SVIZZERA | GINEVRA | Musée Maison Tavel-Musée d’Art et d’Histoire | 1 aprile – 27 giugno 2021
Intervista a STEFANO BOCCALINI di Matteo Galbiati
La Musée Maison Tavel-Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra (Svizzera) ospita La ragione nelle mani, interessante progetto di Stefano Boccalini (1963) che fonde un’esperienza artistica condivisa con una comunità della Valle Camonica ad una riflessione sulla potenzialità espressiva del linguaggio. Protagoniste sono nove parole di altrettante lingue che, per la specificità semantica, non possono trovare una pari e corrispondente traduzione in italiano: queste sono state trasformate in “opere” grazie al sapiente intervento degli artigiani lombardi e dei loro giovani apprendisti. Scopriamo con lo stesso artista la specificità di questo sua particolare opera “relazionale”:
La ragione nelle mani fa convergere riflessione artistica e sapere artigiano con il coinvolgimento della comunità locale della Valle Camonica: come è nato e cosa l’ha motivato? Perché ha scelto di confrontarsi con quella realtà?
Il progetto nasce da un rapporto che, a partire dal 2013, ho iniziato ad instaurare con la Valcamonica. In quell’anno Giorgio Azzoni, direttore artistico di Aperto art on the border, una manifestazione di arte pubblica promossa dalla Comunità Montana attraverso il Distretto Culturale, che mette in rapporto l’arte contemporanea con il territorio Camuno, mi ha invitato a realizzare un’opera che a partire dal tema dell’acqua fosse in grado di relazionarsi con il territorio. Da allora la valle è diventata un punto di riferimento per il mio lavoro, ho lavorato con varie comunità, con le istituzioni locali e con alcuni artigiani con cui ho creato uno stretto rapporto di collaborazione e di scambio. A partire da queste relazioni ha preso forma La ragione nelle mani, un progetto che mette in relazione una condizione locale, che si esprime attraverso i suoi saperi artigiani, e alcune parole intraducibili appartenenti a lingue di diverse latitudini, attraverso questa relazione mi interessava far emergere la consapevolezza della territorialità in un luogo così ricco di saperi.
Che tipo di coinvolgimento ha voluto seguire? Con chi si è relazionato, nello specifico, per la sua definizione concreta?
La ragione nelle mani ha preso il via con un laboratorio che ho condotto insieme alle operatrici della Cooperativa Sociale il Cardo di Edolo e che ha coinvolto tutti i bambini e le bambine di Monno. A loro ho raccontato il significato di circa cento parole intraducibili che sono presenti in molte lingue, parole che non possono essere tradotte perché non hanno corrispettivi in grado di rispondere alla complessità del loro significato e che possono essere quindi solamente spiegate. Le parafrasi non possono restituire la vera essenza di queste parole, molte delle quali arrivano da lingue minoritarie che a stento resistono all’uniformazione. Nel rischio della loro scomparsa, vi è la cancellazione permanente della ricchezza di quella biodiversità linguistica che queste parole intraducibili hanno la capacità di esprimere in modo così efficace. Insieme ai bambini e alle bambine di Monno abbiamo scelto circa venti parole che parlano del rapporto tra essere umano e natura e delle relazioni tra gli esseri umani stessi: abbiamo approfondito queste riflessioni attraverso una serie di attività, toccando vari aspetti della loro creatività. Ho poi sottoposto queste stesse parole allo sguardo degli artigiani e delle artigiane per capire con loro quali potessero essere le più adatte a essere trasformate dalle loro sapienti mani. Ne abbiamo scelte nove che sono diventate il materiale su cui hanno lavorato insieme ai giovani apprendisti. Si è arrivati così alla realizzazione di un’opera composta da sette manufatti, che sarà presentata in mostra per la prima volta presso il Museo Tavel di Ginevra – dove sarà messa in relazione con la storia di una città che, fin dai passati secoli, ha mantenuto una particolare attenzione alla dimensione della parola. L’opera, inoltre, entrerà a far parte della collezione della GAMeC – Galleria D’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. Il risultato di tutto questo lavoro non è rappresentato solamente dalle opere, ma anche dal processo che ha portato alla loro costruzione, un processo che ha rimesso in circolo le conoscenze e le pratiche legate alla tradizione della valle con nuove prospettive e nuove consapevolezze.
