MILANO | Caselli Daziari di Porta Venezia | 2-14 aprile 2019
di MATTEO GALBIATI
A Milano non passa di certo inosservato il monumentale intervento del giovane artista ghanese Ibrahim Mahama (1987) che, grazie all’invito di Fondazione Nicola Trussardi e al sostegno del Comune di Milano, in occasione della Milano Art Week 2019 e della Design Week ha “impacchettato” i Caselli Daziari di Porta Venezia coprendoli interamente con i sacchi di juta usati per il trasporto e il commercio su vasta scala di semi di cacao, caffè e cereali.
A Friend – questo il titolo dell’opera temporanea – segue la modalità tipica dell’artista che, avendo già operato in modo simile in diverse occasioni internazionali quali la Biennale di Venezia, Documenta e in diversi contesti urbani di tutto il mondo, ricorre ad un materiale “povero”, di riciclo, per far riflettere universalmente sulle tensioni del sistema economico-sociale globale. I sacchi di juta, infatti, diventano icona di quello stesso sistema che oggi, da più parti, si mette in discussione: prodotti in Asia, distribuiti nei paesi produttori tra Africa e Sud America, usati negli scambi internazionali, riciclati più volte, trovano emblematica nuova vita proprio nell’essere materiale d’elezione di Mahama che, ricucendoli in grandi sudari, li impiega per “cancellare”, sottraendoli alla vista e alla quotidiana (scontata) fruizione, luoghi simbolo dei paesi occidentali.
A Milano ha scelto un luogo importante, dalla forte connotazione simbolica e, quindi, utile per rendere emergente quell’impegno “civile” su cui vuole che la gente rifletta. I Caselli Daziari di Porta Venezia erano (e sono) uno degli ingressi principali della città: posti su crocevia nevralgici, erano ieri, come lo sono oggi, cruciale snodo di accesso e transito. Qui si entrava in città, qui si pagava “dazio”, qui si era controllati, qui oggi ha sede il Museo del Pane (cibo base per l’umanità) e si contaminano i quartieri del centro con quelli delle nuove realtà multi etniche e sociali.
Il passante “distratto” – nel nostro vivere quotidiano diamo sempre per scontato l’ambiente che ci circonda – viene ora obbligatoriamente costretto ad osservarli e, di conseguenza, a interrogarsi tanto sulle modalità e sulle condizioni di questo intervento invasivo, quanto sul senso profondo sotteso a questa operazione. L’artista non cerca il sensazionalismo, o il clamore della polemica (storicamente l’impegno “civile” di occultare per sottolineare risale alle prime opere di Christo negli anni Sessanta, per citarne un nome tra diversi altri e, quindi, nulla di eclatantemente nuovo ci si inventa in questa occasione), ma vuole risultare incisivo su temi di profonda attualità. Passato e presente si caricano di energie fondamentali nella deduzione di un rapporto di ritrovata reciprocità in quel mondo globale dove, il regime economico e politico imperante detta le sue regole soprassedendo spesso ai rapporti umani, ai valori etici e allo scambio multiculturale tra popoli e genti, all’integrazione nel rispetto (e tutela) della diversità.
Mahama utilizza due materie che diventano una sola forma nella sua azione: i sacchi di juta e il monumento che sta nascosto sotto all’imponente sudario marrone, infatti, si uniscono e fondono per definire il profilo di un pensiero che oltrepassa la contingenza e abbraccia un orizzonte di senso ben più ampio. Il suo intervento agisce allora su e con Milano, in linea con i principi di una città accogliente, internazionale, attiva, capace di osare e raccogliere sfide nuove per vincerle e seguire la via di quel cambiamento inarrestabile che, guardando al proprio futuro, può (e deve) essere modello ed esempio per altre realtà.
L’operazione artistica Ibrahim Mahama, e la sua conseguente riflessione, trova l’urgenza drammatica di un pronunciamento che ha forza nella propria voce in virtù della grandezza su cui si applica: coprire edifici “simbolo” diventa necessario alla nobile finalità di sottrarre l’opera ad un’idea e una “dimensione” esclusivamente estetica, e, resa immune da un possibile scambio mercantilistico o di confino in una galleria, si fa fatto di cronaca, si amplifica dentro il pulsare della metropoli. S’impone quale temporaneo intermezzo artistico che, incidendo su scala ambientale, nella sua lettura, trasferisce la profondità delle proprie taciute ragioni dall’assetto urbanistico ad un nuovo e auspicabile sviluppo di ordine etico che entra nella mente, nella riflessione e nell’animo di ciascuno.
Brutale, livido, grezzo, il rivestimento che incombe quasi spettrale contrasta con con la memoria di quello che sta sotto ed è in questo contrasto che si attiva la sottolineatura proposta dall’artista capace di lasciar maturare nella coscienza del singolo lo spunto determinante della reciprocità.
Questo è il dialogo di cui oggi abbiamo quanto mai bisogno e necessità e che, scavalcando le futili polemiche di menti sottili che obiettano sul valore e sull’opportunità di quest’opera rinunciando ad un confronto vero con l’altro, va trasformato in un momento di partecipazione condivisa e, in un certo senso, anche di testimonianza di valore e resistenza per quei fondamentali principi e ideali di diritto e di umanità che per nessuna ragione devono venire meno e che oggi passano, seppur coperti, dai Caselli Daziari di Porta Venezia.
Ibrahim Mahama. A Friend
prodotto da Fondazione Nicola Trussardi
in collaborazione con miart, fiera d’arte moderna e contemporanea di Fiera Milano
con il sostegno di Confcommercio Milano, Spada Partners, Apalazzogallery
sponsor tecnico Belluschi 1911
media coverage Sky Arte HD
si ringrazia Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina
nell’ambito di Milano Art Week 2019 – Comune di Milano
2-14 aprile 2019
Caselli Daziari di Porta Venezia
Piazza Guglielmo Oberdan 4, Milano
Visibile 24 ore su 24
Info: Fondazione Nicola Trussardi
+39 02 8068821
info@fondazionenicolatrussardi.com
www.fondazionenicolatrussardi.com