GERUSALEMME | Museum On The Seam | Dal 15 giugno 2014
Intervista a MARCANTONIO LUNARDI di Simone Rebora
L’art system italiano, specie per gli artisti non ancora affermati, impone un percorso all’apparenza libero e variegato, ma spesso appiattito sui circuiti chiusi di fiere e gallerie, e ben delimitato dalla fatidica (e famigerata) formula dell’under 35. Curiosità mista a diffidenza si profila allora quando s’incontra un artista emergente che si sottrae già dall’anagrafe a questa impostazione. E quando lo si scopre attivo principalmente all’estero e in un ambito tra i più delicati dell’arte contemporanea, la curiosità si tramuta in esigenza. Abbiamo incontrato Marcantonio Lunardi (Lucca, 1968) per farci raccontare la sua peculiare esperienza.
Il prossimo 12 giugno sarai l’unico rappresentante italiano nella mostra And the Trees Set Forth to Seek for a King, presso il Museum on the Seam di Gerusalemme. Quale opera presenterai e come si inserirà nel progetto complessivo curato da Raphie Etgar?
L’opera selezionata per Gerusalemme è un lavoro del 2011 inserito nella Trilogia della decadenza, che descrive gli ultimi anni di governo berlusconiano. Avevo la necessità di raccontare un paese che non riusciva più a respirare, il mio disappunto nei confronti di un potere che ci accompagnava da più di venti anni. L’opera, vincitrice nel 2012 del Videoholica film festival, ha avuto una vita vivace passando dal Video Art & Experimental Film Festival del Tribeca Cinemas di New York al Video Tage di Hong Kong, fino ad approdare a Gerusalemme. Suspension è stata scelta perché il curatore, Raphie Etgar, vuole indagare la natura del rapporto tra il leader e i cittadini. I tableaux del mio video mostrano scene di vita quotidiana in cui è incastonata la presenza pervasiva del leader, racchiuso dentro un televisore che sovrasta tutti: uomini, donne, anziani e bambini in attesa di un cambiamento che non c’è. Dalla loro condizione irrisolta, guardano lo spettatore condividendo con lui una necessità di rinnovamento inappagata.
Il tuo percorso di ricerca si colloca nettamente sul versante più “impegnato” della produzione artistica contemporanea. Ma come è stato spesso notato, quando l’arte incontra la politica corre anche il rischio di perdere la propria identità più profonda. Come ti confronti con questa problematica (se per te esiste)?
Penso che l’opera d’arte sia espressione del tempo e dell’ambiente in cui l’artista lavora. Anche le opere ritenute non-impegnate riflettono la condizione politica in cui hanno preso forma, poiché la personalità dell’artista non può essere scissa dalla sua realtà di cittadino. Io non faccio altro che esplicitare questa condizione e trovo che non vi siano sostanziali contraddizioni nel connubio tra arte e politica. La mia non è definibile arte militante, quanto piuttosto arte sociale. Ritengo che sia una forma di onestà, nel dialogo con il pubblico, manifestare il proprio pensiero poiché non vi è niente di più ambiguo dell’ipotesi dell’equidistanza. L’identità profonda dell’arte è correlata all’universo interiore dell’artista e quindi anche alla sua natura di soggetto civile.
Gli strumenti delle telecomunicazioni sono una presenza pressoché costante nelle tue opere, ma non senza una certa patina retrò. Telefoni a cornetta e schermi televisivi sarebbero oggi facilmente rimpiazzabili da smatphone e tablet. Che ruolo hanno le moderne tecnologie nella tua poetica?
La tecnologia vintage è utilizzata all’interno delle mie opere per generare un déplacement spazio-temporale rispetto alla storia che sto raccontando. All’interno di Default per esempio, la scelta del tipo di telefono anni ’70 è strettamente collegata all’edificio in cui è ambientata la scena. Nell’ambito della mia poetica gli strumenti tecnologici non sono meri oggetti di scena ma icone che alludono a una precisa condizione. Essi sono concepiti per ricreare il clima necessario alla narrazione. Nella mia ultima opera, 370 new world, ho utilizzato dei tablets per rappresentare una forma di solitudine che volevo raccontare nel presente. Nelle mie opere spesso intervengono le tecnologie legate alla comunicazione perché siamo immersi in un mondo sempre più interconnesso. I tablets, come i televisori o i telefoni, sono diventati parte integrante del nostro quotidiano. E tutto questo mi affascina.
La tua situazione di artista italiano “emergente” è peculiare almeno per due caratteristiche: hai iniziato tardi e lavori principalmente all’estero. Come sei arrivato alla videoarte e come vivi questa tua esperienza fuori dai circuiti tradizionali?
Ho impiegato molto tempo a individuare un medium che mi permettesse di raccontare le cose che vivevo. Provengo da una famiglia operaia, ragion per cui avrei dovuto lavorare in fabbrica. Ma una serie di eventi mi ha portato a interessarmi all’espressione artistica. Circa quindici anni fa ho cominciato a formarmi come regista documentarista. Nel 2011 è arrivata l’ulteriore svolta verso il cinema sperimentale. Quell’anno ho prodotto la mia prima opera di videoarte, Laboratoire Italie che non ebbe alcun successo nei festival italiani. Poi una curatrice italiana trapiantata a Parigi mi chiese l’opera per una mostra sulla retorica del potere e da allora ho iniziato a esporre all’estero. Le mie opere hanno trovato spazio con una naturalezza che io stesso non mi aspettavo.
Dopo Gerusalemme, hai già qualche nuovo progetto nel cassetto?
Durante i preparativi per la mostra di Gerusalemme sono stato convocato alla Biennale d’Arte Contemporanea in Cina con Default. Questa circostanza mi ha permesso di conoscere Maria Yvonne Pugliese, incaricata dal professor Peng Feng per la ricognizione del panorama artistico italiano. Feng, docente di estetica orientale all’Università di Pechino, è stato anche curatore del Padiglione Cinese alla Biennale di Venezia 2011. Pugliese, fondatrice di una propria galleria, ha rivolto particolare attenzione a quelle esperienze che sono state capaci di registrare i processi interni alla società e al suo divenire. Questa partecipazione mi gratifica perché arriva dopo soli tre anni di lavoro in questo ambito. Per il futuro ho in cantiere un lavoro multidisciplinare che affronterà il tema della spersonalizzazione dell’individuo inserito in un sistema. Con il nuovo progetto, The life of the numbers, attuerò una contaminazione di generi tra il video, la realtà aumentata e il libro d’artista.
And the Trees Went Forth to Seek a King
a cura di Raphie Etgar
Artisti in mostra: Kendell Geers, William Joseph Kentridge, Santiago Sierra and Jorge Galindo, Ramin Haerizadeh, Uri Lifshitz, Micha Ullman, Joshua Neustein, Clemens von Wedemeyer, Vyacheslav Akhunov, Shirley Faktor, Oliver Pietsch, Graham Frew, Marcantonio Lunardi, Tommy Cha, Peter Kennard and Cat Phillipps, Eckart Hahn, Chto Delat, Ariel Kleiner
Dal 15 giugno 2014
Inaugurazione 12 giugno 2014
Museum On The Seam
4 Chel Handasa st., P.O.B. 1649, Gerusalemme
Info: +972 2 6281278
www.mots.org.il
www.marcantonio.eu