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Intervista a Massimiliano Pelletti di Francesca Di Giorgio

Digito www.massimilianopelletti.com e mi si para davanti un frigorifero aperto dove, insieme a burro, marmellata, latte e succhi di frutta, è servita su “un piatto d’argento” una coppia di teschi rossi. Non posso non chiedergli che ci facciano lì ma, soprattutto, perché? Si apre così una chiacchierata che, con una buona dose di ironia, attraversa la storia dell’arte filtrata da un giovane e poliedrico artista toscano, all’anagrafe Massimiliano Pelletti, nato nel 1975 a Pietrasanta (dove vive e lavora), scultore e filosofo di formazione, sperimentatore nell’animo…

Francesca Di Giorgio: Lo sai, devo chiederti cosa rappresenta per te l’immagine del frigorifero (il tuo?) ma, soprattutto, se la consideri una sorta di “biglietto da visita” per entrare nel tuo lavoro…
Massimiliano Pelletti: Esatto, la foto che vedi è stata scatta al mio frigorifero. Mesi prima stavo preparando alcune sculture e rinvenni, in un vecchio laboratorio scientifico, un calco ottocentesco eseguito su di un cranio vero. Dal calco realizzai delle cere per meglio comprendere la qualità della fusione che ne sarebbe potuta uscire. Giunta l’estate, a causa del caldo che avrebbe potuto sciogliere le cere, decisi di dare ai crani un po’ di refrigerio mettendoli nell’unico posto fresco che avevo in casa: il frigorifero. Ecco che, loro malgrado, i due crani diventarono testimoni di un via vai incessante di cibi, bevande, alimenti di ogni genere. Il paradosso fu che degli antichi crani si trovassero a colloquiare con un’abbondanza di cibi con tanto di etichetta totalmente estranea al loro tempo. Inoltre, in tutto questo, esisteva un punto in comune, ovvero sia alimenti che teschi erano nello stesso posto per lo stesso scopo, quello della conservazione. I crani rimasero lì per mesi e, per quanto elementi inconsueti, finirono con il passare inosservati di fronte alla voracità di chi si trovava davanti al frigorifero aperto. Una mattina aprendo il frigo e vedendolo illuminato dal sole che passava dalla finestra fu come se, per la prima volta, mi trovassi davanti quei due crani in cera rossa e ne scorsi una bellezza incredibile. La vera sostanza aveva avuto la meglio sulla caduca abbondanza, ecco che lo scatto fotografico diventa un vero e proprio concentrato estetico. Con questa immagine ho voluto aprire una porta (in questo caso quella del mio frigorifero) come senso metaforico dell’intimità che esprimo nel mio lavoro.

Il teschio ritorna, insieme ad altri elementi simbolici, ciclicamente a soggetto del tuo lavoro. L’uso e l’abuso che se ne fa nelle arti contemporanee ha mai inibito la tua ricerca oppure si è rivelato uno stimolo per declinare in maniera differente una tematica costante?
Vedo il teschio non solo come un simbolo di morte ma gli attribuisco anche una valenza positiva in quanto perfetta architettura interna dell’essere vivente. Il teschio, più che dall’arte contemporanea, è migrato progressivamente nei miei lavori da un tipo di iconografia classica.
Ben prima delle esperienze artistiche più recenti gli artisti del passato vi hanno ricorso frequentemente per rispondere a precise tradizioni teologiche o per evocare in modo provocatoriamente suggestivo la morte. Teschi nascosti o ostentati ricorrono frequentemente nell’arte del passato: seppelliti nel terreno che sostiene la croce di Cristo come il teschio di Adamo nel monte Golgota nelle rappresentazioni delle crocifissioni, in mano a San Girolamo e addirittura come oggetto privilegiato di nature morte. Anche Bernini, una vera e propria superstar della scultura dell’epoca, realizza in uno dei suoi ultimi monumenti funebri uno scheletro intero accovacciato colto nell’atto di scoprire con un panno una lapide: una scultura meravigliosa e di una modernità sorprendente. Di conseguenza l’uso del teschio come vocabolo artistico è stato per me un qualcosa di naturale, perché presente, da sempre, nella storia delle immagini e per quanto se ne faccia uso il suo potere rappresentativo rimane immutato da secoli.

Marco Aion Mangani, nel suo testo critico, sottolinea la tua evidente ecletticità nel linguaggio e nella forma. Provi a raccontarci come nasce un tuo lavoro e come avviene il passaggio dall’idea alla scelta dei mezzi per concretizzarla?
Il mio lavoro ha origine da un pensiero, un sentimento, una sensazione, oppure dal “rubare” a qualcuno un momento o un gesto della propria vita che mi riconduce a qualcosa di significativo. Da lì iniziano a maturare tutta una serie di considerazioni, ovvero come poter rappresentare, dare valore, evidenziare tale concetto rendendolo oggetto, facendolo materializzare in qualcosa, in messaggio concreto. Solitamente il materiale scelto ha una sua connotazione ben precisa e diventa fondamentale per la rappresentazione dell’opera anche dal punto di vista concettuale. Ad esempio, parliamo dei miei organi in marmo… Il marmo statuario è, con il suo colore bianco e la sua ordinata struttura cristallina, il materiale che in maniera più efficace trascrive e oggettivizza l’aspirazione alla purezza. Nella scultura classica, rinascimentale, tale materiale veniva impiegato per riprodurre ciò che era più evidente, ovvero per svelare la perfezione delle proporzioni dei corpi di veneri e adoni, per rendere visibile, attraverso un corpo armonicamente strutturato, l’interiorità positiva che lo sostiene. In questo lavoro è quello stesso corpo che osservo ma stavolta dall’interno, dal profondo, eliminando e sottraendo la materia. Così per sottrazione giungo a rappresentare gli organi interni attribuendo ad essi l’importanza e la pesantezza di una bellezza interiore, come il materiale con il quale sono rappresentati.

