Intervista a MICHELE GIANGRANDE di Francesca Di Giorgio
The Hyperzoo. La dimensione futuristica preannunciata dal titolo e dall’animazione grafica di apertura e di chiusura al film sono in apparente contrasto con la documentazione di una performance realmente accaduta in un tempo (il 2019) e in uno spazio (il MACRO) precisi e che ha coinvolto diverse persone a partecipare ad un’azione senza una regia, in senso classico.
Ora che The Hyperzoo di Michele Giangrande è entrato in un circuito di festival, nomination e premi cinematografici internazionali, abbiamo parlato con l’artista, scrittore, designer e docente all’Accademia di Belle Arti di Bari, per scoprire, alle sue spalle, il grande lavoro di squadra di un'”opera prima” ibrida totalmente dentro e, allo stesso tempo, fuori dal nostro tempo…
Dall’invito di Giorgio De Finis al MACRO Asilo, alla performance fino ad arrivare al film. Le fasi di realizzazione di The Hyperzoo sono da raccontare…
Tutto è nato, appunto, dopo aver ricevuto l’invito dell’allora direttore del ribattezzato MACRO Asilo, Giorgio De Finis, a partecipare a quelle esperienze espositive denominate Atelier.
Lo spirito e la volontà della proposta erano quelle di “trasferire”, per una settimana, lo studio dell’artista all’interno di camere di vetro con l’obiettivo di condividere l’intimità del proprio laboratorio e il conseguente processo creativo con la dimensione pubblica del museo.
La pratica degli Atelier, dal mio punto di vista, anche se sono assolutamente certo non fosse questo lo scopo, metteva l’uomo/artista “sotto osservazione” e mi ricordava un po’ ciò che avveniva con gli zoo umani, chiamati anche esposizioni etnologiche. Queste pratiche pubbliche del XIX e XX secolo, in cui si mettevano in mostra esseri umani “esposti” solitamente in un cosiddetto stato naturale o primitivo, furono molto criticate in quanto altamente degradanti e razziste. In sostanza, le pareti di vetro che delimitavano la stanza illusoria, in cui avrebbe dovuto operare l’artista, apparivano ai miei occhi come dei limiti invisibili e deboli che avrebbero ceduto agli sguardi insistenti e voraci degli spettatori desiderosi di “entrare” in quella dimensione, non solo in senso fisico o visivo, ma soprattutto sociale, psicologico, emotivo.
Viviamo in una società in cui siamo costantemente sotto osservazione e giudizio, alla mercé del popolo della rete e tutto questo, paradossalmente, spesso per nostra scelta. Nessuno ci obbliga, al contrario, siamo noi a scegliere di “condividere” e far sapere a tutti ciò che mangiamo, ciò che beviamo, ciò che viviamo, ciò che amiamo.
Alla lunga però, inseguendo incessantemente il mito della perfezione a portata di click, non si capisce più qual è la realtà e sempre più spesso si confonde la vita reale con la rispettiva proiezione digitale.
Assistiamo, quindi, ad un continuo e inesorabile flusso d’informazioni private che diventano pubbliche e che si perdono nell’oceano delle informazioni online, ma che comunque sono sempre lì, a disposizione di tutti, ogni giorno e in ogni momento.
Certo, gli aspetti non sono tutti così negativi o drammatici, anzi, ma cosa avverrebbe se anche la realtà si conformasse a questi dettami e non vivessimo più in real time? Se oltre alla vita virtuale, sempre più importante di quella reale, anche la realtà vera fosse sottoposta a certi meccanismi di “condivisione a tutti i costi” e “osservazione ossessivo compulsiva”?
Esattamente come avviene per la “vita” sui social network in cui un sottile strato di vetro, un monitor, diventa finestra verso il mondo privato degli altri utenti e, allo stesso tempo, ci separa da loro facendoci sentire stranamente al sicuro, anche in questo caso, quello degli Atelier, saremmo stati spettatori della riservatezza dell’artista nel suo atto più intimo e personale, quello della creazione.
