MILANO | Podbielski Contemporary | 28 marzo – 17 maggio 2019
Intervista a MASSIMILIANO GATTI di Matteo Galbiati
In un momento di relativa calma, tra viaggi e impegni espositivi, abbiamo intercettato Massimiliano Gatti (1981) – vincitore del BNL Gruppo BNP Paribas Award assegnatogli durante l’edizione del MIA del 2015 – per aggiornarci sulla sua ricerca attuale. Le sue foto dividono la qualità della loro intima narrazione tra l’esplicitazione di storie e cronache del nostro tempo e la definizione di una estetica (socialmente) impegnata e attiva. Bellezza e cronaca, tempo presente e tempo assoluto, spingono i suoi scatti a tradursi sempre in immagini capaci di aprire il nostro sguardo ad una profonda riflessione sul senso dell’agire e dell’essere dell’uomo e della sua storia con opere che sono sempre un utile insegnamento per il presente e un emblematico monito per il futuro.
Il tuo percorso formativo non è legato all’arte e alla fotografia, ma al mondo scientifico. Come è nato il rapporto con la cultura visiva?
Sono cresciuto con imprinting familiare e una forte passione per quello che si può definire, in senso lato, espressione, quindi dall’arte visiva, alla letteratura alla musica. Ho trovato poi la mia strada nella fotografia, che tra tutte è l’arte più scientifica e chimica, se vogliamo.
Quali tappe hai affrontato nello sviluppo della tua ricerca?
Posso dire che il mio lavoro si è sviluppato naturalmente, seguendo quei filoni che mi sono cari, temi che sento miei e metodologie che ho ritenuto legate semanticamente al discorso che stavo portando avanti. Sicuramente, nel tempo, i miei progetti si sono affinati e ho approfondito le varie tecniche.
Quale scarto tecnico, semantico, poetico, contenutistico c’è tra il lavoro strettamente documentaristico e quello più artistico? Come si crea un dialogo di reciprocità tra questi due elementi?
Un dialogo tra questi elementi nasce, per me, in maniera naturale: la fotografia è per sua stessa natura, un gesto di prelievo della realtà, quando ti trovi in luoghi come la Siria e l’Iraq, il tuo gesto acquisisce valore documentario, in quanto sono territori dove oggi ci sono ancora i resti di un tempio e domani viene distrutto con delle bombe. Il valore artistico, secondo me, si aggiunge, nel momento in cui quelle immagini si fondano su una solida struttura concettuale e teorica.
So che tieni moto alla distinzione proprio tra lavoro documentaristico e reportagistico. Ci spieghi la differenza dal tuo punto di vista?
Le mie radici affondano negli studi alla Bauer di Milano, dove si approfondisce la scuola del paesaggio italiano e un certo tipo di sguardo consapevole sul mondo, lento e ragionato. Il reportage è molto istintivo come approccio, molto diverso dal mio: io osservo, studio, mi prendo tempo per pensare. Lo scatto è solo la fase conclusiva di un processo che inizia a monte con un pensiero strutturato.
Quando lavori in zone socialmente e politicamente “calde” come il Medio Oriente, quale pensi debba essere la tua missione vera e profonda? Cosa ti senti di dover testimoniare ai nostri occhi di spettatori (faziosamente) lontani da quelle realtà?
Devo premettere che ho lavorato in Siria e in Iraq con le missioni archeologiche dell’Università di Udine, in un momento e in un contesto logistico di totale sicurezza. La Siria è diventata teatro di guerra quando noi ce ne siamo andati, detto questo, ho sempre notato uno scarto notevole tra quello che percepivo in Medio Oriente e tutto quello che noi sappiamo o crediamo di sapere dal nostro punto di osservazione in occidente. Lo stereotipo che noi abbiamo è sicuramente un’arma importante nelle mani di chi vuole muovere consensi e giustificare azioni militari. Quello che ho sempre cercato di trasmettere con il mio lavoro è la bellezza e soprattutto la grande profondità storica che attraversa quelle terre, radice della nostra stessa cultura e anche religione, al di là dei fatti di guerra che sono cicatrici ancora fresche.
