TORINO | CASTELLO DI RIVOLI | Streaming digitale lunedì 8 marzo 2021, ore 16 – 18
Il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea ospita Mascarilla 19 – Codes of Domestic Violence un progetto a cura di Leonardo Bigazzi, Alessandro Rabottini e Paola Ugolini, prodotto da Fondazione In Between Art Film.
In occasione della ricorrenza dell’8 marzo, il Museo propone un incontro sul tema della violenza di genere con il Direttore del Castello di Rivoli, Carolyn Christov-Bakargiev, la fondatrice e Presidente della Fondazione In Between Art Film e ideatrice di Mascarilla 19 – Codes of Domestic Violence, Beatrice Bulgari, il Direttore Artistico della Fondazione In Between Art Film, Alessandro Rabottini, la curatrice Paola Ugolini e gli artisti Silvia Giambrone (Agrigento, 1981), Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984), MASBEDO (Nicolò Massazza, Milano, 1973; Iacopo Bedogni, Sarzana, 1970) e Adrian Paci (Shkodër, Albania, 1969).
Chiuso al pubblico in presenza, in ottemperanza alle disposizioni per il contenimento della diffusione del Covid-19, l’incontro che si tiene lunedì 8 marzo dalle ore 16 alle 18 nel Teatro del Museo con partecipanti in sede sarà trasmesso online. In particolare, verranno proiettati quattro film d’artista che offrono prospettive diverse sul dramma della violenza domestica nell’inedito scenario dell’isolamento mondiale acuito dalla pandemia: Domestication (2020) di Silvia Giambrone, Muse (2020) di Elena Mazzi, Vedo rosso (2020) di Adrian Paci e Daily Routine (2020) di MASBEDO.
Dopo il saluto e l’introduzione, Alessandro Rabottini presenterà il progetto della Fondazione In Between Art Film e la conversazione a cui prenderanno parte la curatrice Paola Ugolini e le artiste Silvia Giambrone ed Elena Mazzi in presenza, oltre che MASBEDO e Adrian Paci da remoto.
Gli altri film realizzati per questo progetto sono: Espacios Seguros (2020) di Iván Argote (Bogotá, 1983); Flowers blooming in our throats (2020) di Eva Giolo (Bruxelles, 1991); Sunsets, everyday (2020) di Basir Mahmood (Lahore, 1985) e Lacerate (2020) di Janis Rafa (Atene, 1984).
La Fondazione In Between Art Film nasce a Roma, su iniziativa della fondatrice e Presidente Beatrice Bulgari, per diffondere la cultura delle immagini in movimento e per sostenere gli artisti, le istituzioni e gli organismi di ricerca internazionali che esplorano il dialogo tra le discipline e i territori di confine tra cinema, video, arte, performance e installazione. Nominati all’interno del team il Direttore Artistico Alessandro Rabottini e i curatori Leonardo Bigazzi e Paola Ugolini. Su iniziativa della sua fondatrice e Presidente Beatrice Bulgari, la Fondazione In Between Art Film intende contribuire al dibattito artistico internazionale, approfondendo la riflessione sulla natura, il ruolo e le potenzialità delle immagini in movimento nel nostro presente.