Il risultato inevitabilmente sarebbe stato quello di spiare, dall’alto della propria posizione sicura e protetta, un “ex animale feroce” ormai ridotto in cattività. Scrutare in una teca espositiva gigante che mostra, come in un moderno freak show, il fenomeno da baraccone di turno. Non potevo non accogliere questa immagine che ormai aveva preso il sopravvento sulla mia “visione”.
Fasi, dicevamo, ma anche visioni e connessioni a tuoi lavori precedenti…
In quel periodo leggevo più del solito di antropologia, paleontologia, archeoastronomia, meccanica quantistica e, soprattutto, stavo approfondendo i testi dell’etologo e zoologo Desmond John Morris, autore di libri sulla sociobiologia umana come, solo per citarne alcuni: Biologia dell’arte: studio sul comportamento artistico delle scimmie nei suoi rapporti con l’arte umana (The biology of art, 1963), La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo (The naked ape: a zoologist’s study of the human animal, 1967), Lo zoo umano (The human zoo, 1969), L’animale uomo (The human animal, 1994), La scimmia artistica (The artistic ape, 2014).
Contestualmente intervenne la mia passione per il cinema appena vidi le immagini delle camere di vetro in oggetto. Fui immediatamente travolto come da uno tsunami dal ritorno alla memoria della claustrofobica e paranoica trilogia filmica, capolavoro senza precedenti, che comprende in ordine i film: Cube (Il cubo, 1997) di Vincenzo Natali, regista statunitense di origine italiana, il sequel Cube 2 – Hypercube del 2002 diretto dal polacco Andrzej Sekuła e il prequel dal titolo Cube Zero (2004) diretto dallo statunitense Ernie Barbarash.
Tutto cominciava a coincidere, combinarsi e mi parlava. Decisi quindi di ribaltare i ruoli e l’obiettivo degli Atelier.
Dopo Bunker (la terra), l’opprimente isolamento nella stanza di vetro riportava a un forte senso di asfissia, di claustrofobia (io ne soffro) e immediatamente capii che fosse giunto il momento per mettere in atto il secondo capitolo della Tetralogia degli elementi, a cui da tempo stavo (e sto) lavorando, dedicato all’aria.
Scelta che, allargando il ventaglio di interpretazioni e considerando la condizione mondiale in termini di inquinamento, apparve più che mai appropriata e attuale.
Non avrei mai immaginato quanto ancor più calzante sarebbe risultata, di lì a sei mesi, quando un virus si sarebbe propagato su scala mondiale, usando come canale preferenziale, proprio la via aerea.
E, conseguentemente, quanto avremmo desiderato di tornare a stare all’aria aperta e quanto il nostro pianeta si sarebbe disintossicato e quella stessa aria ripulita in conseguenza alle varie restrizioni che sarebbero succedute.
Rispetto ai morti per Coronavirus registrati in Cina, per esempio, nel primo periodo di quarantena, sono corrisposte molte più morti scongiurate grazie all’inquinamento diminuito drasticamente.
Teorizzato l’impegnativo progetto, passai quindi alla fase progettuale subito dopo aver sottoposto l’idea a Giorgio De Finis, il quale accolse immediatamente la proposta con grande entusiasmo e mi mise sin da subito nelle condizioni di lavorarci offrendomi massimo supporto, aprendo le porte del museo per sopralluoghi, misurazioni, recupero documentazione e quant’altro fosse necessario.
Iniziò così a prendere forma dentro di me l’idea di un’operazione “totale” che avrebbe ambiziosamente contenuto in sé quante più forme d’arte possibili viaggiando in varie dimensioni spazio temporali.