Il contenuto si basa su una serie di parole che sono intraducibili dalla loro lingua originaria, tra le infinite possibilità su quali si è concentrato e perché?
Le parole su cui mi sono concentrato sono nove e parlano del rapporto tra gli esseri umani e del loro rapporto con la natura e sono:
Anshim (coreano), avere l’anima in pace. Sentirsi in armonia con sé stessi e con il mondo. La sensazione che si prova quando si raggiunge un certo tipo di consapevolezza, quando si sa riconoscere e accettare le proprie emozioni, qualunque esse siano, qualunque stimolo le abbia scatenate.
Balikwas (Tagalog, Filippine), abbandonare la propria zona di comfort, dubitare delle certezze, cambiare il proprio punto di vista, vedere le cose in modo diverso e nuovo, così si possono raggiungere risultati sorprendenti.
Dadirri (Ngangiwumirr, lingua aborigena, Australia), è la quieta contemplazione e l’ascolto profondo della natura e del creato, la pace con sé stessi e con le altre creature. Nella piena coscienza della bellezza che ci circonda, in armonia con i ritmi della giornata, della natura. In sintonia con l’attimo.
Friluftsliv (Norvegese), è un’esperienza di vera connessione con l’ambiente, grazie alla quale una persona si sente a casa quando è in mezzo alla natura selvatica, anche in luoghi in cui non è mai stata. È il ritorno al legame biologico originario tra l’uomo e l’ambiente tramite la risintonizzazione con i ritmi naturali, una visione del mondo non antropocentrica.
Gurfa (Arabo), in arabo si chiama gurfa la quantità d’acqua che si può tenere nel palmo di una mano. È una sorta di unità di misura metaforica che indica qualcosa di molto prezioso che è necessario proteggere e conservare.
Ohana (Hawai), significa famiglia, famiglia significa che nessuno viene abbandonato o dimenticato, ma per famiglia non si fa riferimento solamente ad un legame di sangue ma anche ai rapporti di amicizia.
Orenda (Urone, Wyandot popolazioni indigene nordamericane), è la capacità della volontà umana di cambiare il mondo anche contro un destino avverso, ma è anche una benedizione: permette a chi ne è dotato di sfidare gli eventi avversi e superarli.
Sisu (finlandese), è una sorta di coraggio quotidiano, di grinta, di determinazione che aiuta ad affrontare le sfide, piccole o grandi, che la vita ci pone. Non è la ricerca della felicità che è un momento effimero, ma la ricerca del benessere.
Ubuntu (Nguni Bantu, lingua dell’africa meridionale), è un’espressione che indica “benevolenza verso il prossimo”, una regola di vita, basata sul rispetto dell’altro, significa sentirsi parte di una grande comunità. Sono chi sono in virtù di ciò che tutti siamo. Essenzialmente significa: io posso essere io solo attraverso voi e con voi.
Tutte queste parole arrivano da lingue minoritarie e poco frequentate o da lingue a rischio estinzione, così come poco utilizzate e alcune a rischio scomparsa, sono le pratiche artigianali che sono state utilizzate per la realizzazione dell’opera. Mettere in relazione queste due condizioni vuole far emergere la consapevolezza della territorialità e della biodiversità come beni preziosi contro la perdita e l’omologazione.
Come possono rendersi “leggibili” attraverso lo status concreto dell’opera “scultorea”?
Per rispondere a questa domanda vorrei mettere in gioco un’altra parola: biodiversità.
