ROMA | GALLERIA RICHTER FINE ART | 20 SETTEMBRE – 31 OTTOBRE 2022
di MARIA VITTORIA PINOTTI
Nei giudizi inappellabili, dettati con tono limpido, scapestrato e sfacciato v’è sempre un fascino, così l’intellettuale Susan Sontag esprimeva una simile valutazione sostenendo come «anziché di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di una erotica dell’arte»[1]. Invero, in questa esortazione alla critica, a voler cambiare il passo per rivelare la superfice sensuale dell’arte, senza mai adulterarla e svilirla con eccessivi spunti contenutistici, si cela anche un invito rivolto all’artista, la cui pratica dovrebbe funzionare come una terapia dinamica-erotica. Pertanto, sono pochi coloro che sanno interpretare tale sfida come un atto di libertà verso gli ardori, l’indifferenza e la superficialità estetica, per sviscerare, invece, l’interiorità umana. L’artista Silvia Argiolas (Cagliari, 1977) risponde a questo desiderio esponendo alla mostra Song of Myself – allestita presso la Galleria Richter Fine Art di Roma ed in programmazione fino al 31 ottobre 2022 – un gruppo di lavori inediti caratterizzati tutti da una inconsueta vitalità erotica.
Alla Richter Fine Art la retrospettiva risulta allestita con un’accurata prudenza selettiva, dimodoché gli spazi della galleria sono inquadrati e mai soffocati, ed i lavori su carta e tela si relazionano vicendevolmente in una simbiotica fluida sensibilità. Eppure, l’esposizione presenta un limite: in questa alternanza si è sfiorati dalla brama di voler vedere ulteriori disegni su carta, proprio perché, essendo esposti con una tale meravigliosa avarizia, si è sospinti a desiderare di assaporarne visivamente degli altri. Questo anelito è alimentato anche dalla raffinata pubblicazione il Quaderno, editata in 250 copie con i disegni dell’Argiolas e degli artisti Giulio Catelli e Luca Grechi, i cui tratti di questi ultimi, svincolati e privi di costrizioni, si aprono come brevi parantesi verso risibili, ma animose, rivelazioni interiori.
Dal momento che per l’Argiolas la bellezza è esuberanza, la mostra intende rilevare una pittura che trasgredisce le classiche regole tecniche. Così, osservando le opere si assiste alla perdita del controllo espressivo, i colori sono spezzoni privi di rigidità, con consistenze calcinati e frananti, ed anche se vogliono condurci entro l’ordine di uno schema formale, si librano nella libertà compositiva. Inoltre, seppur il tema cardine della mostra è desunto dalla poesia Song of Myself di Walt Whitman, tanto da essere spunto per una riflessione verso sé stessi, pare in realtà che nell’insieme pittorico venga dato rilievo all’identità altrui in relazione ad altri. In particolare, si conferiscono delle fattezze straordinarie a ciò che invece è semplicemente ordinario e proprio in questo delicato passaggio l’erotica è chiamata a stimolare la fantasia dell’artista in quanto «senza Eros il pensiero perde ogni vivezza, ogni inquietudine, e diventa ripetitivo e reattivo»[2].