Tenendo quindi ben presenti i concetti a cavallo tra società moderna e la “direzione” che sta inevitabilmente prendendo, voyeurismo bulimico e ruolo dell’artista/uomo in un momento socio-politico-economico in forte crisi, decisi di rappresentare la mia personale versione di tutela della privacy, intimità e “bisogno d’aria”, facendolo senza porre muri tra me e lo spettatore che, anzi, fu invitato a interagire con lo spazio in maniera totalmente libera, senza limiti o condizionamenti e collaborando così alla nascita dell’opera: un’operazione metamorfica, esperienziale, multisensoriale, installativa, accessibile, performativa, collettiva, partecipativa, inclusiva e processuale, dove la relazione, quella vera face to face senza book, diviene il nocciolo principale della questione social-e generando una sorta di nuova mappa verbale, un codice, un vocabolario frutto della scelta, cooperazione collettiva e condivisione, quella vera, che non ha bisogno di like. Invertire il senso dell’Atelier, invitando il pubblico uno per volta a prendere il mio posto nella stanza/gabbia, dopo una fase di personale isolamento volontario, in quella nuova ed estraniante dimensione, avrebbe messo il fruitore nelle condizioni di entrare in contatto con sé stesso e attivamente con tutta l’operazione. In questa particolare condizione di intimità e libertà totali, ma anche di reclusione per certi versi, avrebbe vissuto l’esperienza così come avrebbe voluto. Senza paura di essere osservato o giudicato si sarebbe manifestata l’autenticità.
Un concetto quanto mai banale se vogliamo, ma assolutamente reale, vero, credibile, quindi necessario. Questo almeno quello che avrei voluto accadesse. In realtà avvenne molto di più.
L’inaspettato, l’imprevedibile e la meraviglia presero il posto di qualsiasi idea precostituita e preconfezionata.
Avevo 18 anni quando andai a vedere Cube all’Armenise, vecchio e purtroppo non più esistente cinema del quartiere barese in cui sono nato. Ne rimasi letteralmente folgorato. Chi lo avrebbe mai detto che 22 anni dopo quelle memorie avrebbero ispirato e contribuito, come solide fondamenta, alla costruzione concettuale di un mio lavoro. Lo stesso poster/locandina e il titolo del mio film omaggiano i film sopracitati.
Avevo l’occasione di avere a disposizione per 7 giorni il palcoscenico ideale per attivare un’operazione che andasse molto aldilà della semplice esposizione e condivisione dell’atto creativo. Non potevo farmela sfuggire.
A quei 7 giorni, come da biblica memoria, affidai quindi la creazione di un mondo che decisi di chiamare The Hyperzoo.
A dispetto del cubo trasparente, in cui sembra contenuta una visione intera, i pensieri su The Hyperzoo straripano e seguono quel multistrato di cui è composto il film. Ci sono vari punti di vista e livelli di lettura perché parliamo di un lavoro che non è né performance, né video, né arte partecipata tout court ma tutto questo, allo stesso tempo. Era già un film nella tua testa prima di diventarlo?
The Hyperzoo era già tutto questo sin dall’origine, senza distinzioni o classificazioni. Il film è solo una delle molteplici visioni di una stessa, unica e polifasica operazione. Parliamo di un “organismo” mutante e polimorfo, che si offre e manifesta in più configurazioni e contenuti rispetto a chi si trova al suo cospetto e asseconda del momento e del luogo in cui lo si incontra.
Tutti gli stadi della sua metamorfosi sono stati previsti e debitamente organizzati e progettati nei minimi dettagli ovviamente, ma lasciando il giusto spazio alla casualità e all’imprevedibilità, come ad esempio la preveggenza rispetto agli avvenimenti futuri o le “conseguenze” che avrebbe avuto impattando sul pubblico.
Quelle non potevano e non volevano essere previste e sono, di fatto, l’anima del progetto.
Ad un certo punto della visione, quando sulla “scena” si avvicendano le azioni delle persone che hanno partecipato alla tua performance, la telecamera indugia su un pennarello rosso tra le mani di una donna. Un particolare non trascurabile dato che, a seguire, l’intervento sulle pareti diventa una prassi. L’immagine più vicina è quella della grotta e delle prime opere d’arte parietale realizzate dall’uomo.