La violenza di genere ai tempi della pandemia
Mascarilla19 – Codes of Domestic Violence
Il Castello di Rivoli presenta un programma prodotto dallaFondazione In Between Art Film il giorno 8 marzo in occasione della Festa della Donna
Lunedì 8marzo 2021, ore 16-18 Streaming digitale in diretta dal Teatro del Castello di Rivoli
SCHEDE FILM e BIOGRAFIE ARTISTI
Silvia Giambrone (Agrigento, 1981; vive e lavora tra Roma e Londra)
Domestication, 2020
Video 2K, 15’ [estratto 5’]
Courtesy l’artista, Studio Stefania Miscetti, Galleria Marcolini, Richard Saltoun Gallery e Fondazione In Between Art Film
L’opera di Silvia Giambrone di natura prettamente politica, evidenzia e denuncia le modalità dell’assoggettamento femminile attraverso l’impiego di modelli culturali che riguardano il corpo, il comportamento atteso e la manipolazione dell’immaginario. Le sue opere sono un potente dispositivo per riflettere sia sull’addomesticamento alla violenza, che sul tabù che circonda questa pulsione, sulla capacità di poter assoggettare gli altri usando una grammatica affettiva e relazionale socialmente accettata e a cui siamo talmente assuefatti da non riuscire più a riconoscerla come tale. Silvia Giambrone nel video Domestication ha utilizzato come palinsesto concettuale il Saggio di educazione e istruzione dei fanciulli, scritto dal teologo svizzero Johan Sulzer nel 1748 che muove dal presupposto che “l’educazione non è altro se non apprendimento dell’obbedienza”. Un’obbedienza ottenuta con la coercizione sia fisica che psicologica tanto che questo tipo di pedagogia oggi viene definita dagli studiosi della materia Pedagogia nera. Questo doloroso insieme di regole, che per secoli ha costituito l’ossatura dell’educazione impartita ai bambini, ha generato una serie di strascichi culturali e comportamentali che, ancora oggi, vengono ritenuti da educatori e psicoterapeuti responsabili per l’attitudine alla violenza che caratterizza le relazioni umane. In un interno domestico due attori, un uomo e una donna, che hanno introiettato il paradigma della violenza all’interno della loro relazione si muovono in maniera evocativa e poetica. I due protagonisti, sono sempre ripresi da soli in quell’ambiente comune, come se fossero uno la proiezione o il ricordo dell’altro, e gli oggetti che entrambi utilizzano diventano i segni tangibili della loro effettiva presenza. Oggetti di uso comune che però se guardati attraverso la lente deformante della violenza diventano potenzialmente pericolosi e sinistri, oggetti che diventano quindi sia i testimoni che gli strumenti di una violenza simbolica. Il confine fra vittima e carnefice è sfumato al punto da rendere difficile definire chi dei due incarna quei due ruoli, tutto il video è pervaso da una tensione che è sempre sul punto di scoppiare perché ormai incistata non solo nello spazio domestico ma anche nella psiche dei suoi abitanti. Il registro visivo è un’alternanza di ritmi ossessivi e disturbanti con dei momenti quasi onirici nonostante la credibilità dell’ambiente e dei personaggi.
MASBEDO [Nicolò Massazza (Milano, 1973) e Iacopo Bedogni (Sarzana, 1970)]
Daily Routine, 2020
Video 4K, 11’ [estratto 5’]
Courtesy gli artisti e Fondazione In Between Art Film
MASBEDO è un duo artistico la cui pratica si articola in video, film, performance e installazione, fino ad arrivare a collaborazioni nel campo della regia teatrale e lirica. Attraverso un vocabolario formale che attinge alla dimensione simbolica delle immagini in movimento, gli artisti esplorano l’universo delle relazioni umane nei loro aspetti più profondi, legati spesso ai temi dell’incomunicabilità e della distanza psicologica. La protagonista di Daily Routine abita una casa spoglia fatta di vetro e cemento, all’interno della quale pochi arredi minimalisti punteggiano uno spazio altrimenti vuoto. Dall’imbrunire fino alla notte, la sua solitudine è interrotta da una sequenza di gesti ordinari cui sembra essere ormai assuefatta: controllare le telecamere di sicurezza, fumare, prepararsi la cena e allenarsi su una cyclette ellittica. Diventa presto evidente come questa architettura severa e trasparente sia, in realtà, uno strumento di controllo: tutto è visibile dall’esterno e uno sguardo lontano sembra registrare ogni movimento che avvenga all’interno di questa struttura del dominio. Il silenzio che grava su questa casa è interrotto solo da poche, perentorie comunicazioni telefoniche, quasi fossero istruzioni che non richiedono risposte: una voce maschile si assicura che tutto sia sigillato ed esprime soddisfazione per la perfezione degli arredi. Attraverso una estrema economia di azioni e narrazione, i MASBEDO trasformano la telecamera in uno strumento ossessivo del dominio maschile, mettendo in scena di quest’ultimo il delirio narcisistico, l’ansia di controllo e l’espressione della violenza attraverso la più quita forma di oggettificazione della propria partner. In Daily Routine l’abuso non ha bisogno di manifestarsi in gesti improvvisi ed eclatanti: esso si è, infatti, sedimentato nella dinamica relazionale di coppia, impregna i muri e si riflette sulle ampie vetrate, abita i silenzi e scandisce con ritmo infernale l’allenamento fisico, fino a penetrare nei gesti stessi della nutrizione. Ed è proprio nell’aspetto meccanico dell’esercizio fisico che si esprime la dimensione più sottile e agghiacciante di quest’opera, che della violenza evoca il basso continuo e il battito costante.
Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984)
Muse, 2020
Video 4K, 13’ 30’’ [estratto 5’]
Courtesy l’artista, galleria Ex Elettrofonica e Fondazione In Between Art Film
La poetica di Elena Mazzi riguarda il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Seguendo un approccio prevalentemente antropologico, la sua analisi indaga e documenta l’identità sia personale che collettiva relativa a uno specifico territorio mettendo in evidenza le diverse forme di scambio e trasformazione. Elena Mazzi nel video Muse accompagna per mano lo spettatore nell’incubo della violenza di genere attraverso la bellezza straniante delle statue greco-romane conservate nell’Antiquarium della Domus Grimani a Venezia. Il video inizia con delle inquadrature di particolari di interni come se quelle sale fossero ancora vissute mentre una voce narrante ci porta nell’intimità della persona che abitava, o forse ancora abita, quelle stanze solitarie. Il ritmo visivo cambia quando la camera comincia ad inquadrare particolari anatomici dei corpi e dei volti di uomini e donne dell’antichità, corpi restaurati, rimessi insieme, tagli e suture nel marmo, dettagli su mani dalle dita mozzate, gambe e corpi che si susseguono, mettendo in relazione statue maschili e femminili da diverse angolazioni, con luci naturali che tagliano gli sguardi. Sono statue trafugate da altri luoghi, in un’epoca di crudo colonialismo che stride con il perfetto equilibrio estetico in cui sono allestite. Sono corpi che ci raccontano storie lontane, di relazioni amorose, di violenza, di mito, di saccheggio, di morte e di rinascita. La voce narrante ci parla di stupri, di rapimenti e di dei violenti che non esitano a trasformarsi per poter raggirare le loro prede sessuali, esseri umani disarmati e bellissimi sia uomini che donne. Il testo è stato costruito selezionando alcuni miti in cui la violenza è il fulcro del racconto e inserendolo in una narrazione più ampia che mette in relazione quel passato mitologico con la contemporaneità mettendo in evidenza come certe dinamiche comportamentali si ripetano ancora oggi sempre uguali. Questa narrazione visivamente potente ci porta in un mondo violento, quello del mito, fatto di sopraffazione e dominazione e in cui questa violenza viene agita direttamente da un Dio iroso e desiderante.
Adrian Paci (Shkodër, Albania, 1969)
Vedo rosso, 2020
Video, 11’ 38’’ [estratto 5’]
Testo e voce Daria Deflorian
Courtesy l’artista, kaufmann repetto, Peter Kilchmann Gallery e Fondazione In Between Art Film
Sin dalla fine degli anni Novanta, Adrian Paci ha sviluppato una pratica artistica che contempla video, film, pittura, fotografia e installazione. Centrale nel suo lavoro è il tema della dislocazione, che Paci affronta attraverso la rappresentazione dei flussi migratori globali e, con linguaggio poetico e metaforico, trattando la trasformazione delle immagini tra cinema e pittura, la natura cangiante della memoria personale e il rapporto tra immagini in movimento, storia e realtà. In Vedo rosso le immagini sono pressochè assenti: lo schermo è saturo di un rosso palpitante che, solo per alcuni istanti, è interrotto dalla comparsa di un occhio. La scelta, quasi paradossale, di affrontare il dramma della violenza domestica attraverso la negazione dell’immagine rivela una sorta di “impossibilità” del racconto: il rosso, infatti, è quello di un dito che ostruisce la telecamera del telefonino, una sorta di errore, di disturbo della registrazione delle immagini che sovente accade. È come se l’obiettivo del cellulare non riuscisse a riprendere l’ambiente domestico e fosse continuamente frustrato, ricacciato in una dimensione claustrofobica. Gli occhi che fanno una fugace apparizione sono frammenti di ritratti filmici di rifugiate siriane che Paci ha girato a Beirut nel 2018: anche qui siamo di fronte a un movimento – quello migratorio e legato alla salvezza – che viene negato, insieme con la possibilità, spesso sottratta ai rifugiati, di raccontare la propria storia al di là delle semplificazioni prodotte dei media. Un testo originale scritto e interpretato dall’autrice teatrale e attrice Daria Deflorian fornisce la struttura narrativa: qui il potere del racconto trasforma l’assenza di immagini in uno spazio drammaturgico e di ascolto cui lo spettatore non può sottrarsi, e che trasmette tanto la complessità e le contraddizioni dell’abuso quanto la vischiosità di certe relazioni. Vedo rosso è una polifonia per colore e voce, una tessitura che intreccia tre forme di isolamento, di costrizione e di negazione tanto spaziali quanto interiori e che tematizza sia il limite – fisico, psicologico, individuale e collettivo – sia il desiderio del suo superamento.