Nel 2015 hai vinto al MIA il BNL Gruppo BNP Paribas Award: cosa è cambiato in questi quattro anni?
Dal 2015 e dal BNL Award, in particolare, ho fatto diverse esperienze di mostre negli USA, dal Museo della Fotografia della California a Los Angeles all’Italian Institute della Columbia University a New York. Il mio lavoro e la mia ricerca sono stati sicuramente messi in una certa evidenza.
Quali serie di lavori pensi riassumano e siano maggiormente indicativi per la tua ricerca? Quali sono i tuoi modelli di riferimento?
Come dicevo prima, avendo studiato alla Bauer di Milano, sono cresciuto con modelli come Ghirri, Basilico e, soprattutto, per quello che è il mio approccio e sguardo sul mondo potrei dire Walker Evans, un fotografo tuttora attualissimo.
Tra i miei lavori più significativi metto In superficie che racconta la profondità storica del nord Iraq, nasce dalla mia esperienza come fotografo della missione archeologica dell’Università di Udine. Come una tassonomia imperfetta, cataloga tutto ciò che la superficie della terra restituisce: da reperti archeologici di epoche remote a residuati bellici dei conflitti di cui questa regione è stata teatro. L’accostamento casuale genera un corto circuito in cui tutto si mescola, mentre dal gioco estetico di rimandi e somiglianze emerge la circolarità della storia. Le nuvole, invece, vede Palmira accostata a nubi che rappresentano le esplosioni dei monumenti distrutti dall’IS; si tratta di frame di video pubblicati su YouTube, che aprono una riflessione sull’uso dei social come strumento di propaganda. Limes nasce dal gesto stesso del guardare. La finestra, come soglia, definisce un dentro e un fuori, incornicia la vista; è un’inquadratura forzata, circoscrive, come cornice “altra”, un frammento di paesaggio che si rivela come una nuova totalità all’interno del fotogramma. In Questo è il giorno in cui la memoria si è dissolta accosto due immagini di rovine nel deserto e sollevo la questione della permanenza della memoria: che importanza ha oggi per noi il passato come nostra radice culturale?
Che compito ha l’immagine oggi, isolandola dal vuoto e frivolo sensazionalismo o dalla superficialità consumistica della sua fruizione veloce?
L’immagine, oggi come sempre, dovrebbe essere pensiero, dovrebbe essere un discorso, si usano immagini come si usano le parole, deve essere messaggio, passare informazioni e sollevare riflessioni nello spettatore. Oggi non è sempre così, la proliferazione delle immagini attraverso social e la possibilità di scattare foto con un device, come il telefono che ognuno ha sempre con sé, ha, in qualche modo, banalizzato la vera funzione della immagini.
Cosa ti aspetta nell’immediato futuro? Ritorni in aree calde?
Da un anno e mezzo, è nata la mia piccola Adele, gli equilibri della mia vita sono sicuramente cambiati e, per il momento, mi concentro su progetti in zone sicure. Quando le “mie zone” torneranno a essere più tranquille, tornerò senza dubbio.
Nel frattempo il 28 marzo inauguro una mostra intitolata Levante, presso la galleria Podbielski Contemporary a Milano e, a giugno, un’altra presso il Forte Strino a Vermiglio (TN), Sottopelle curata da una giovane curatrice Serena Filippini in cui il mio lavoro sarà in dialogo anche con il contesto storico del forte austroungarico che ospita la mostra.
Massimiliano Gatti. Levante
a cura di Angela Madesani e Maud Greppi
28 marzo – 17 maggio 2019
Inaugurazione giovedì 28 marzo ore 18.00-21.00
Podbielski Contemporary
via Vincenzo Monti, Milano
Orari: da martedì a venerdì 14.00-19.00
Info: +39 338 2381720
info@podbielskicontemporary.com
www.podbielskicontemporary.com