Il video si apre proprio con una citazione dell’etologo e zoologo Desmond John Morris: “The city is not a concrete jungle. It is a human zoo”, frase che catapulta immediatamente lo spettatore in un contesto dalla duplice lettura, tra protagonismo e umiliazione. Infatti, vivere sotto la pressione del quotidiano spesso ci fa paragonare la nostra condizione cittadina ad una giungla di cemento. In realtà gli animali, in condizioni normali, ovvero nel loro habitat naturale, non si comportano come noi umani. Pensateci bene, nessun animale soffre di obesità, nevrosi o si fa venire l’ulcera allo stomaco ad esempio. Sono gli animali in cattività, invece, che presentano quelle “anomalie” manifestate anche dall’uomo. Quindi, seguendo la lezione del sopra citato zoologo, il confronto da fare non è con l’animale selvaggio, ma semmai con l’animale prigioniero, il che ci porta a definire le città in cui viviamo, più che una giungla di cemento, uno zoo umano.
Nel mio film, la camera da presa mostra l’artista concentrato ad interpretare molteplici versioni dell’animale umano, intento a esibirsi altezzoso e vigoroso, ma che quando riconquista l’intimità rivela essere un’entità prigioniera, impaurita, ferita e insicura, relegata in un angolo della stanza causa della sua segregazione. Esattamente come avviene per gli animali confinati e reclusi. Oppure, lo vediamo come uno ieratico sciamano, un profeta ascetico intento nel coreografare movimenti riferibili a varie culture e molteplici interpretazioni alternati a posizioni primitive, ancestrali o divinatorie.
La stessa scena, ad esempio, in cui decine di proiezioni della mia figura si susseguono in un moto circolare, come in un rituale tribale o arcaico o ancora riferibile al moto dei corpi celesti, potrebbe rimandare contemporaneamente, solo per citare alcune interpretazioni, anche alla circumambulazione, pratica religiosa diffusa nel Buddhismo, nell’Induismo e nell’Islam (e in passato praticata anche in talune cerimonie religiose precristiane) dove, in quest’ultimo caso forse più popolare, i fedeli camminano intorno alla pietra nera incastonata nella Ka‘ba della Mecca (ma in senso orario questa volta), o ancora al fare stereotipato dei detenuti durante la così detta “ora d’aria”, al girare in tondo ossessivo degli animali prigionieri da lungo tempo in gabbia, al girotondo dei bambini, ai nostri molteplici “profili” digitali.
Nella fase centrale del film, invece, prima che si lasci spazio nuovamente all’artista solitario che avvia la storia alla sua conclusione (?), vediamo apparire il pubblico invitato ad interagire con e sullo spazio come in una sorta di inatteso percorso iniziatico.
Non potevo prevedere che uno spettatore avesse con sé alcuni pennarelli rossi e che, dopo averli utilizzati, li avrebbe lasciati lì a disposizione di tutti coloro che gli sarebbero succeduti.
In questo modo, in maniera inconsapevole (o forse no, chi lo sa?), questo “paziente zero” di cui non conosco l’identità perché facente parte di quella fetta di pubblico che non mi autorizzò alle riprese, scatenò un effetto a catena che ha portato a quello che poi vediamo succedere nel film. Una sorta di contagio creativo.
In quei momenti nessuno poteva sapere chi, se, cosa e dove qualcuno avesse lasciato un segno prima dell’arrivo del proprio turno e così via. Solo il film lo avrebbe svelato a posteriori per quelle parti in cui mi era stato possibile documentare.
Di quali segni stiamo parlando?
Simboli religiosi e non, riferimenti a miti o credenze, messaggi più o meno espliciti, icone anarchiche, decorazioni, riproduzioni, evidenziazioni di particolari parole scovate negli articoli e tantissimo altro. Addirittura testi o disegni iniziati da qualcuno, continuati da altri e terminati da altri ancora, come in un gioco surrealista, ma totalmente anonimo per i partecipanti all’esperienza poiché a questo “cadavre exquis” si poteva partecipare esclusivamente da soli rispettando il proprio turno d’ingresso (salvo in due casi particolari in cui entrarono due piccolissime bimbe gemelle e una mamma che accompagnava suo figlio con bisogni speciali).