Altro carattere saliente della pittura dell’Argiolas è la sua coerenza nel voler rimanere conforme alle sue scelte, e così, anche sei i personaggi raffigurati differiscono, l’artista seguita curiosamente a tracciare la fisionomia di donne con il naso aquilino, dalle fattezze floride, con gli occhi a mandorla e pur sempre abbigliate succintamente. Inoltre, colpisce la difformità che la stessa pratica nell’uso della tavolozza, caratterizzata dalla prodigiosa variazione irreale del colore amaranto che in alcuni casi viene accompagnato all’uso dello stencil e pennellate dalle forme uncinate. Un subbuglio pittorico, in altri termini, da intendere come un atto di volizione di una pratica combinatoria e perturbante, cifra inequivocabile di un animo che «sollecitato eroticamente realizza cose belle»[3]. In questo modo, l’eros vincola il corpo delle protagoniste dispiegando una fisica sessualizzata dal carattere limpidamente capriccioso ed equivoco, una scelta quest’ultima, che conduce l’artista verso una erotica in atto, che gioca lietamente con la natura animale e vegetale. In questa messa in scena, l’Argiolas dà vita ad un minuzioso resoconto quotidiano in cui serpenti, scrofe e bizzarri quanto succulenti cocomeri si trovano a convivere con le protagoniste, sino prendere il posto dei loro organi sessuali, facendo emergere un campionario di affetti femminili formalmente accattivanti. È evidente che contro la tirannia dei soggetti perbenisti, l’elemento Erotico dell’Argiolas è talmente tanto asperso e rudimentale da risultare fiammante. Eppure, va chiarito che l’interesse primario dell’artista è rivolto verso le forme, in particolare, nel caso degli occhi delle protagoniste – che, come si è detto prima hanno sempre una sagoma oblunga – ora si presentano alternativamente aperti, dischiusi se non anche chiusi. L’effetto di questa narrazione è quello di indirizzare l’attenzione verso la percezione oculare, quasi ad intendere che la chiusura della vista è una scelta radicale, avversa contro l’iperattività dell’odierna società, rimanendo nondimeno «un segnale visivo, un’esperienza delle soglie che stimola la fantasia»[4].
L’estro dell’Argiolas si rivela appieno, come uno straordinario dono Erotico, nei sorprendenti disegni su carta, tutti caratterizzati da disturbanti interferenze ottiche. Un’arte microemotiva portata in alcuni casi all’esasperazione figurativa, al punto tale da delineare l’unione di sagome dissociate che tumultuosamente si proiettano in incongrue sovrapposizioni. Tuttavia, rimane costantemente presente il medesimo profilo femmineo, smanioso di condividere la propria emotività e le cui colorazioni questa volta sono tutte giocate sulle tonalità scure, il nero dalla consistenza cipriata si alterna al pastello e all’incerta punta secca della matita. Osservando questi disegni si rimane sedotti proprio per la loro miscela di granitico realismo, alcune volte tragicomico, che svela «un’artista folle per il suo coraggio a superare l’anima sino a porsi al di qua di ogni atto»[5]. In questo modo le donne dell’Argiolas vivono un erotismo sacro, le loro azioni non sono affatto chiare e tenui, al contrario si sovrappongono e non collimano, tanto da delineare una volontà verso l’altro di possesso e penetrazione, impressioni tutte venate da una tenera gioia in una realtà soffusamente brutale.
Tutto ciò lascia intendere che Song of Myself rappresenti, indubbiamente ed in modo esemplare, un linguaggio artistico caratterizzato da una poetica imprevedibile ed inconsapevole, ponendosi come un invito a traguardare il mondo attraverso un filtro erotico e non ermeneutico, tipico un’artista che si potrebbe considerare come un errore nel sistema, proprio per la genialità ad esprimere la sensualità, il desiderio d’oblio e l’immobilità voluttuosa dell’Eros. Un’arte, in via di chiosa conclusiva, senza sotterfugi, che vuole scrutare i margini libidici, proprio perché pare che l’Argiolas sia fermamente consapevole come «l’attuale crisi dell’arte si può ricondurre alla crisi della fantasia, alla sparizione dell’Altro, ossia l’agonia dell’Eros»[6].
Silvia Argiolas, Song of Myself
20 settembre – 31 ottobre 2022
Galleria Richter Fine Art
Vicolo del Curato 3, Roma
Orari: dal lunedì al venerdì dalle 15.00 alle 19.00, o su appuntamento
Info: www.galleriarichter.com
[1] Susan Sontag, Contro l’interpretazione e altri saggi, Saggi | Figure | Nottetempo, 2022, p. 31
[2] Byung-Chul Han, Eros in agonia, Saggi | Figure | Nottetempo, 2021, p. 87
[3] Byung-Chul Han, Op. cit., p. 73
[4] Byung-Chul Han, Op. cit., p. 71
[5] E.M. Cioran, Finestra sul nulla, a cura di Nicolas Cavaillès, Piccola Biblioteca Adelphi, 2022, p. 71
[6] Byung-Chul Han, Op. cit., p. 72