Intervista a LUCREZIA RODA di Livia Savorelli
A volte basta vestire gli occhiali della fantasia per riuscire a scorgere la bellezza dietro ogni cosa, sia che si tratti di un oggetto inanimato, un processo industriale o una trasformazione colta nel suo compiersi. Conservare e nutrire lo stupore che caratterizza l’infanzia, donandole sempre nuova linfa, immergersi completamente quasi perdendo il legame con la realtà ma lasciando aperte le porte della fantasia, è quanto più caratterizza la poetica e la visione di Lucrezia Roda e che la rende “diversa”, nel senso più profondo del termine, da altri fotografi che affrontano ambiti e tematiche affini.
La sua arte, che rifugge dall’omologazione e che le fa percorrere strade inesplorate, ci consegna immagini potenti dove una matassa di filo arrugginito rinasce come architettura astratta in scatti dove persino la ruggine sembra una spruzzata di tempera rendendo l’appeal dell’immagine ancora più forte; un altro groviglio, questa volta incandescente, si anima di un dinamismo inaspettato che le dona una nuova identità e un rigore geometrico assoluto, un macchinario colto nell’apice della sua funzionalità, diventa scenario surreale ammantato di misterioso fascino. Entriamo allora, profondamente, nella poetica di questa giovane artista…
Il tuo esordio, come giovanissima interprete nella fotografia, parte dal mondo dell’industria, in particolar modo dal processo produttivo dell’acciaio. Cosa ti ha portato ad avvicinarti a questo mondo e, da fotografa, come ti sei posta di fronte alle dinamiche produttive? Cosa ti ha affascinato di più?
Sono legata a questo mondo, quello metalmeccanico e della produzione industriale dell’acciaio, perché ci sono sostanzialmente nata: mio nonno paterno, a cui il mio progetto fotografico è dedicato, ha fondato negli Anni ’60 la Trafileria dove lavora gran parte della mia famiglia e che dista pochi passi da dove sono cresciuta. Avendo visitato quei luoghi, fin da bambina, è possibile dire che gli ambienti di partenza delle immagini mi erano, a tutti gli effetti e letteralmente, molto familiari.
Subisco il fascino della comunicazione visiva e ritengo la fotografia un linguaggio molto in linea con le mie corde espressive ed estetiche.
Le prime immagini della serie Steel-Life sono state scattate all’interno delle Trafilerie. L’allenamento iniziale potrebbe essere stato quello di ricercare dei soggetti con uno sguardo stupito.
Durante l’infanzia i luoghi dell’azienda erano per me terreno di gioco. Ho molto netto il ricordo delle imponenti matasse d’acciaio arrotolato, alle quali era quasi irresistibile approcciarsi senza volercisi arrampicare.
È stato facile per me ritrovare una visione originale attraverso la macchina fotografica. Mi ritengo una persona molto attenta al dettaglio ma ho la certezza di vedere realmente un soggetto solo dopo averlo guardato e immortalato attraverso il mirino della macchina fotografica.
Mi sono posta agli scatti cercando di recuperare lo stupore che avevo provato molti anni prima e che, essendo una persona molto emotiva e curiosa, era certamente insito in me. Mi sono resa ricercatrice di qualcosa che andasse al di là della parte figurativa. Superato il blocco iniziale è stato semplice, le atmosfere che mi si presentavano avevano molto spesso dei risvolti surreali e, a fantasticarci, risultavano dei veri e propri mondi a sé stanti.
Ad affascinarmi, in particolar modo, sono state le differenti fasi di trasformazione della materia, il susseguirsi di alternanze formali, cromatiche, l’infinito mutare d’aspetto dello stesso materiale. Inanimato, ma ai miei occhi così vitale… La sfida con me stessa è stata rivedere i giganteschi rotoli di metallo impilati in maniera spettacolare, così come apparivano agli occhi di una bambina.
Resta in me l’assoluta convinzione che il trucco è cercare di guardare la realtà sempre con quegli stessi occhi.