Riesci a dare una lettura a tutto questo?
Un mio amico regista, dopo aver visto il film in anteprima, mi ha regalato questa meravigliosa lettura: “Un labirinto di Cnosso composto di una sola stanza, dove non ci si può perdere, ma tuttalpiù ritrovarsi. Dove la confusione non è data da intricati corridoi, ma da pagine di informazioni e deformazioni che avvolgono e imprigionano chi vi entra. Come un moderno Dedalo, tu lo disegni e componi. E come un temibile Minosse inviti gli altri ad accedervi per sacrificare una parte di sé, rivelando i propri Minotauri interiori, ma anche i tanti Teseo speranzosi e tremanti. Rosso è il pennarello che affidi loro, come il filo d’Arianna per trovare la via d’uscita. Il percorso a ritroso verso la liberazione non è però tracciato. Ognuno deve disegnarlo da solo”. Semplicemente incredibile. Va in scena per magia un ritorno a quella caverna primordiale, a un tempo in cui lasciavamo i primi segni graffiandone le pareti rocciose o segnandole grazie ai colori ricavati da pigmenti di origine minerale, vegetale o organica.
Lo stesso colore rosso del pennarello ha contribuito in maniera pazzesca a suggerire questa particolare visione e alla creazione di un’estetica cromatica che in taluni casi ha riportato addirittura iconograficamente scene di caccia, animali, figure geometriche elementari e impronte di mani come quelle presenti nell’iconica Cueva de las manos (Caverna delle mani) situata nella provincia argentina di Santa Cruz, a 163 chilometri a sud della città di Perito Moreno, che appartenevano al popolo indigeno di questa regione (probabilmente progenitori dei Tehuelche), vissuto fra i 9.300 e i 13.000 anni fa.
Per un appassionato e ossessionato come me di arte rupestre e preistorica e che da sempre cerca nell’antico passato e nel primitivo la scintilla basilare da imprigionare nelle proprie opere, non poteva essere regalo migliore. Assistere a tutto ciò è stato a dir poco commovente. Un momento indescrivibile.
Tutto ciò avveniva poi in un silenzio quasi rituale, come fossimo in un luogo sacro e nella totale inconsapevolezza di tutti coloro che all’esterno attendevano il proprio turno al buio, rapiti, quasi ipnotizzati, dal movimento delle ombre che si generavano dall’interno illuminato della stanza.
Come per una basilica romanica dallo stile austero, non casuale per certi versi date le mie origini pugliesi, il tempio di vetro appariva rigoroso e severo all’esterno, babelico e ricco di interconnessioni all’interno.
“Il mondo esteriore soccomberà a quello interiore” è la massima che da sempre ha accompagnato questa avventura..
Chi avrebbe mai immaginato in quel momento che, oltre a tutti i significati attribuibili al colore rosso, se ne sarebbe aggiunto incredibilmente un ennesimo che avrebbe ricondotto al concetto di isolamento, come avveniva nell’hyperzoo, in un imprevedibile tempo futuro questa volta sotto forma di quarantena.
Per questa ragione ho deciso di rendere visibile il film sul mio canale YouTube esclusivamente ogni qualvolta ci ritroviamo in “zona rossa”.
Hai dichiarato che le pagine di giornale con cui, nella prima parte del film, tappezzi le pareti dello spazio sono il ricordo della prima definizione di privacy data da tuo padre quando eri bambino. Ci racconti quell’episodio, come si collega dal passato al presente e che pagine hai scelto per rivestire lo spazio?
L’animale umano non vive più da tempo le condizioni naturali della sua specie. In poche migliaia di anni siamo passati da una condizione tribale durata circa un milione di anni, dove una manciata di uomini condivideva un vasto territorio e ci si conosceva tutti, uno per uno, a una ipertribale dove lo stesso territorio viene invaso da centinaia di migliaia di individui.
Il modello sociale è cambiato da personale a impersonale, da cooperativo a competitivo. La specie umana non è biologicamente attrezzata per far fronte a questo cambiamento.
