GLI ITALIANI DI VIVA ARTE VIVA | 57. BIENNALE ARTE 2017 | 13 maggio – 26 novembre 2017
Intervista a MICHELE CIACCIOFERA di Irene Biolchini*
All’interno di Viva Arte Viva, Michele Ciacciofera presenta un lavoro che si ricollega alle sue origini. Nato in Sardegna, cresciuto in Sicilia – e da anni residente a Parigi – Ciacciofera ibrida nella sua pratica tecniche, materie e linguaggi al fine ultimo di restituirci opere che si ispirino alle leggende, al verso poetico ancora prima che alla narrazione. Gli studi umanistici riemergono nella metodologia dando vita a ricerche ultradecennali che alimentano la scrittura e la creazione artistica, come nel caso di Odio gli indifferenti, una mostra ispirata all’idea gramsciana di storia e presentata ad Edimburgo.
La tua pratica è segnata da una produzione su doppio binario: da un lato tecniche antichissime come la pittura e il disegno, dall’altro installazioni sonore. Come convivono questi due mondi?
Non ho mai pensato che tecniche diverse costituiscano pratiche separate. Disegno, pittura, scultura, installazione, spazi sonori, video, tappeti etc… tecniche diverse tra loro, ma a mio avviso dettagli di un processo circolare, come credo sia il mio. Per la pittura e il disegno devo dire che sono stati un po’ gli amici di tutta la vita, nel senso che sin dall’infanzia hanno costituito il vero mezzo espressivo di base a fianco della parola. Il resto ha iniziato a trovare la sua collocazione negli anni successivi ma sempre in modo molto naturale. La tecnica, e questo credo sia un principio generale che non riguarda solo l’arte, è un mezzo che l’uomo sfrutta per il proprio fine, che nel mio caso è l’arte.
Uno dei miei principali interessi è quello del rapporto tra la memoria e la vita attuale. Così penso che tecniche antiche quanto l’uomo possano convivere con altre derivabili dalle tecnologie più attuali; quello che conta per me è unicamente il contenuto: trovare dei fili di continuità tra il presente e il passato, allo scopo di mettere in evidenza quella mutabilità, ma anche quella forza misteriosa e inalterabile, che da sempre hanno spinto l’uomo e l’artista a creare immagini e forme.
La ceramica viene considerata un materiale antichissimo: in che misura i tuoi studi sulla ceramica e sui fossili incontrano la tua pratica?
La ceramica è il frutto perfetto dei quattro elementi fondamentali già citati dai greci. Essa trae origine dalla terra ma ha bisogno dell’acqua, del fuoco e dell’aria. Innanzitutto le forme espressive più ancestrali hanno trovato nella ceramica quel mezzo di trasmissione che arriva fino a noi. Ho vissuto tanti anni in Sicilia, che è un luogo dove la ceramica è tutt’uno con la sua storia, ed essa è tutt’oggi presente senza interruzione di continuità.
Terminato il liceo e in coincidenza con l’inizio degli studi universitari, l’attrazione verso la ceramica è diventata anche motivo di ricerca e studio. Le ceramiche si aggiungevano a un altro interesse che era quello verso i fossili, alcuni tipi in particolare: trilobiti e ammoniti. Quello che per me lega la ceramica e i fossili è, appunto, il rapporto con la terra, la loro stratificazione temporale e il modo in cui sono giunti a noi. In un secondo momento ho deciso di rimodellare il mio rapporto con gli oggetti che collezionavo integrandoli nella mia pratica artistica. Così facendo ho inteso ridargli una funzione che non fosse solo di estetica o di ricerca. Avendo idealizzato la forma dei fossili attraverso una pseudo-visualizzazione della loro essenza organica originaria, ho anche utilizzato la ceramica per creare sculture che potessero riprodurre i loro movimenti in una sorta di nuova vita, una proiezione attraverso l’arte.
Hai fatto riferimento alla Sicilia: quanto contano le tue origini nel tuo sentire artistico? Come si legano all’installazione che presenti a Venezia?
L’ispirazione biografica o alla Sicilia, o anche alla Sardegna (dove sono nato), è insita in molti miei lavori, costituendone una premessa che si collega in modo naturale ad altre tematiche facenti parte della mia ricerca. A Venezia presento un’installazione tesa a creare una dimensione al contempo archeologica e fantastica, che nasce da uno studio, che dura da oltre un decennio, sulle Domus de Janas (letteralmente case delle fate). Queste strutture sepolcrali neolitiche presenti in Sardegna sono, nella leggenda popolare e letteraria, legate a figure fantastiche come le fate, nate dalla trasformazione fortuita delle api per mano di un dio. È un lavoro che collega più universi: l’arcaico ed il presente, il gioco e l’arte nella loro dimensione psicologica, il dominio della vita terrena e ultraterrena, il rapporto tra arte, letteratura e antropologia attraverso appunto il racconto orale di tradizione popolare.