Il ciclo Steel-Life allude e fornisce, già dal titolo, un indizio sull’ambito di partenza. La vita dell’acciaio, da te studiata, fotografata ed interpretata viene trasposta in scatti che ricordano lo still life. Il suono fonetico gioca volutamente su questo parallelismo?
Il suono fonetico del titolo è esattamente un gioco di parole fra il significato tradotto “vita dell’acciaio” e still life, inteso come la tecnica fotografica che pone come soggetto un oggetto inanimato. Il “-” fra i termini spezza, e allo stesso tempo accomuna, i temi che ho voluto trattare all’interno del progetto, ovvero: “l’acciaio” e, più genericamente, “la vita”.
Le immagini sono accomunate al genere still life per quanto concerne il contenuto, ossia soggetti inanimati (ad eccezione di Steel-Life #17). Stilisticamente, invece, il progetto si allontana di molto da questo genere fotografico poiché le riprese non sono costruite e la luce è sempre naturale (o meglio, d’ambiente).
Nonostante mi possa definire un’amante della fotografia in studio, in questo contesto non ho mai pensato di ricostruire scenari. Ho solo osservato ciò che mi succedeva attorno e mi sono lasciata travolgere dalle atmosfere.
Ne derivano opere inspiegabilmente glamour (penso ad esempio a Steel-Life #8 o Steel-Life #12) che rimandano visivamente a ben altri mondi e immaginari e altre, come Steel-Life #10 o Steel-Life #26, che svelano straordinarie architetture astratte. Cosa in realtà hai voluto trasmettere?
Ho cercato di immortalare gli aspetti da cui sono rimasta affascinata e attratta per visione, per via del rigore geometrico, o per emotività, secondo il richiamo di una realtà a sé stante; di trasmettere delle sensazioni, alternando immagini di dettagli e inquadrature chiuse a vedute più ampie, dove spesso ho scelto di ritrarre il momento in cui il metallo è sempre soggetto ma con la propria assenza, di modo da far domandare all’interlocutore: cosa sto guardando?
Riguardo alla tematica della Vita (quindi inevitabilmente collegata a quella della Morte), ho invece toccato delle corde personali che probabilmente non sono percepibili semplicemente guardando le mie immagini senza leggerne l’interpretazione. Poiché i processi produttivi mi hanno presentato una materia in continua trasformazione, è stato spontaneo per me rapportare questo mutamento ad un ciclo vitale. Sono sempre stata affascinata dalla tematica della morte. Man mano che proseguivo in questo percorso, mi sono resa conto che stavo immortalando attimi di una materia in cui questa fase veniva a mancare. Non stava morendo, ma riprendendo vita. La vedevo sotto ai miei occhi distruggersi, cambiare stato, scaldarsi, raggelarsi, assottigliarsi… La vedevo nascere, vivere, trasformarsi, deperire e nascere nuovamente. Da ciò, la definizione di materia immortale.
Steel-Life, essendo un ciclo sviluppato in più anni, ha attraversato diverse fasi di trasformazione del metallo. Ripercorri per noi le tappe di questo percorso, fino alle ultime esperienze di quest’anno… Quali nuove prospettive si sono aperte e come, a tuo parere, il tuo lavoro è evoluto nel confronto con dinamiche produttive sempre diverse?
Il percorso è iniziato nel 2014 all’interno delle Trafilerie san Paolo di Erba (nelle quali ho continuato a scattare anche negli anni successivi), per poi spostarsi nel 2015 all’interno del Laminatoio del Caleotto di Lecco e, nel 2016, in diversi plant del Gruppo Agrati, specializzati in viti, bulloni e altro prodotto finito. Nel 2019 ho proseguito la ricerca partendo, si potrebbe dire, dal punto zero: all’intero delle acciaierie Duferco e Feralpi di Brescia ho avuto l’opportunità di seguire il ciclo produttivo immortalando il materiale partendo dal parco rottame.
Il rottame simboleggia per me una fase molto importante per il progetto. Situazione materica di limbo, culla e tomba della vita dell’acciaio, materiale vissuto, morente, pronto alla rinascita, mi ha presentato un immaginario veramente suggestivo che sicuramente tornerò ad analizzare.