Tutto ciò fa ben intuire che, con l’avvento dei social e lo sviluppo incessabile della rete e delle tecnologie ad esse correlate, oggi giorno il patrimonio più redditizio, probabilmente ancor prima del petrolio, siamo proprio noi, gli utenti, divenuti la risorsa più pregiata del pianeta.
Siamo passati dallo zoo umano all’hyperzoo appunto. Siamo vittime consapevoli di algoritmi che prevedono con precisione il nostro comportamento costantemente e accuratamente analizzato. I social network, arma di “distrazione” di massa, sono riusciti a sostituire il rapporto a due sensi degli autentici contatti sociali, ma è una trappola. Il primo rischio sociale ovviamente è l’isolamento poiché sempre e solo attenti al nostro “io digitale”, vero e proprio paradosso in un mondo così detto “connesso”. Il secondo è l’estinzione del concetto di privacy: l’apocalisse sociale. Il mio più vecchio ricordo, riconducibile al concetto di intimità e privacy, risale a quando ero bambino e a quando, affacciato al finestrino dell’alfa sud rossa di mio padre, mentre le luci delle strade si alternavano ai vicoli bui del quartiere in cui sono nato, capitava di incontrare file di auto parcheggiate in zone volutamente isolate. Con i vetri inspiegabilmente, almeno per un bambino come me, completamente ricoperti di fogli di quotidiani, queste auto mi apparivano al quanto bizzarre e logicamente chiedevo: “Papà, perché quelle macchine sono così?”. “Michele, perché le persone che ci stanno dentro non hanno voglia di far vedere i fatti loro agli altri”. Da qui la scelta di rievocare sensazioni di un tempo passato attraverso l’utilizzo di quotidiani raccolti durante la progettazione e successiva realizzazione dell’opera.
Quasi a voler aggiungere e unire i miei ricordi personali alla collettività in un unico flusso emotivo e sensoriale.
Tolti gli autobiografici Odissea Dandy – Michele Giangrande e il suo atelier – il documentario realizzato nel 2015 in collaborazione con Apulia Film Commission e Fondazione Museo Pino Pascali nell’ambito del progetto ArTVision ed inserito poi nel palinsesto del canale televisivo SKY ARTE – e il videoritratto di Alessandro Piva per Bunker, The Hyperzoo è, a tutti gli effetti, la tua prima prova con il mezzo filmico. Qual è stato il tuo rapporto fino ad ora con la settima arte e, soprattutto, come si arriva a creare un risultato professionale del genere? Il tuo film è ormai inserito nell’ampio circuito di festival cinematografici internazionali, e si sta quotidianamente aggiudicando diversi premi…
In realtà, oltre ai citati esempi, ho all’attivo un altro documentario autobiografico diretto da Giovanni Carpanzano nel 2019 (un mese prima di The Hyperzoo) realizzato in occasione della collocazione permanente di una mia opera all’interno del Museo del Parco Archeologico Nazionale di Scolacium, grazie al progetto Ceilings curato da Simona Caramia. L’opera protagonista del filmato, intitolata “Fino a qui tutto bene” (come il documentario), si rivela oggi anch’essa sinistramente profetica vista l’assonanza con l’ormai celebre frase che ha caratterizzato sin da subito l’era Covid: “andrà tutto bene”.
Ho anche avuto il privilegio di vedere inserite molte mie opere all’interno di videoclip musicali di cui, solo per alcuni, ho inoltre curato la direzione artistica come esercizio di stile.
Alcuni miei lavori, insieme a quelli di altri amici e di Pino Pascali (riproduzioni ovviamente), sono anche apparsi nel divertentissimo film “Senza arte né parte” (2011) diretto da Giovanni Albanese nel cui cast troviamo Vincenzo Salemme, Giuseppe Battiston, Hassani Shapi, Donatella Finocchiaro.
A fine 2020 mi sono messo alla prova anche come produttore sostenendo il cortometraggio “Perla”, scritto e diretto dal pluripremiato regista (e amico) Alessandro Porzio.