Il luogo dove La ragione nelle mani ha preso forma è un territorio montano, decentrato, una valle Alpina, dove la natura ha un forte impatto sui ritmi della quotidianità e dove le varie comunità hanno ancora la capacità di riconoscersi attraverso un’identità territoriale. In un territorio come quello della Valcamonica, la biodiversità appartiene alla natura, come lo dimostra il fatto che è considerato uno tra i territori europei con la più alta biodiversità vegetale, ma passa soprattutto attraverso i saperi che sa esprimere, saperi che sono a rischio perché non più in grado di reggere il confronto con una contemporaneità che tende sempre più verso l’omologazione. Nelle parole intraducibili che ho utilizzato, la biodiversità, che in questo caso è linguistica, è a rischio. Se spariscono le parole, si perdono i saperi. Allora, la biodiversità in questo caso diventa il “luogo” dove trovare nuove relazioni, nuove alleanze per preservare quella “complessità” di cui abbiamo bisogno per salvaguardare il futuro delle generazioni che verranno. Tutto ciò insieme alla fisicità stessa delle parole, delle sculture, credo renda leggibile un’opera, che vuole mettere in evidenza l’importanza della biodiversità e lo fa attraverso la pratica artistica.
Ha fatto ricorso a materiali diversi e tecniche artigiane altrettanto diverse, come le ha legate alle diverse parole. Ci sono nessi di reciprocità?
No non ci sono nessi di reciprocità, l’unica scelta è stata dettata dalle caratteristiche tecniche delle quattro pratiche artigianali.
Il linguaggio, secondo la sua osservazione, è un bene comune, eppure potrebbe, nelle riserve delle diverse interpretazioni o nella sua intraducibilità, rimanere elemento divisivo: in che modo l’artista può salvaguardare le identità pur avvicinando esperienze, tradizioni e culture tanto differenti?
È vero che le lingue possono essere un elemento divisivo quando non riusciamo a comprenderle, ma è anche vero che le differenze sono una ricchezza, ed è in questo senso che parlo del linguaggio come di un bene comune da proteggere.
Forse oggi l’obbiettivo che dobbiamo porci non deve essere quello della salvaguardia delle identità che la storia ci ha consegnato, ma a partire da quelle dobbiamo trovare il modo di costruirne di nuove. Avvicinare esperienze tradizioni e culture differenti, ci dà la possibilità di farlo e questa è una delle questioni che ho affrontato con La ragione nelle mani, ed è il modo che, come artista, ho scelto di utilizzare per parlare di identità.
Importante per lei è anche la salvaguardia del sapere artigiano come patrimonio umano, come reagiscono a livello locale le comunità che incontra e con cui collabora? Nello specifico questa della Valle Camonica? Si sta aprendo anche un nuovo centro, Ca’Mon…
Proprio Ca’Mon, con la sua specificità, rappresenta bene la volontà di una valle che attraverso i suoi organi costituiti, ma soprattutto attraverso la sua comunità, ha fatto sì che nascesse questo centro per l’arte e l’artigianato della montagna, che avrà sede nel vecchio asilo in fase di ristrutturazione a Monno, un piccolo paese dell’alta valle che conta circa cinquecento abitanti.
Fondamentale per la nascita di questo centro è stato il lavoro che Aperto art on the border ha portato avanti negli anni; un lavoro che rispetto al territorio, nelle ultime edizioni, ha focalizzato l’attenzione sui saperi artigiani, ma fondamentale è stato anche il supporto delle istituzioni che hanno creduto in questo progetto: Comunità Montana, Comune di Monno, Cooperativa Sociale il Cardo e Fondazione Cariplo che lo ha anche sostenuto.
Ca’Mon, di cui mi è stata affidata la direzione artistica, diventerà un centro di scambio tra saperi intellettuali e saperi manuali: ospiteremo in residenza artisti e più in generale autori e ricercatori, per attivare un confronto con il territorio e i suoi saperi. Ma non sarà solo questo, il centro diventerà anche un luogo dove la comunità potrà riconoscersi e dove sarà possibile riportare alla luce tutti i temi legati al passato, utili alla costruzione del futuro e momentaneamente messi in disparte, che potranno trovare le condizioni per rigenerarsi e assumere nuove forme: un laboratorio permanente di sperimentazione e di ricerca che, a partire da una condizione locale, vuole contrapporre la cultura della diversità e della biodiversità all’omologazione cui tende la società contemporanea.
