INTERVISTA DI LIVIA SAVORELLI
tratta da Espoarte Contemporary Art Magazine n.64
Designer dalla vocazione spiccatamente artistica e nomade, libero sperimentatore senza fatica, Martino Gamper “sottrae” dal loro destino elementi di design per donare loro nuova linfa e nuove sembianze. Ricercare per poi mescolare, ricollocare per ricontestualizzare sono le parole chiave di questa personalissima “azione di design”, perché – a detta di Martino Gamper – il design «più che un valore strutturale, è un valore aggiunto».In poche parole, nulla è così per sempre, una nuova metamorfosi può sempre essere dietro l’angolo…
Livia Savorelli: Per cominciare, mi piacerebbe che tu mi fornissi una tua personale definizione di “Design”. Qual è l’oggetto di design perfetto per Martino Gamper?
Martino Gamper: Mi ritengo designer, ma ho un approccio al processo molto artistico. Lavoro molto senza committenza; non avere committenza può essere un valore poiché equivale al concetto di libertà. Il mio approccio è più di ricerca non pura creazione.
Veniamo ad uno dei tuoi principali progetti 100 Chairs in 100 Days, in cui al ritmo di una sedia al giorno hai donato una nuova identità a uno dei più comuni oggetti di design, attingendo tanto da modelli di illustri predecessori, che hanno scritto la storia del design, quanto dal più anonimo artigiano.
Quale finalità intendevi perseguire con questo intervento, basato su oggetti recuperati dalle strade londinesi? È possibile individuare, in questa contaminazione storico-stilistico-geografica, una forte componente sociologica del tuo lavoro? Come avviene materialmente questo “gioco di incastri”, sulla base di quali accostamenti/variabili avviene la composizione del nuovo oggetto di design? Cosa determina in principio la nascita dell’idea e, successivamente, la sua realizzazione pratica?
Il progetto 100 chairs è nato dal fascino esercitato su di me dalle vecchie sedie che trovavo per la strada, destinate a finire tra i rifiuti. Ho cominciato a raccoglierle. Quando sono arrivato ad averne 50 mi sono posto il problema di cosa farne. Tempo prima, io e un mio amico avevamo lavorato su commissione al progetto di uno stand a Berlino in cui avevamo esposto tantissimi mobili tagliati a pezzetti, fra cui i visitatori potevano scegliere per poterne ricomporre dei nuovi. Da questa esperienza è nata l’idea sistematica di un approccio rielaborativo al tema e al tipo “sedia”. Di fatto, abbiamo fatto una ricerca sia sociologica sia di storia del design. Il riutilizzo è una grande forma di creatività, anche se magari non di creatività totale. Quello che cerco di fare è, in fondo, andare oltre il disegno industriale “tradizionale”, quello espresso nella digitalizzazione di uno schizzo dell’architetto.
Giocare con oggetti trovati mi piace poi molto, anche perché è per me un modo di interpretare il passato. In fondo non mi interessa creare un mondo nuovo, ma piuttosto capire cosa si può fare con quello che si ha già. Ripeto: questa per me è quasi la forma più pura di creatività. Sicuramente è la più complessa. Rielaborare oggetti mi permette di interpretare il mondo a mio modo. Il design, per me, più che un valore strutturale, è un valore aggiunto. Io cerco invece di fare il contrario, infatti prendo quella che è vera e propria spazzatura e ad essa aggiungo valore. Cambio il senso di moto della macchina del design, normalmente molto attenta al valore economico. Però a volte mi viene anche da pensare che non riuscendo a progettare una mia sedia perfetta ex novo, ho pensato di realizzarne 100 rielaborando sedie già esistenti in una sorta di percorso formativo.
Lo scorso autunno a La Triennale Design Museum, oltre a 100 Chairs in 100 Days hai presentato altri due interessanti progetti, Stanze e Camere e l’installazione Total Trattoria, episodio di un happening sul rapporto tra cibo-design-performance, dalla vocazione nomade e internazionale. Con esso hai sovvertito il tradizionale ruolo del design, che ha sempre soltanto fornito i meri strumenti per preparare il rito conviviale (tavolo, sedie e suppellettili per la tavola).
Ci puoi spiegare i fondamenti di questa operazione, sfociata nella cena-performance Trattoria-sociale, che ammicca alla storia della Eat Art, alla creazione da parte di Gordon Matta-Clark nel ’71 a SoHo (New York) di Food, ristorante frequentato principalmente da artisti e alla più recenti spinte del food design contemporaneo?
A Londra i ristoranti sono troppo cari o non sempre di qualità e a noi – per “noi” intendo dire Trattoria Team (Maki Suzuki, Kajsa Stahl, Alex Rich) – è sempre piaciuta la buona cucina. Spesso organizzavamo delle cene con altri amici, da lì è nata l’idea di mettere insieme i nostri lavori e la nostra passione e così abbiamo deciso di organizzare una volta al mese un happening in cui progettavamo dal menù, agli arredi e in cui avremmo cucinato per un numero contenuto di persone. Gli invitati non erano mai solo amici, si aggiungevano anche sconosciuti, ovvero chiunque rispondesse per primo all’invito lanciato via mail aveva un posto prenotato.
