ROMA | FONDAZIONE FILIBERTO E BIANCA MENNA | 15 GIUGNO – 15 SETTEMBRE 2021
di MARIA VITTORIA PINOTTI
Dimenticare a memoria, è l’epitaffio scritto su un’opera dell’artista concettuale Vincenzo Agnetti, volto a denotare un approccio atipico e sofistico verso il passato. La frase innesca nel nostro cervello una sorta di cortocircuito temporale, giacché nell’ossimoro linguistico si cela la capacità di tenere uniti diversificati scenari: la memoria ed il presente. In questo incastro temporale si inserisce la mostra Memory of the present, a cura di Antonello Tolve e presentata dalla Fondazione Filiberto e Bianca Menna, il Lavatoio Contumaciale, la FUIS-Federazione Unitaria Italiana Scrittori e l’Associazione FigurAzioni; rassegna allestita, dal 15 giugno al 15 settembre 2021, presso la suddetta Fondazione con sede in via dei Monti di Pietralata 16.
Attraverso un percorso espositivo con le opere di Elena Bellantoni, Ciriaco Campus, Claudia Giannuli, Sandro Mele e Ciro Vitale, l’esposizione si presenta come un corpo organico co-progettato attorno alle caleidoscopiche forme del tempo. Il curatore Antonello Tolve sull’origine del progetto espositivo chiarisce come sia nato dalle riflessioni del volume di Giorgio Agamben intitolato Quando la casa brucia, in cui è possibile ravvisare posizioni filosofiche che avvertono «un collasso comunitario senza precedenti, una sparizione politica, una interruzione sociale determinata dall’assolutezza dell’indifferenza e del disinteresse e del conformismo». Così nelle opere in mostra il tempo si disfa e ricompone, attraverso lo sguardo critico e consapevole degli artisti che analizzano i fatti sociopolitici italiani, i meccanismi delle sue strutture di potere, scardinando e superando i canoni ed i consolidati stereotipi legati alla competizione e prevaricazione del Sistema Italia.
L’artista Elena Bellantoni (Roma, 1975) da far suo espone una serie di fotografie intitolate La classe, imperniate su quattro scatti fotografici a colori dai quali si percepisce la fredda intimità di una sociologia partecipativa istantanea, interessante, in specie, per il suo aspetto demistificatorio. È la Bellantoni stessa ad affermare come «l’origine dell’opera sia nata da una riflessione sulla parola “classe”, intesa anche come classe sociale e politica ovvero quell’insieme di individui che, in una società, si differenzia per diversa posizione occupata nell’attività produttiva, nella gerarchia del potere e/o della ricchezza». Nelle quattro fotografie in formato originale, l’artista instaura un dialogo tra la memoria personale e collettiva del Paese Italia; la foto di classe del 1991/1992 si confronta con quella del VII Governo Andreotti, anni che ci portano alla mente le strage di Capaci e di via D’Amelio, eventi che produssero profonde ferite nella memoria sociale. A seguire, si passa al biennio 1994/1995, con la foto di classe ed il I Governo Berlusconi, caratterizzato da una minoranza di donne ministro, sintomo di uno stereotipo sociale. In questo intreccio temporale il punto di ritorno risiede negli attimi immortalati negli scatti, mentre il punto di arrivo è rappresentato dall’attuale classe dirigente, che ha difficoltà a costruire un presente ed un futuro solido, proprio perché derivante da queste premesse. Nonostante le foto siano desunte dalla vita reale del Paese, l’atto creativo non è politico bensì sociale ed “attivista”, poiché per la Bellantoni studiare il passato significa riattivarlo, combinandolo secondo nuove sequenze temporali. L’artista, facendo riferimento alla memoria fotografica come strumento attivo, con una prospettiva fresca e libera, documenta la complessità e la contraddittorietà della condizione sociale attuale, che burlescamente è chiamata a tornare in classe per rieducarsi.
La sala della Fondazione è anche disseminata da un gruppo di opere poggiate su pedane in legno: si tratta dei “cartoni parlanti”, ideati da Ciriaco Campus (Bitti, 1951), che raccolgono gli insulti più comunemente utilizzati sul web. Le opere nascondono uno sviluppo creativo-processuale organizzato per fasi in cui vengono serigrafate delle frasi sui cartoni. A seguire, questi vengono bagnati, l’artista, quindi, li scuote, li stropiccia, li bistratta, li apre e poi li distende, li batte con le mani, come se l’energia verbale di cui loro sono portatori fosse ceduta all’atto creativo che li plasma. Così i cartoni si reiterano nello spazio espositivo come sinonimo dell’umanità che lo spettatore è libero di leggere con morbosa curiosità, si dà essere indotto a riflettere sugli strumenti verbali dell’attuale comunicazione. Difatti, leggendo i commenti riportati sui cartoni stessi c’è l’intento di voler riflettere sull’accrescimento esponenziale di un’agonia comunicativa della società attuale, che non vuole sopravvivere neanche a sé stessa.
