l’angolo è l’elemento essenziale, la prima “lettera”, il luogo in cui si manifesta la struttura della realtà: l’angolo rende visibile la materia-spazio. L’angolo, e il suo alter-ego, il vuoto che esso crea, sono la prima materia della scultura, capace di manifestarsi solo “in relazione” alle strutture che la definiscono.
Il rigore con cui conduci il tuo lavoro non toglie nulla alla piacevolezza estetica del risultato formale. Quanto è forte il dissidio tra forma e funzione, tra concetto e immagine nella tua ricerca? Cosa prevale?
Non prevale nessuna delle due parti, giocano entrambe in un equilibrio che è tale perché sempre in discussione. La mera estetica non ha senso se perde la sua relazione con la funzione per la quale è generata. Il puro concetto deve trovare la forma coerente alla sua manifestazione. Credo in una ricerca artistica capace di dare, parlare, trasmettere qualcosa al fruitore, una ricerca che gli permetta di fare un’esperienza positiva con gli elementi primari dello spazio, della realtà: anche con se stesso, stimolandone le potenzialità visive, sensoriali, cognitive. Per questo il mio lavoro si situa quanto mai lontano rispetto a quelle espressioni artistiche attuali mirate unicamente a cercare lo shock del pubblico, sostenendo che solo così sia possibile provocare nel fruitore riflessioni sulle problematiche della società. Credo invece in una ricerca etica perché estetica, e viceversa, capace di coltivare l’educazione collettiva alla sensibilità verso le cose attraverso lo sforzo dell’analisi visiva e mentale: partendo dalle prime lettere, dai primi segni, dalle prime forme che generano lo spazio della nostra esistenza, della nostra conoscenza, della nostra coscienza.
La mostra in breve:
Nadia Galbiati. ARCHITETTURE DI/SEGNATE
a cura di Giorgio Bonomi
Leo Galleries
Via De Gradi 10, Monza
Info: +39 039 5960835
www.leogalleries.com
7 maggio – 17 giugno 2011
“Architetture di/segnate”, vedute interne dell’esposizione negli spazi di Leo Galleries