Lissone (MB) |MAC – Museo d’Arte Contemporanea | fino al 30 aprile 2015
Intervista a MATTEO FATO di Silvia Conta
Una mostra che occupa un intero piano del museo, dove il visitatore scopre isole tematiche, ma ha anche sempre la possibilità di osservare la mostra nella sua interezza. È proprio questo il senso intrinseco di questa mostra: disporre unite opere di Matteo Fato (1979, Pescara) della produzione dal 2011 ad oggi, per averne una visione d’insieme, veder dispiegato dinanzi a sé un intero percorso e, in un atto insieme estetico e meditativo, lasciarsi invadere da quella crisi della maturità (artistica) che ciascun artista sperimenta quando sente sopraggiungere quella naturale cesura tra una fase creativa e la successiva. Una mostra che diventa un autoritratto e insieme uno specchio, in cui l’artista è accompagnato da un filosofo e da un critico e curatore con cui prosegue una frequentazione di lunga data, quasi, per l’artista, a chiedere d’essere guardato da fuori, mentre cerca di guardare dentro il proprio percorso.
Quando ho letto il titolo della mostra pensavo si trattasse dell’ennesima riflessione sull’attuale situazione socio-economica…
In questo caso la crisi rappresenta un momento artistico, un veicolo di pensiero: è quel lasso di tempo in cui consideri un lavoro o un momento come conclusi e ti stai già aprendo a qualcosa di nuovo. Raccogliere il lavoro degli ultimi quattro anni, vederlo esposto tutto insieme è come rivedere tutte le proprie parole su un unico foglio e ripensarle, rileggerle e vedere meglio il percorso e i nessi tra i lavori. La mostra è un percorso costituito da dipinti e sculture, ma per me tutto è pittura: ogni elemento è sempre un sostegno, una didascalia alla pittura, è una dinamica che è nata in modo spontaneo e che sto cercando di analizzare proprio attraverso questa mostra.
Come si colloca il concetto di crisi in queste dinamiche?
Le due parole del titolo sono nate dal dialogo con Gianni Garrera e Alberto Zanchetta, devono essere lette assieme e l’articolo “(la)” tra parentesi rappresenta l’essere in bilico e, inoltre, lo spazio di circoscrizione di un’idea o di un momento, che ha un inizio e una fine, anche se ne concatena molti. Il titolo porta l’attenzione sull’accezione di una crisi voluta e positiva, che corrisponde ad una presa di coscienza e ad un interrogarsi: ogni immagine che l’artista decide di mettere al mondo, quando è finita, è, infatti, una presa di responsabilità. Questo può far emergere anche l’aspetto negativo (necessario), del dubbio e dell’incertezza. La crisi sottesa a questa mostra è quindi come un segno di punteggiatura, un mettersi in discussione in senso costruttivo e lento.
A che punto ti senti arrivato nei confronti della pittura?
Si tratta di un continuo rimettere in discussione il linguaggio e, quindi, anche il mezzo espressivo stesso e il rapporto con esso: la pittura è un metodo linguistico per affermare e, allo stesso tempo, negare, che non ha mai un punto di arrivo. In questo senso nel mio percorso hanno avuto molto peso le teorie di Wittgenstein. All’inizio la mia pittura era molto classica, poi c’è stata la prima crisi relativa, appunto, al mezzo e l’ho lasciata a favore dell’incisione, della video animazione e mi sono avvicinato alla pittura calligrafica, dove il mio interesse era rivolto non tanto al segno quanto al bilanciamento tra pittura / parola e immagine. La calligrafia e Wittgenstein – soprattutto il suo dividere due riflessioni in proposizioni – mi hanno abituato all’idea che tra due proposizioni ci sia sempre un controbattere la precedente e negare la successiva. Questa è una metafora perfetta per la pittura: ogni lavoro afferma il presente e il passato, ma nega la certezza del futuro. La pittura è un unicum, un libro, ma con le pagine sparse: vedendo le opere esposte tutte assieme è come se diventasse più naturale accorgersi di ciò che è accaduto.
Alla luce di tutto ciò che effetto ti ha fatto vedere la mostra allestita?
È stato uno choc, mi si è palesata davanti l’infinita strada che devo ancora compiere [ride, nda], ma mi ha anche conferito una certa serenità: una consapevolezza in merito alla scelta del linguaggio, che nel tempo è stata sofferta, mentre ora sento di avere la conferma che la pittura è il mezzo giusto per ciò che voglio esprimere. Alla fine di ogni mostra, però, si ricomincia da zero: una delle opere in mostra, (Olio su scala) – 2011/2014, è una scala ad incastro in legno, con un grumo di colore ad olio sulla sua sommità, è una scultura su cui non è permesso salire e quindi non è possibile capire cosa ci sia esattamente in cima, per me in questo momento è una metafora del mio percorso con la pittura, anch’io, come lo spettatore, non so cosa troverò “in cima”. E le crisi che si susseguono, come interrogativi costanti e fecondi, sono come segni di interpunzione, simboli per rallentare la lettura, l’interpretazione di un linguaggio che ti costringe a cambiare ritmo, respirare, riflettere e proseguire.
Matteo Fato – Krinein (la) crisi
a cura di Gianni Garrera e Alberto Zanchetta
7 marzo – 30 aprile 2015
MAC – Museo d’Are Contemporanea
Viale Padania 6, Lissone (MB)
Info:+39 039 7397368 – 039 2145174
museo@comune.lissone.mb.it