PIETRASANTA (LU) | Palazzo Panichi | 26 aprile – 1 giugno 2014
intervista a ROBERTO KUSTERLE di Francesca Caputo
Le complesse narrazioni di Roberto Kusterle inscrivono la fotografia in una direzione poetica e sublime, capace di mettere in relazione le parti che compongono l’esistenza. Collegando senza soluzione di continuità, entro la figura umana, altri ordini biologici, diversi ma non in contrasto, dà vita a figure archetipiche di una contemporaneità classica, in cui il tempo sembra essere sospeso. Immagini che condensano idea e sogno, fantasia e realtà, mondo umano ed animale, organico e inorganico, vita e materia, inconscio e ancestralità.
Attraversando la profondità del mistero che origina la vita, coglie il senso di spiritualità che è dentro l’essere umano così come in ciascun elemento della natura.
In occasione della mostra antologica a Palazzo Panichi di Pietrasanta, la conversazione con Roberto Kusterle svela una coerente ricerca artistica incentrata sul senso di ciò che è naturale.
A Pietrasanta è presentato un estratto della tua produzione artistica. Come si è evoluto il tuo mondo espressivo?
I primi lavori hanno determinato lo sviluppo successivo, anche se mancava la continuità che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni.
Giocando sulla commistione degli elementi del mondo naturale, sin dalla prima serie, Riti del Corpo, ho avvicinato la figura umana a quelle animali e vegetali, portatrici di simbologie che richiamano la ritualità arcaica.
Sentivo come necessario rompere i confini che ci separano dall’esterno, creando una mediazione tra noi e ciò che ci circonda. La Terra è l’elemento base. Così come gli animali, siamo nutriti dalla Terra, catalizzatrice fra i vari elementi della composizione.
Con Ana Kronos, ho voluto coinvolgere in questo sentimento di totalità non solo la figura umana ma anche il paesaggio e le forze della natura: aria, acqua, terra e fuoco. Nell’infrangere le barriere tra codici interni ed esterni, individuo un’armonia tra le varie serie.
Anche nei cicli successivi analizzi a fondo l’appartenenza Uomo-Natura, in una dimensione priva di distinzione tra ordini naturali.
In Mutazione silente ho lavorato unicamente con elementi vegetali. Partendo dai frattali, ho costruito delle piante fantastiche che adornano figure a mezzo busto e quasi sempre di profilo, richiamando la pittura del Cinquecento.
Con Segni di Pietra ho affrontato diverse problematiche visive, riappropriandomi della solidità della pietra. Grazie all’uso del digitale, ho potuto per la prima volta ribaltare le proporzioni, innestando corpi umani su pietre ormai consunte dal tempo, per cui il corpo umano dà la sua impronta alla pietra oppure ne riceve i suoi segni.
Nelle tue complesse narrazioni crei una vera e propria messa in scena, racchiudendo elementi di scenografia, teatralità, cura del dettaglio, specie nella serie Mutabiles nymphae.
Mi interessava fare un lavoro ironico. Mi sono ispirato alla storia del ritratto pittorico, quando la nobiltà veniva rappresentata anche attraverso gli oggetti che indossava, per esibire la condizione sociale e ho trasformato questi elementi di ricchezza in elementi poveri. In Mutabiles nymphae, mi sono divertito a costruire abiti di stampo seicentesco con diversi materiali recuperati nei mercatini: pizzi, merletti, stracci vecchi, indossati da figure femminili adornate con elementi marini. Ho convertito la lucentezza dei gioielli con quella emanata dagli animali del mare.
Ci parli del tuo ultimo progetto Abissi e basse maree?
Le immagini sono composte da più figure, anche dello stesso sesso, unite insieme, fuse in abbracci. La componente erotica fa riferimento a una dimensione inconscia e ancestrale.
Sorta di sculture rimaste per una serie infinita di anni sott’acqua, simbolo archetipico di ogni origine, nascita e forma. Custodite dal mare e nutrite dall’acqua formano concrezioni e detriti sui corpi, costituiti da pietra e tratti umani. Rappresentano sentimenti, passioni, desideri, pulsioni dell’umanità.