Affondando le proprie radici nella mia storia personale, considero questo progetto la mia prima vera ricerca, che accompagnerà parallelamente i miei progetti negli anni a venire.
Come operi nei vari stadi della tua ricerca, dallo studio dei soggetti sino all’intervento finale in post-produzione?
Il primo passo è studiare cosa accade all’interno di ogni azienda nelle diverse dinamiche produttive. Dopodiché, in fase di scatto, devo ammettere che non ho una metodologia sistematica. Ruota tutto attorno all’intuizione e a quello che vedo o provo in quei momenti.
La parte di selezione e post-produzione, la mia preferita ma anche la più lenta, è quella in cui sviluppo e plasmo i soggetti enfatizzando ciò che vedevo mentalmente scattando. Le immagini finali non possono essere definite lontane dalla realtà che mi si presentava davanti agli occhi, ma c’è da dire che non mi interessa preservarla immutata, poiché non cerco di riprodurla fedelmente ma di rappresentarne una sfumatura esistente solo nel mio immaginario.
Nei giorni di shooting fotografico, nei luoghi dove effettivamente avviene la trasformazione della materia, ti muovi in un mondo complesso e pieno di stimoli visivi. Nel tempo che ti è concesso, scatti incessantemente soffermandoti sul dettaglio, l’elemento che spicca in mezzo ai tanti…
Se ripenso alle giornate trascorse fotografando nelle aziende, mi viene sempre da sorridere perché, immaginandomi dal di fuori, mi vedo con pesanti scarpe antinfortunistiche, caschetto e giubbotto catarifrangente a gironzolare in enormi capannoni con macchina e treppiedi, spesso accompagnata da qualcuno che mi vede per ore concentrata su soggetti inusuali come i cesti di scarto… Dal di fuori deve sembrare una faccenda parecchio buffa.
Passeggiare nelle varie aree produttive significa essere tempestata da suggestioni, avrei davvero molti aneddoti da raccontare collezionati negli anni: ogni immagine ha la propria storia e retroscena.
Il tuo nominare gli stimoli esterni mi ricorda la prima volta in cui mi hanno fornito dei tappi per le orecchie: non ne avevo mai fatto uso prima. Li ho messi e dopo qualche secondo la realtà attorno a me si è fatta sempre più silenziosa, fino a diventare completamente muta.
Le suggestioni davanti a me si sono quadruplicate, ciò mi ha dato da pensare a quanto siamo circondati da cose meravigliose ma troppo distratti per poterle vedere tutte…
Come un alchimista in grado di trasformare un materiale ordinario in qualcosa di ben più prezioso, trasponi l’immagine originaria donando una vita altra al materiale inerme cui rivolgi il tuo obiettivo. È corretto affermare che, nella tua pratica, cerchi di dare un tuo personale ordine al disordine, conseguentemente di dare una nuova vita alle cose?
La similitudine con la figura dell’alchimista la sento e mi appartiene. Nella mia ricerca l’approccio allo scatto ha delle dinamiche tutte sue. Talvolta mi si presentano scenari “disordinati” ma che ai miei occhi hanno una perfetta armonia e che voglio trasmettere. Assieme ad altre, la tematica del caos e dell’ordine mi è cara, quindi è corretto affermare che con questo progetto stessi cercando di riordinare qualcosa, dentro o al di fuori di me.
In un mondo drammaticamente orientato all’omologazione, con la tua ricerca sottolinei il valore dell’imperfezione rispetto alla perfezione… Si tratta di una visione molto interessante ed attuale, puoi approfondire per noi come il dare valore alla diversità si innesta nella tua poetica?
ll concetto che mi esponi prende perfettamente forma in queste mie parole:
“Ordinati alveari bucherellati ti ricordano che, se sei diverso, si nota.
Voragini nere ti fanno sentire come un errore.
Ciò che non vedi è sempre sbagliato, vero?
La perfezione è importante, l’imperfezione di più”.
Sono sempre alla ricerca ossessiva della perfezione, caos e ordine tengono le redini della mia vita in una maniera che difficilmente risulta facile credere coesistere nella stessa persona: convivono in me in una maniera quasi fastidiosamente discordante. Spesso mi ritrovo a gestire il dualismo di questi aspetti attraverso la fotografia.