All’interno di questa variegata creatività si possono distinguere, ancora dal punto di vista dei mezzi, due grandi categorie: quella del fare manuale, ricondotta al tuo essere in primis scultore (Untitled (heart) 2010, Broken Horse 2009) e quella del servirsi di oggetti prelevati dalla quotidianità (Quando è buio si sta in casa 2011, David headless 2011, Babau, 2011)… Ce ne parli?
La mia formazione artistica avviene nello studio di mio nonno, Mario Pelletti, scultore a Pietrasanta. Già Michelangelo si recava in queste zone per la ricerca del marmo statuario. Il laboratorio di mio nonno produceva in prevalenza sculture destinate ad uso religioso, caratterizzate da una forte componente artigianale e distanti per concezione dai miei lavori. Tuttavia, oggi, vivo la sua esperienza tecnica e la sua capacità di manipolare la materia come realtà da sempre partecipi del tempo della mia infanzia. In seguito gli studi filosofici mi hanno consentito di fortificare il mio bisogno di espressione. Così l’arte è per me una necessità, è tradurre in materia una riflessione intima che comprende il sé, la natura e il mondo.
Il mio intento è quello di sfruttare al meglio l’idea. Nei miei lavori “oggetto” e “concetto” sono componenti complementari e imprescindibili che concorrono contemporaneamente al manifestarsi della mia poetica. L’uno non può sussistere senza l’altro. Di conseguenza, a volte, il mio lavoro necessita di una realizzazione completa, mentre in alcuni casi è la scoperta di un oggetto, già compiuto, verso il quale vengono istintivamente attratto che mi conduce alla oggettivazione di un concetto. Il prodotto che ne scaturisce è la ricreazione ex novo, attraverso il mio intervento sull’oggetto quotidiano, di una sorta di “ready-made aiutato”. In altri è all’opposto la volontà di affrontare un dato tema o una data riflessione che mi porta a realizzare concretamente un lavoro.

In Quando è buio si sta in casa (2011) i volti di santini, immagini sacre e d’epoca, sono come censurati dal tuo intervento a china. Qual è il messaggio?
Quando è buio si sta in casa
si presenta come una serie di interventi su immagini abbastanza riconoscibili, familiari, rassicuranti come una serie di santini. Quello che solitamente ci apparirebbe come familiare, a causa della mancanza dei canoni fondamentali del riconoscimento, assume un aspetto poco rassicurante, la riconoscibilità viene negata nel suo aspetto costruttivo tramite un intervento sui volti eseguito con china.
Il titolo del progetto si rifà a quelli che, da sempre, sono i modi della cultura popolare, rurale italiana ma non solo, “Quando è buio si sta in casa” ovvero quando non si può vedere quello che abbiamo attorno ce ne stiamo al sicuro. L’impossibilità di riconoscere genera spaesamento nella percezione. La riconoscibilità e la somiglianza guidano la costruzione dei rapporti umani, la diversità, alimenta incomprensioni.

Progetti futuri? A cosa stai lavorando?
Dopo la personale da BT’F gallery preparerò una grande installazione sopra Palazzo Mediceo di Seravezza (LU), sarà un’occasione fantastica perché realizzerò, con un lavoro dal titolo Disegni sospesi, un tributo al grande maestro Bruno Munari. Infatti, il 23 aprile, inaugura una sua grande retrospettiva. Il progetto è parte del festival di musica elettronica dal nome Galaxia Medicea creato ed organizzato da Officina Todomodo formata da Maurizio Bottazzi, Stefano Leone e Mario Tesconi, inoltre il curatore Enrico Mattei gestisce la parte artistica. Basterà non mancare al meraviglioso evento per vedere, oltre ad una fantastica mostra di Munari, anche una mia grande installazione aerea sopra il palazzo.

La mostra in breve:
Massimiliano Pelletti. Quando è buio si sta in casa
a cura di Marco Aion Mangani e Giacomo Lion
BT’F Art Gallery
Via Castiglione 35, Bologna
Info: www.btfgallery.com
2 – 27 aprile 2011

In alto, da sinistra:
“Senza Titolo”, 2006, scultura in resina e sedia in legno, cm 100x80x60
“Quando è buio si sta in casa” 2011, fotografie e stampe modificate a china
In basso, da sinistra:
“Untitled (heart)” 2010, Scultura in Marmo Bianco Statuario di Carrara cm 29x19x13
“Babau. Era molto più delicato di quanto si credesse, era fatto di illusione: anche se vero. Galoppa fantasia che avido di sterminarti il giorno ti incalza alle calcagna e mai più ti darà pace“,
2011, sacchetto di platisca verniciato, ventilatore

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