Intervista a Martina della Valle di Rosa Carnevale
Scavando negli anfratti della memoria, riemergono vecchie storie sepolte e dimenticate, figure sbiadite e oggetti smarriti che parlano di antiche presenze.
I luoghi conservano in silenzio ricordi pronti a vibrare. Sotto un velo di polvere. È il tempo delle cose, che si muove parallelo al tempo umano, nascondendo o portando di nuovo alla luce antiche testimonianze. Martina della Valle usa la fotografia per squarciare la patina del tempo e donare una nuova vita agli oggetti che illumina con il suo obbiettivo. Come un archeologo alla ricerca di resti e rovine, l’artista si muove attraversando sincronicamente passato e presente e agisce nel tempo sospeso della fotografia. La prossima personale di Martina della Valle negli spazi di Metronom a Modena parla di tempo e polvere. Time Dust è una ricognizione intima e privata dell’artista nel dismesso laboratorio di ceramica del nonno. Qui, tra scaffali pieni di calchi, statue immobili, disegni e spolveri, la fotografia si fa tattile e accarezza gli oggetti ormai in disuso, interroga ogni angolo dello spazio costruendone una nuova immagine temporale. Ne abbiamo parlato con l’artista, Martina della Valle.
Rosa Carnevale: Per la tua personale negli spazi di Metronom hai scelto il titolo di Time Dust. Il tempo e la polvere, uniti nell’eternità della fotografia. Puoi raccontarci come nasce questo progetto?
Martina della Valle: Il progetto è nato dall’intento di rielaborare e studiare il materiale rimanente dell’attività che per tanto tempo una parte della mia famiglia ha portato avanti. Il luogo su cui si muove l’indagine è il laboratorio per la lavorazione della ceramica di mio nonno, che da bambina ho osservato incuriosita da lontano, fino a quando non è stato chiuso. Le ceramiche, i calchi in gesso e le carte da spolvero rimangono come testimonianza di quella produzione. Ho voluto riavvicinarmi a questi oggetti con il mio sguardo attuale, cercando di individuare quale fosse il legame che mi spingeva verso di loro e tentando di dare un nuovo valore alle cose, guardando oltre la patina che il tempo ha depositato sopra.
Cosa hai trovato sotto la polvere e nelle crepe degli oggetti? Cosa può raccontare un luogo ormai abbandonato come quello in cui sei entrata?
Un luogo abbandonato rappresenta la testimonianza fisica e concreta di un’assenza. È spesso uno spazio in cui si possono ripercorrere le tracce minime di un accadimento o di un vissuto reale o immaginato. Nel caso del laboratorio in cui mi sono mossa, i materiali accumulati in grandi cataste racchiudono un grosso potenziale evocativo; la forza del lavoro artigianale e del tempo che è stato loro dedicato riappare depositata e viva sulla loro superficie. La polvere forma una pellicola sugli oggetti, aggiungendo uno strato epidermico ulteriore che sembra assorbire e registrare il passare del tempo, un tempo isolato, prolungato e sottile in cui il pulviscolo li ha relegati.
E il fatto che si trattasse del laboratorio di tuo nonno, quindi di un tuo familiare, in che maniera ha inciso sul lavoro?
Il lavoro di Time Dust è nato da uno spunto personale e autobiografico ma che, come spesso succede nei miei lavori, cerca di allontanarsi dalla sfera privata e di raccontare legami e sensazioni che tutti possono sentire e riconoscere. Il fatto che il laboratorio abbia avuto un ruolo nella mia vita da piccola ha inoltre generato una forte affezione verso lo spazio e i suoi oggetti. Ho avuto quindi la curiosità di ri-osservare quelle forme in modo da potermene riappropriare. Nel silenzio del seminterrato, ho iniziato ad aprire i calchi uno ad uno, cercando di ricomporre i soggetti che avrebbero riprodotto. Quei pesanti sassi bianchi sono il segno di un processo creativo interrotto. Uno strumento capace di generare oggetti e immagini che giace immobile e inattivo.
In mostra, accanto a fotografie, oggetti, disegni, c’è anche un wall-drawing dal significato fortemente simbolico. Come lo hai realizzato?
Il wall drawing segna una striscia narrativa sulle pareti della stanza principale della galleria. Rarefacendosi e addensandosi, si compone di piccoli segni fatti con la polvere di carbone. Le matrici sono vecchie carte da spolvero unite ad alcune create appositamente; leggerissimi fogli trasparenti traforati in cui il disegno è reso visibile dallo sfregamento di un tampone riempito della polvere nera. Le carte venivano usate per riprodurre i disegni delle decorazioni sulle ceramiche. Nel mio lavoro il processo rimane incompiuto: il disegno preparatorio diventa opera definitiva e conclusa, effimera come la polvere che la rende visibile e densa di narrazione. La decorazione perde il ruolo secondario per diventare soggetto in primo piano. Gli elementi da me creati fanno da collegamento tra un’immagine e l’altra, stridendo lievemente e spostando il significato da quello originale puramente decorativo a una lettura simbolicamente più complessa.
Il tema della memoria, declinato nelle sue diverse accezioni, è da sempre presente nei tuoi lavori. Che ruolo ha, a questo proposito, la fotografia nel rievocare la nostra memoria?
Il ruolo della fotografia nel mio lavoro è puro processo di scrittura delle immagini. A me interessa poter esprimere un concetto di IMPRESSIONE, il mezzo per fissare qualcosa che sarebbe altrimenti in via di sparizione o aiutare a far emergere figure mentali e private che altrimenti non potrebbero esistere fisicamente. Nel caso di Time Dust l’immagine fotografica sposta di luogo, porta in superficie ciò che non è visibile a tutti, non ritrae un istante, ma lo svolgimento di un lasso di tempo prolungato.
La mostra in breve:
Martina della Valle. Time Dust
a cura di Marinella Paderni
Metronom
viale G. Amendola 142, Modena
Info: +39 059 344692
www.metronom.it
Inaugurazione sabato 16 aprile, ore 18.30
16 aprile – 12 giugno 2011
In alto:
“Time Dust”, 2011, stampa fotografica montata a parete sotto vetro, cm 100×150
In centro:
“Time Dust”, 2011, stampa fotografica con cornice, cm 35×50
In basso:
“Time Dust”, 2011, dittico, stampe fotografiche con cornice, cm 50×50