All’interno di Steel-Life mi è capitato di inquadrare dinamiche geometriche con moduli ridondanti che, talvolta, si dimostravano lievemente imperfetti. Contrariamente ai miei impulsi, e per rimanere fedele allo spirito del progetto, invece che correggerli o ignorarli, li ho spesso resi soggetto stesso: in questo caso disordine e imperfezione mi apparivano interessanti.
Il lato oscuro del pensiero perfezionista è pericoloso, poiché totalizzante e distruttivo, ed è più probabile che il perfezionismo generi frustrazione piuttosto che perfezione. Nonostante io non ne sia ancora in grado, sono convinta che talvolta ci sia la necessità di abbracciare il perfezionismo ad una corrente di pensiero più pragmatica, verso l’accettazione dell’idea che siamo umani e perciò unicamente imperfetti.
Quali sono i colori prevalenti del tuo mondo?
Lo studio dell’arte del colore influenza la mia ricerca fotografica fin dalla scelta dei soggetti (insieme a molti altri criteri, come la geometria o la luce) per poi ripresentarsi in maniera più scientifica con la ricerca spasmodica delle tonalità e delle cromie esatte nella fase di stampa. In questo progetto, nonostante il soggetto sia l’acciaio, monocolore nell’immaginario collettivo, ho ben presto abbandonato la scelta di dedicarmici in bianco e nero, quando ho capito che il suo essere materia viva andava raccontato con colori il più saturi, accesi e vividi possibile.
Se dovessi scegliere un (non) colore nel quale identificarmi, sarebbe senza dubbio il nero.
Insieme di tutti i colori nella quadricromia e, al tempo stesso, grande assenza nello spettro della luce, personifica per me la sintesi di ciò che sono o che vorrei essere.
È psicologicamente associato all’inaccessibilità, all’ignoto, all’inesplorato e allo sconosciuto, quindi percepito come potenzialmente pericoloso. Tutelante poiché sottovoce, tinta nella quale è facile nascondersi, come nel buio della notte.
Difficile associarlo a materia vitale, ma ritengo che la percezione di esso cambi in base alla personalità di chi lo osserva, a seconda del fatto che un vicolo buio faccia venire voglia di allontanarti o di avvicinarti, e se nell’ignoto si riconosca paura o attrazione del mistero.
Per racchiudere in una sola scientifica frase la mia personale percezione: “il nero assorbe, non respinge”, quindi, a rigor di logica, attrae.
Attratta dalle luci taglienti e dalle ombre ingombranti, provo per questo colore un richiamo viscerale, soprattutto se controbilanciato dal suo opposto, il bianco, simbolo di luce, di vita, di speranza.
Mi piace pensare di aver scelto di realizzare il mio studio interamente, candidamente e perfettamente bianco immacolato sulla scia di questo pensiero… Impossibile perdermi lì dentro.
Un altro progetto a te particolarmente caro è About Metal (about me), un ciclo – composto da scatti fotografici, video e scritti attraverso cui hai dato voce al tuo pensiero – che associ ad un momento particolare della tua vita e ad una conseguente ricerca di risposte. Anche qui il metallo è il protagonista ma con una dinamica del tutto nuova. Entrare nelle sue trame, attraverso l’analisi a microscopio di oggetti del tuo quotidiano, ti ha portato a scavare nel profondo del tuo io, addentrandoti nei meandri più profondi di esso man mano che, distaccandoti dalla forma e dalla funzionalità dell’oggetto, ne sondavi l’anima e giungevi alla sua essenza… Come hai concepito questo ciclo e che importanza hanno avuto gli oggetti di partenza, fino alla loro “nuova vita”?
Sono sempre stata un’amante dell’arte, convinta che amarla e quindi concepirla non sia un passaggio né diretto né scontato né, soprattutto, necessario.
Era l’inizio del 2018 e, assecondando le mie necessità espressive, mi apprestavo a nuove sperimentazioni.