Ca’Mon sarà anche un luogo di formazione, dotato di spazi adibiti a laboratorio dove lavoreranno artigiani, artisti e giovani della valle. L’obiettivo è quello della trasmissione dei saperi, secondo una logica di condivisione per cui le tradizioni non assumono un senso nostalgico, ma diventano la porta di accesso al futuro, un “luogo” di sperimentazione per immaginare nuovi scenari.
La sua è di fatto una vera e propria missione antropologica, che oltrepassa il confine della ricerca artistica: è dovere dell’arte contemporanea allargare il suo sguardo secondo le urgenze del proprio tempo e correlarsi ad altri ambiti di ricerca?
È difficile per me definire i confini della ricerca artistica e non penso che l’arte abbia dei doveri prestabiliti, credo che ogni artista debba muoversi all’interno del sistema dell’arte nel modo che crede più opportuno, questo garantisce quella pluralità che è fondamentale in qualsiasi ambito di ricerca. Posso quindi rispondere alla sua domanda solamente a partire dalla mia esperienza, dal mio pensiero a riguardo, che non vuole certamente essere un pensiero assoluto.
Fin dalle prime opere e installazioni ambientali, il rapporto con lo spazio è stato l’elemento caratterizzante del mio lavoro, se all’inizio si è sviluppato nelle relazioni con l’architettura e la natura, successivamente si è trasformato attraverso un insieme più complesso di fattori, sociali e antropologici, che hanno messo al centro della ricerca l’individuo e le comunità. Da oltre dieci anni la parola è diventata protagonista del mio lavoro e l’opera si pone come momento di riflessione collettiva per ridare peso specifico al linguaggio, che diventa, per me, il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore del ‘comune’.
È chiaro che la relazione con il mio tempo, con le urgenze del mio tempo, sono state fin qui il motore del mio lavoro, lavoro che nasce sempre dal “desiderio” e questo mi ha portato ad attraversare altri ambiti della ricerca, mi ha fatto muovere trasversalmente rispetto alle professioni, ma sempre con la consapevolezza che il mio ambito di riferimento è quello dell’arte. Non ho mai pensato di sostituirmi ad altre figure professionali, ma spesso mi sono trovato a lavorare con loro.
Non so se la mia sia una vera e propria missione antropologica, come la definisce lei, mi guardo intorno a metto in evidenza e mi occupo delle questioni che mi sembrano importanti e lo faccio attraverso la pratica artistica.
Quali saranno i prossimi progetti?
Intanto devo portare a termine una serie di attività legate a questo progetto, presenteremo questa esperienza e il libro che la racconta in vari luoghi: Art House (Scutari, Albania), Sandefjord Kunstforening (Sandefjord, Norvegia), Fondazione Pistoletto Onlus, Accademia Belle Arti Bologna, MA*GA – Museo Arte Gallarate, contemporaneamente sto lavorando alla programmazione di Ca’mon e a due interventi pubblici che sto definendo in questi giorni. Poi vediamo cosa ci permetterà di fare questa pandemia.
La ragione nelle mani. Una mostra di Stefano Boccalini
a cura di Adelina von Fürstenberg
progetto del Distretto Culturale della Comunità Montana di Valle Camonica
vincitore dell’ottava edizione del bando Italian Council, programma a supporto dell’arte contemporanea italiana nel mondo promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea dell’allora MiBACT, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo
realizzata in collaborazione con Art for the World Europa
catalogo italiano-inglese Archive Books, Berlino
1 aprile – 27 giugno 2021
Musée Maison Tavel-Musée d’Art et d’Histoire
Rue du Puits-Saint-Pierre 6, Ginevra (Svizzera)
Orari: tutti i giorni 11.00-18.00; chiuso il lunedì
Info: +41 22 4183700
mah@ville-ge.ch
www.institutions.ville-geneve.ch
www.stefanoboccalini.it