MILANO | Fondazione Marconi | Fino al 14 febbraio 2019
di JACOPO RICCIARDI
Omaggio a Mario Schifano. In principio fu vero amore* alla Fondazione Marconi raccoglie diversi dipinti che vanno dal ’65 al ’70 disposti cronologicamente dal piano terra al terzo piano della sede.
Si inizia con il ’65, con tele di paesaggio semplificato dipinto a larghi colpi flessuosi con la sola distinzione di terra e aria – azzurro del cielo e bianco di polpose nuvole, a terra campiture distinte di verde e giallo ocra -, e questi pochi elementi sono tenuti da listelli dipinti con due punti alle estremità a simulare dei chiodi.
Poi, in altri quadri i listelli diventano fisici, di perspex trasparente e colorato, inchiodati realmente sulla tela che resta parzialmente dipinta. Dei perspex più ampi simulano la forma delle nuvole o porzioni di spazi che continuano o sottolineano il paesaggio sottostante dipinto, e a volte sporgono dal bordo della tela, mai coprenti, sempre filtranti.
Schifano cerca una fisicità che si verifichi prossima il più possibile alla realtà della mente che sente il filtro dello sguardo. Schifano ci dice che l’uomo è in lotta con se stesso prima che con il corpo del mondo. Quindi il genio di Schifano comprende che la mente è abitata dall’immagine che viene da fuori passando per il filtro dell’occhio, e produce un’opera che pone lo spettatore davanti a un filtro (perspex colorato uniforme o incolore con diversa grana di ruvidezza) per raggiungere l’immagine dipinta. A questo punto l’opera di Schifano è un ribaltamento speculare del rapporto occhio-filtro mente, mettendo davanti allo spettatore un’immagine dipinta che essendo filtrata dal perspex diventa pura immagine, non dipinta. L’osservatore spia nella mente di Schifano l’immagine che l’artista produce dentro di sé. La spia, la indaga nel dato sfuggente non più pittorico, la medita, la decripta come umano desiderio di confronto con altri atti oltre-pittorici.
L’evanescenza dell’immagine di stelle o finestre aperte nel vuoto, colte dietro il filtro del perspex, lascia spazio a una istantanea ritrovata fisicità di un’immagine pittorica diretta, simile a un’immagine concepita dalla mente, e quindi dipinta, presentata con la sua propria evidenza concepita. L’immagine precedente, filtrata, era un’immagine recepita dall’esterno, qui ci troviamo davanti a immagini concepite dalla mente, atti di consapevolezza: l’incidente, l’albero, la nudità, l’orientamento ed altro.
Nel ’67 ricompare il perspex a filtrare un’immagine retrostante. Schifano trova la coscienza, un luogo della mente nella mente, quindi filtrato da essa. Un occhio della mente che guarda un’immagine perduta e preservata nella mente. L’ideologia pretende di essere un tetto collettivo ma che non potrà mai proteggere l’interezza del mondo di un individuo. L’immagine è pittoricamente semplificata dall’utilizzo di uno stencil che rimanda sulla tela l’immagine di tre operai, due vicini e un altro separato da loro. A volte compare il simbolo della falce e il martello e volte no. A volte i tre individui sono riconosciuti come operai, a volte come soli individui. Stanno in una cassa di perspex colorato i cui angoli sono arrotondati come la tela retrostante: ritorna il televisore, la forma che all’epoca aveva lo schermo di un televisore con tubo catodico. In Schifano, in modo geniale, fa del televisore un trasmettitore autonomo di immagini, create dall’uomo certo, ma disperse in un luogo che sta oltre di lui, esattamente come quello della mente che individua in sé un luogo nuovo, trasmettitore di immagini. In questo caso, si tratta ancora di un’immagine singola, ripetuta, ma che vive tutte le sue condizioni percettive che vanno da una specificità politica a una prettamente umana, individuale, sempre sociale.
Ecco, allora, il terzo piano della Fondazione che offre una serie di tele del ’70, rettangolari, dove, su fondo nero, è stampato il profilo dello schermo di un televisore che trasmette un’immagine di qualsiasi genere, contemplativo o di cronaca. L’intervento dell’artista raggiunge il minimo indispensabile, egli opera con macchie di colore che vanno ad accentuare la scena, la sua rilevanza di immagine compiuta e finita, ineliminabile dal campo della mente. Schifano riduce l’azione pittorica tradizionalmente intesa, ma non riduce l’importanza capitale dell’intervento pittorico che permette il rivelarsi ottimale dell’immagine.
La stampa in bianco e nero viene svegliata dal colore nell’attenzione della mente.
Con queste opere Schifano si immerge nella profondità della profondità della mente, quasi raggiungendo l’inconscio, l’irrazionale, quel luogo mentale dove si conservano le immagini che in miriadi, come stormi, danno luogo al nostro spazio vitale, ai nostri orientamenti, alle nostre appartenenze. Ecco che è capitale quel bordo nero e spesso che divide i lati del quadro dall’immagine fotografica dello schermo del televisore poiché segna una messa a fuoco della mente dentro di sé, come se la mente stessa per qualche motivo di esigenza vitale iniziasse a muoversi al suo interno e a viaggiare in spazi scuri e inauditi per andare a scovare quelle immagini che fanno parte della nostra vita, sulle quali la nostra vita si regge. Il televisore rimanda un bagaglio mnemonico che può essere reindirizzato dalla mente alla mente. Queste immagini di Schifano non dialogano più con l’occhio ma direttamente con il vasto spazio della mente. Come fanno queste scene ad essere eterne quando erano specifiche? Accade perché l’intervento pittorico di Schifano cancella e rivela allo stesso tempo una condizione dell’immagine, mostrando una scena appunto che si compone nel momento in cui appare (in una mente).
*Vero amore è il primo quadro che l’artista romano espone a Studio Marconi nel novembre del 1965, accanto a opere di Valerio Adami, Lucio Del Pezzo ed Emilio Tadini. Vero amore è anche il titolo della prima personale che egli tiene, sempre da Marconi, nel dicembre 1965.
OMAGGIO A MARIO SCHIFANO
Al principio fu Vero amore*
Fondazione Marconi
Arte moderna e contemporanea
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