Mille idee mi camminavano avanti e indietro nella testa ma, entrata interamente nel vortice di Steel-Life, mi risultava difficile allontanarmi drasticamente dalla tematica della materia metallica. Ho quindi cercato di avvicinarmi di più ad essa, di penetrarla con lo sguardo, ma non ero mai abbastanza vicina.
Dopo varie sperimentazioni attraverso il mondo macro, mi sono addentrata nel mondo micro. Al primo sguardo ad un provino industriale fallace, attraverso un microscopio elettronico, la folgorazione.
Quella visione rappresentava, in modo fatalmente inquietante, il mio stato d’animo di quel periodo. Incuriosita da questa affascinante alchimia, ho iniziato ad analizzare svariati metalli, rimanendo al microscopio letteralmente giorno e notte per immortalarli.
Un pomeriggio mia madre mi ha portato in laboratorio un vecchio ditale da cucito. Dopo averlo osservato al microscopio mi sono state chiare due verità: la prima, che la fotografia non era più sufficiente a testimoniare ciò che stavo provando (motivo per cui in questo progetto sono ricorsa a delle riprese video), e la seconda che era arrivato il momento di allontanarmi dalla materia industriale per avvicinarmi a quella personale, mettendo un passo al di fuori dell’industria e mettendone uno dentro me stessa.
Successivamente ho iniziato ad osservare qualsiasi mio feticcio metallico mi si potesse rivelare al microscopio: i miei anelli, orecchini, la mia penna stilografica, chiavi, viti. Vite. Invisibili micro-mondi inventati, descritti con parole mai dette…
Il risultato è una ricerca di scenari che affondano nell’inconscio e nell’interpretazione dell’astrattismo originato da immagini ingrandite dalle duecento alle mille volte.
Ho iniziato il progetto About metal (about me) in un particolare momento della mia vita. Il significato reale di ogni opera, il richiamo all’oggetto di partenza, è descritto in una lettera anteposta al telaio dell’immagine stampata, frame del video iniziale, e nascosto in una busta sigillata con ceralacca. Non so se chi possiede queste immagini abbia scelto di aprirla o meno.
La tua ricerca parte da un’analisi fortemente intimistica, che si dispiega attraverso la luce (quella della fotografia) e la parola (intesa come espressione personale di un percorso di vita e di elaborazione di pensieri, memoria personale e lucida analisi dello stato delle cose). Come questi ambiti convivono nella tua ricerca? E quale pensi sarà la naturale evoluzione della stessa?
La parola, nella fattispecie la parola scritta, ha sempre avuto per me una grande valenza.
Trovo che la scrittura sia il linguaggio più intimo e spontaneo da utilizzare per fermare delle sensazioni, sintomo di desiderio di registrazione e necessità di memoria.
Scrivere, attraverso una pulsione che varia fra il terapeutico e la sentimentale dipendenza, ricopre un ruolo fondamentale nella mie dinamiche esistenziali.
La naturale conseguenza è che, da sempre, l’incontro con l’opera artistica concepita con l’utilizzo della parola mi coinvolge emotivamente: il suo significato mi arriva in maniera molto diretta.
Ho sempre fotografato per mostrare e mettermi in connessione con gli altri e scritto per parlare a me stessa. (Potrei ripercorrere gli attimi peggiori o migliori della mia vita andando a ritroso e rileggendo gli svariati quaderni arancioni collezionati negli anni…).
Penso che la naturale evoluzione delle mie ricerche sia quella di arrivare a sviluppare i rapporti sommessi, che da sempre coltivo ed intercorrono in me, fra scrittura ed immagine, di modo da poter fare mio il potere espressivo e visivo della parola tanto quanto quello della fotografia. Il mio desiderio sarebbe quello di entrare nell’intimo delle persone e indagare a fondo circa tematiche che mi stanno a cuore, come la percezione dell’io dentro e al di fuori di sé, il dualismo, l’identità, attingendo ad un’esperienza egocentrica ma allargandola a più fronti, in maniera meno individualista. Sono convinta che sia giunta l’ora di farlo coinvolgendo l’uso della parola come audace mezzo espressivo, senza più doverla tenere inaccessibilmente chiusa in cassetti o in buste sigillate.
Info: www.lucreziaroda.com