Un interessante e particolare gusto verso i territori dell’affabulazione si percepisce nell’opera in mostra di Claudia Giannuli (Bari, 1979). Si tratta di un fragile corpo in terracotta, frammentato a terra in diverse parti, che si pone come un dispositivo mobile capace di essere rimodulato in maniera dinamica tutte le volte che viene allestito all’interno di uno spazio. Il suo carattere eterotopico e sublime emerge dalla voluta trascuratezza dell’aspetto dell’opera finale, in cui la terracotta viene lasciata allo stato di materia viva senza alcuna lavorazione esteriore, se non la sola cottura. Tutto ciò a voler indicare, per analogia, come il passato e le memorie in esso raccolte si pongono all’uomo così come la materia viva e scarnificata dell’opera.
L’interessante percorso espositivo prosegue all’insegna della lateralità con scarti temporali che fanno dialogare passato e presente, e, a tal proposito, il curatore Tolve tiene a precisare come «il presente, lo sappiamo, non è più quello di una volta: prima era inteso come un momento di riflessione che teneva per mano il passato e si proiettava verso la costruzione di un futuro migliore, oggi è invece diventato una trappola picnolettica, una sospensione disarmante, una corsa che fa perdere di vista le cose della vita. Lavorare sulla memoria del presente significa registrare attentamente – e questo è quello che fanno gli artisti – il nostro sin troppo maltrattato tempo, reagire con una posizione estetica che linguisticamente si allunga sulla scena sociale non tanto per porre rimedi (l’arte non pone rimedi ma domande) quanto piuttosto per farci vedere e capire e conoscere il mondo».
Secondo questa ottica d’insieme si potrebbe considerare il presente come un humus, che se nutrito e seminato, si rivela con il suo aspetto puramente reattivo. Da questo campo fertile deriva l’opera di Sandro Mele (Lecce, 1970), intitolata Working poor, in cui l’artista utilizza la pittura all’insegna di una mimesi narrativa, raccontando uno specifico stato esistenziale che caratterizza la classe lavoratrice di oggi. Mele, facendo ricorso a diverse tecniche artistiche – la pittura, il carbone, il gesso ed il cemento –, affronta lo status dei titolari di partite iva, che, secondo le parole dello stesso artista, «sopravvivono per una sorta di ricatto imposto dal sistema economico e sociale attuale». Il messaggio sublimale che emerge dall’opera è quello secondo cui se non si guadagna a sufficienza c’è il rischio di affogare in un sistema economico che difficilmente permette la sopravvivenza. La didascalia nella parte inferiore dell’opera è trascritta con una scrittura automatica che la rende poco leggibile, trasmettendo, nel contempo, il senso di una pittura rude ed aspra. Inoltre, la spasmodica ricerca d’ossigeno dei due soggetti raffigurati rispecchia l’anelito di una vita proiettata come una lotta di sopravvivenza in un momento così difficile qual è quello che stiamo vivendo.
Non sarebbe del tutto assurdo considerare le opere di Ciro Vitale (Scafati, 1975) semiofore, ovvero portatrici di un particolare significato dell’attuale società; le tre sculture in mostra, infatti, sono composte da scheletri architettonici che ricordano le impossibili strutture abusive diffuse nel paesaggio italiano. Si tratta di realizzazioni architettoniche appartenenti ad un progetto più ampio, intitolato Repubblica in controluce, che riflette sui dodici principi fondamentali della Costituzione e dell’idea di Repubblica. Volendo denunciare taluni vuoti normativi, le opere, secondo il pensiero dello stesso Vitale, intendono rendere manifesta «la mancata applicazione dei principi costituzionali, giacché in controluce le cose non si vedono in modo chiaro e tutto ciò riflette lo stato dell’Italia». In questa immaginaria narrativa architettonica, le esili strutture sono immerse in un acquitrino scuro, metafora di una società e di un sistema non trasparente e limpido.
In ultima analisi, la mostra ci permette di sviluppare passaggi davvero interessanti, che non soltanto connettono realtà extra territoriali ed extra temporali, ma, più che altro, inducono scarti antitetici; lavorando proprio sulle tematiche della memoria sociale e collettiva, le opere in rassegna marcano, con nitore ed efficacia espositiva, come il passato rappresenti il nutrimento valoriale dei nostri spiriti, del presente di cui, serve avere una cura costante, poiché talvolta capace di produrre cambiamenti epocali. Riprendendo, infine, le parole del curatore Tolve, non si deve dimenticare che la creatività dell’artista spesso è capace di «non tranquillizzare, piuttosto mobilitare con il proprio pensiero una situazione stagnante: e lo fa anche da una angolazione per nobilitare il pensiero mediante opere che si pongono allo sguardo dello spettatore come una forma di resistenza alle devitalizzazioni di massa, ai giochetti della burocrazia o anche all’incuria di quei pochi funzionari che si arrogano il vanto di governare con sciagura».
Memory of the Present. Elena Bellantoni, Claudia Giannuli, Ciriaco Campus, Sandro Mele, Ciro Vitale
a cura di Antonello Tolve
15 giugno – 15 settembre 2021
Fondazione Filiberto e Bianca Menna
Via dei Monti di Pietralata 16, Roma
Orari di apertura (dal lunedì al giovedì, 15-18), solo su appuntamento
Info: +39 349 5813002
www.fondazionemenna.it