Le mie ricerche giovanili tornano in questa installazione, unendosi agli studi antropologici e sociologici. Ho scelto così dei tavoli antichi per presentare le ceramiche e questo perché essi conservano ogni traccia della vita quotidiana di altre persone, riconfigurandosi nella mia azione come vere e proprie creazioni, tutt’uno con gli oggetti che supportano. Quindi non semplici basi ma parti integranti dell’opera, contenitori di memoria, in un’atmosfera corale.
Hai fatto riferimento al legame tra i lunghi anni di studio e la creazione dei tuoi cicli. In questo senso ti chiederei come è nato lo studio per Atlantropa e la grande mostra al RISO di Palermo.
Alcuni anni fa, riflettendo sul Mediterraneo come uno dei baricentri della storia dell’uomo, dell’attualità e senz’altro del futuro, scrissi un progetto per una grande mostra d’arte contemporanea che potesse convogliare parte delle ricerche artistiche più interessanti intorno alle tematiche tipiche del Mare di Mezzo. Nacque così la mostra Nel Mezzo del Mezzo che affidai a tre curatori eccezionali, da sempre attenti alle dinamiche artistiche del bacino. Il luogo prescelto, Palermo, aveva un senso per la sua storia, la sua cultura e vocazione. Così in cinque magnifici edifici storici, le opere di oltre ottanta artisti hanno dato vita a un dialogo senza confini, un dibattito estetico che mi premeva donare alla città in cui sono cresciuto e che amo pur vivendo altrove.
In questa mostra ho partecipato da artista (spossessandomi idealmente del progetto come faccio con gli oggetti raccolti e collezionati) con una grande installazione dal titolo Atlantropa, dal nome di una utopia oggi dimenticata, che poneva il Mediterraneo al centro di un progetto pacifista volto ad abbattere i confini tra Europa e Africa per la costituzione di un solo continente, attraverso l’eliminazione dei principali ostacoli della convivenza tra popoli.
Subito dopo la pubblicazione degli artisti selezionati per la Biennale di Venezia, in Italia è nata una polemica sulla tua partecipazione alla luce del legame che ti unisce alla curatrice della Biennale, Christine Macel. Cosa ne pensi?
Ho sempre avuto l’opportunità di lavorare con tanti curatori, di recente ad esempio con Bonaventure Ndikung per il progetto Radio Documenta nell’ambito di Documenta 14 a Kassel, in cui presenterò uno spazio sonoro dal titolo The density of the transparent wind, un lavoro sugli attraversamenti nel Mediterraneo a partire dall’utopia a cui accennavo prima, completamente obliterata dalla storia del XX secolo nonostante la sua grandezza. Recentemente ho lavorato con Hans Ulrich Obrist a delle interviste che hanno accompagnato le mie mostre di Milano (Palazzo Chiesa) e al CAFA Museum di Pechino, quest’ultima curata da Wang Chunchen. Attualmente lavoro con Lorenzo Giusti per la mia prossima mostra personale che si terrà al MAN di Nuoro nell’inverno.
Con Christine Macel ho un dialogo artistico e intellettuale iniziato parecchi anni fa; come accennavo prima, l’ho invitata come curatrice insieme a Bartomeu Mari e Marco Bazzini per la mostra Nel Mezzo del Mezzo, tenutasi a Palermo, di cui sono stato l’ideatore, in virtù della profonda conoscenza della scena artistica mediorientale nei suoi legami con quella europea. Abbiamo lavorato insieme alla mia mostra I hate the indifferent, tenutasi alcuni anni fa al Summerhall di Edimburgo e così lei mi ha anche invitato a partecipare a varie mostre come ad esempio What we call love svoltasi al Museo IMMA di Dublino. L’invito a partecipare al suo progetto per la Biennale di Venezia è la logica continuazione di questa collaborazione. La vita artistica è fatta anche di queste relazioni forti, di grandi amicizie e scambi intellettuali, che ispirano reciprocamente tanto gli artisti quanto i curatori.
*[da Espoarte #97 – Speciale Biennale]
Michele Ciacciofera è nato nel 1969 a Nuoro. Vive e lavora a Parigi.
www.micheleciacciofera.com
Galleria di riferimento:
Vitamin Creative Space, Heng Yi Jie, Chi Gang Xi Lu
Guangzhou, Cina
www.vitamincreativespace.com/en