Tra la primavera e l’estate del 2021, invece, Covid permettendo, si girerà un cortometraggio di cui ho scritto il soggetto. A parte queste esperienze e l’essere un cinefilo DOC, il mio avvicinamento al vero sistema del cinema è in realtà però la diretta conseguenza della professione che esercita la mia compagna di vita Angela Varvara, scenografa e costumista per cinema e teatro, oltre che docente di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Bari, con all’attivo decine e decine di lavori tra lungometraggi, corti, spot, documentari e tanto altro.
Angela infatti è la responsabile del reparto scene e costumi non solo di The Hyperzoo, ma di tutti i lavori filmici in cui sono stato coinvolto direttamente o indirettamente.
La convivenza “ravvicinata” a tale sistema quindi, oltre alle numerose esperienze sopra citate, ha inevitabilmente innescato in me il desiderio di mettermi alla prova con un mezzo che sino ad all’ora non avevo ancora indagato come regista, ma soprattutto ha consentito che entrassi in contatto con numerosi professionisti di settore a livello nazionale e internazionale che avrebbero potuto agevolare questa mia nuova ambizione.
Con il supporto della casa di produzione Clan Sui Generis S.r.l.s. di Roma che ha prodotto The Hyperzoo, ho potuto mettere insieme una vera e propria task force composta da: Giuseppe Nicola Volonnino (Direttore della fotografia), Angela Varvara (Scene e costumi), Stefano Ottomano (Musiche), Filippo Ciriello (Editing video e Visual FX) oltre che a vari insostituibili assistenti.
Grazie al perfetto lavoro di squadra, oggi stiamo assistendo alla nuova fase evolutiva del mio progetto.
Dopo il concepimento e la successiva apparizione avvenuta all’interno del MACRO, è cresciuto e divenuto un film che si sta imponendo sul panorama mondiale grazie a un iter festivaliero incredibile e irrefrenabile.
A renderlo così efficace e universale anche la scelta dell’assenza totale di dialoghi. Un film muto può e sta arrivando, infatti, ovunque perché accessibile a chiunque.
Nonostante l’enorme successo, per certi versi inaspettato poiché primo vero e proprio esperimento di cinema in cui mi sono misurato come regista, la metamorfosi non è però giunta ancora al suo stadio finale.
Il percorso vitale di The Hyperzoo prevede un livello di mutazione ulteriore in cui il progetto diventerà una pubblicazione d’alto profilo editoriale (come fu per Bunker) e successivamente “altro” di cui non posso dare anticipazioni, prima di, come aria appunto, soffiare e alimentare il “fuoco” del terzo capitolo della Tetralogia degli elementi: Volcano.
Dopo tutto quello che ci siamo raccontati fino a qui, è impossibile non pensare al fatto che solo sei mesi dopo la realizzazione del film sarebbe scoppiata una pandemia globale e che l’immagine di quella “grotta” dove l’uomo agli albori della civiltà lasciava il suo segno sarebbe diventata la casa, rifugio/gabbia in cui ad entrare sarebbero state una valanga di notizie inevitabilmente monotematiche corredate da altrettante immagini. Ancora una volta l’arte è profetica non solo sui temi fulcro di un futuro prossimo ma anche sui mezzi per tramandarli. Penso all’immagine che apre e chiude il film: il cubo come viewing room, spazio virtuale che nell’ultimo anno è diventato la “nuova frontiera” dell’arte…
Recentemente ho ricevuto questo messaggio: “Quando partecipai a The Hyperzoo, nel cubo di notizie, chi se lo sarebbe mai aspettato che poi ci saremmo finiti realmente”.
Lo so, appare tutto così assurdo e sinistro anche per me. Eventi, scelte, idee, forme e contenuti preannunciati con così tanto anticipo e che continuano a susseguirsi in una escalation di coincidenze inconcepibili.