A volte ci domandavamo se fosse la combinazione giusta pur sperimentando sempre qualche novità in uno dei campi, ma accadeva che sfuggisse qualcosa, per esempio poteva capitare che gli ospiti non si amalgamassero tra loro, d’altronde spesso erano estranei che si ritrovavano allo stesso tavolo! In cucina si lavora con gli ingredienti, così come nel design si parte dai materiali.
Si ha a che fare continuamente con la casualità perché si lavora col calore, si prendono decisioni immediate, non c’è tempo per pensare. Questo accade anche nel mio laboratorio. Non sempre il piatto è perfetto ma c’è comunque qualcosa di interessante per cui vale la pena assaggiarlo. Conosco il mondo della cucina, ho lavorato come cuoco, aiuto cuoco e cameriere da studente per mantenermi. Nella mia famiglia alcuni zii hanno attività come pensioni, agriturismi, i miei stessi genitori sono contadini, quindi conosco la materia prima del cibo. Quello che cerco però non è di entrare nella logica del ristorante ma di soffermarmi sulla curiosità e sulla sperimentazione. Per me ha più valore lo stare insieme, pongo l’accento più sull’aspetto sociale.
Veniamo ora ai tuoi passati interventi di “decostruzione” di opere di storici designer, come Gio Ponti e Carlo Mollino: un’operazione da te definita «non un atto di decostruzione in sé, piuttosto un’azione per: RE-inventare, RI-pensare, RE-impossessarsi dell’oggetto e RI-creare per lo stesso un “nuovo destino”». Ci puoi descrivere a parole il trasporto emozionale che questa “azione” comporta? C’è tra i tuoi progetti futuri, qualche altro intervento di questo tipo?
Penso che per creare qualcosa di nuovo sia necessario decostruire l’esistente o dimenticare il passato. Credo sia ipocrita riferirsi imitando e voler diventare un nuovo Ponti. Per me è importante “tagliare a pezzi” l’esistente, lo faccio con rispetto, lo vedo come una sorta di processo di conoscenza. Non ho bisogno di partire dalla materia prima pura; anche ciò che è stato già lavorato o usato, e ha una sua forma, può essere visto come materia prima su cui plasmare un altro oggetto. Non è una questione di “troppo rispetto” ma di evoluzione del pensiero, l’eccessivo rispetto non ti fa andare avanti. Nella prima performance che ho proposto a Basilea nel 2007 – If Gio only knew – ho utilizzato gli arredi di Gio Ponti dell’Hotel Parco dei Principi a Sorrento. Ero un po’ titubante, influenzato appunto da questa forma di “rispetto-riverenza”, di cui accennavo. Alla decima opera mi sono lasciato andare, preso dall’entusiasmo di cambiare destino a quegli oggetti, ho pensato che c’era poco di Ponti in quegli arredi. Quello che in realtà io ho maneggiato è stata una produzione in serie, anzi industriale, destinata ad un albergo.
Puoi fornirci qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?
Sto cercando di iniziare un progetto un po’ più a lungo termine (2-3 anni), in quanto negli ultimi tre ho lavorato su molti progetti: una ricerca su come architettura, mobili e spazio interagiscono. Al momento sto disegnando due progetti industriali – due sedie – che spero saranno pronti per il Salone del Mobile a Milano.
Martino Gamper è nato nel 1971 a Merano (BZ). Vive e a lavora a Hackney (East London), abbinando l’attività di designer a quella di Docente presso la Facoltà di Design Products dell’RCA.
Selezione mostre recenti:
2010 – 21×21, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino
- Keep your seat, GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino
- Le fabuleux destin du quotidien, Le Grand Hornu, Belgio
2009 – Stanze e Camere + 100 Chairs in 100 Days, Triennale Design Museum, Milano
- Sitting and Seating, Nilufar Gallery, Milano
- Autoprogettazione Revisited, Architectural Association, Londra
- Chair Arch, with *Wallpaper & Ercol, V&A Museum, Londra
- Boule to Braid, a cura di R. Wentworth, Lisson Gallery, Londra
- Super Contemporary, Design Museum, Londra
- U.F.O Art & Design, NRW Forum, Dusseldorf, Germania
- Beyond Kiosk – Modes of Multiplication, Mudam, Lussemburgo
- Feierabend, Kate MacGarry Gallery, Londra
- Gio Ponti Translated, Nilufar Gallery, Milano
- SuperStories, Triennial of contemporary art, fashion and design, Hasselt, Belgio
2008 – Nowhere Now Here Now, LABoral, Gijón-Asturias, Spagna
- Mollino-Gamper, Frieze Art Fair, Salon 94, Londra
- Wouldn’t It Be Nice, Somerset House, Londra
- Inspirations, Conran, Londra
- Undiszipliniert, Kunsthalle Exnergasse, Vienna
- Flight of the Dodo, Project, Dublino
- Manifesta7, Fortezza/ Fanzensfeste (BZ)
- Here There and Everywhere, Leeds Met, Leeds
- Receiving, Wright, Chicago
- Designer of the Future, Design Miami, Basel
- Salone del Mobile, Nilufar Gallery, Milano
- Total Trattoria, The Aram Gallery, London
- Designer of the Year, Design Museum, London
- Wouldn’t It Be Nice, Museum für Gestaltung, Zurigo
Galleria di riferimento (in Italia): Nilufar Gallery, Milano
Dall’alto:
Veduta dell’installazione “TotalTrattoria”
Veduta del progetto “100 Chairs in 100 Days”