Ricordo che, quando ci fu il primo lockdown, circa sei mesi dopo le riprese del film, dissi alla mia compagna, con un brivido che mi percorreva la schiena: “Con The Hyperzoo abbiamo anticipato e documentato l’isolamento e l’alienazione incentivando la relazione quasi come se fosse l’ultima occasione a disposizione dell’umanità”.
Il passato, il presente e il futuro, come in ogni film di fantascienza che si rispetti, si sovrappongono e coesistono in questo progetto senza inizio e senza fine perché inizio e fine coincidono e si annullano in un ciclo infinito da guardare (o vivere) in loop.
Ricordo molto bene quando un visitatore americano, subito dopo aver “provato” l’esperienza al MACRO, mi disse che gli era sembrato di ritrovarsi immerso in un episodio della nota serie tv “Black Mirror”. Cosa che presi come un enorme complimento dopo essermi assicurato che si riferisse esclusivamente alla prima (la migliore secondo me) delle 5 stagioni.
Per chiudere il cerchio e la serie di coincidenze (?), il mio film presto approderà, per una prestigiosa mostra dal titolo Pray for the world, in un avveniristico museo cinese, il Wanlin Art Museum che si trova indovinate un po’ dove? A Wuhan, ovviamente.
The Hyperzoo è un film scritto e diretto da Michele Giangrande e prodotto e distribuito dalla casa di produzione Clan Sui Generis s.r.l.s., Roma. A poche settimane dalla sua uscita, ha già ricevuto numerosi riconoscimenti.
Già finalista nella categoria “Best Quarantine Film” al Frostbite International Indi Fest in Colorado, al Paris Film Festival come “Best Experimental Film” e “Best Production Design”, all’ISAFF International Symbolic Art Film Festival di San Pietroburgo come “Best Symbolic Film”, al Tokyo International Short Film Festival come “Best Experimental Films”, all’Only The Best Film Awards di Miami come “Best Experimental Short” e “Best First-Time Director”, all’Athens International Art Film Festival di Atene come “Best Experimental Film” e “Best Production Design” dove riceve anche una menzione d’onore della categoria “Best Original Script” e “Best Art film”, semi-finalista allo Sweden Film Awards di Stoccolma come “Best Experimental Short Film”, è risultato vincitore in India al Golden Sparrow International Film Festival di Sirkali e al Port Blair International Film Festival di Port Blair nella categoria “Best silent short film”, all’Art Film Awards di Skopje (Macedonia) nella categoria “Best Quarantine Film”, al Cambio International Film Festival di Berlino come “Best First Experiment”, all’Havelock International Film Festival come “Best Experimental Short Film” (Special Jury Award) e “Best Silent Short Film” (Special Jury Award), al Best Documentary Award di Londra come “Best Experimental Documentary”, al Best Director Awards di Londra come “Best First-Time Director (Short)”, all’Istanbul Film Awards come “Best Experimental Short”, al New Jersey Film Awards come “Best Experimental Short”.
Il film è stato inoltre selezionato per concorrere al Best Documentary Award di Londra nella categoria “Best Document about Quarantine COVID”, al Gold Movie Awards di Londra come “Best Experimental Film”, al Cult International Film Festival di Londra come “Best Short Experimental”, all’International Symbolic Art Film Festival di San Pietroburgo come “Best Symbolic Film”, “Best Experimental Film” e “Best First-Time Director”, al Best Director Awards nella categoria “Best Director Short Film”, all’Hollywood Indie Film Awards di Los Angeles come “Best Experimental” e “Best Production Design”, all’Aphrodite Film Awards di New York come “Best Experimental Short Film” e “Best Director – Experimental”, all’Onyko Films Awards di Tallinn (Estonia) come “Best Experimental Short Film”, al Super Indie Film Festival di Los Angeles come “Best Experimental Short” e “Best Production Design”, al Pune Short Film Festival di Maharashtra (India) come “Best Experimental”, al ARTS x SDGS Online Festival di New York nelle categorie “Best Visual Art” e “Best Short Films”.
Info: www.michelegiangrande.com
Link al film: https://www.youtube.com/watch?v=pIus886R7vo&t=2s