Poi c’è la serie Segni della metembiosi, proposta ad aprile a Gorizia…
È quella immediatamente precedente, del 2012. Ho composto l’unione uomo, animale e vegetale, riprendendo le somiglianze che ci sono in natura tra legamenti di radici e rami e la nostra articolazione arteriosa, venosa. Così, colonne vertebrali sporgono come rami o vasi sanguigni e sistemi circolatori formano paglia per nidi. Affinità che diventa struttura e trasmissione quasi vitale fra uomo e animale, che convive con il corpo umano riconoscendolo quasi come una parte del suo habitat. In questi innesti c’è la nostra parte di animalità alla quale ci sentiamo più legati e vicini.
Quali sono gli elementi che caratterizzano la tua produzione?
In tutte le immagini non c’è alcun elemento di contemporaneità, tutto è riportato in una situazione senza tempo. Inizialmente le mie fotografie venivano guardate con un certo sospetto, erano ritenute forti. Adesso vedo che anche il lavoro fatto venti anni fa funziona bene, perché ci ho messo dentro quelle che sono le cose che mi appartengono. Trasporto nel mio lavoro le sensazioni percepite quando mi inoltro nei boschi o lungo il fiume. Probabilmente se abitassi in una grande città queste cose non le coglierei.
Ho iniziato abbastanza tardi, avevo oltre quaranta anni, in un piccolo territorio, dove ancora oggi vivo. La non accettazione, l’affermazione avvenuta con difficoltà, mi ha permesso di continuare a mantenere un atteggiamento onesto e molto libero, non condizionato da nulla.
In qualche modo sono io il primo spettatore di me stesso e voglio continuare a mantenere questo desiderio di essere il primo a ricercare e stupirsi delle tematiche trattate. Il non perdersi, il non assecondare il mercato o il gusto dominante, dà la possibilità di continuare a fantasticare, immaginare le emozioni che si vogliono vivere attraverso il proprio lavoro.
Da sempre giochi con l’ambiguità dell’immagine fotografica, accentuata negli ultimi anni dall’uso della post produzione digitale affiancata all’analogico. Cosa ti affascina di questi due strumenti?
Sono entrambi eccezionali. L’analogico presuppone tanta dedizione, non ti dà un margine di elaborazione se non quello della camera oscura, dove si fa fatica fisica di acidi, lavaggio delle carte, di intervento sulle luci con mascherature. Penso che tornerò all’analogico, chiudersi al buio è sempre un momento affascinante.
Mi sono avvicinato al digitale nel 2009 con la serie Mutabiles nymphae. Da allora la post produzione mi ha offerto nuove possibilità di realizzazione, senza costringere la forza immaginativa della visione. L’unico difetto che trovo nel digitale è la delicatezza dei pigmenti sulla stampa che hanno bisogno di una cura molto diversa dall’analogico.
È possibile rintracciare una sensibilità “nordica” nel tuo lavoro? Questo tipo di immaginario influenza la tua visione?
In un certo senso sì perché i nordici sono molto attenti, lavorano sulla natura e sul paesaggio. D’altro canto la zona dove abito, al confine della Slovenia, mi trasmette un forte retaggio mitteleuropeo, un certo tipo di visione, un uso di un nero denso di ascendenza pittorica che rimanda alle profondità del nostro inconscio. Rintraccio il mio atteggiamento nel lavoro più a Oriente che a Occidente; Nord-Est in pratica. Trovo maggiori affinità con i lavori di fotografi di Praga o Vienna piuttosto di Milano o Parigi. Abbiamo qualcosa di storico che ci passa ancora nelle vene.
Roberto Kusterle: antologica
a cura di Libero Musetti e Claudio Composti
in collaborazione con mc2gallery e Galleria Barbara Paci
26 marzo – 1 giugno 2014
Palazzo Panichi
Via del Marzocco ang. Piazza Duomo, Pietrasanta (LU)
Orari: da mercoledì a venerdì 16.00-19.30
Sabato-domenica dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00
Info: www.comune.pietrasanta.lu.it
www.mc2gallery.it
Altro evento in corso:
Roberto Kusterle. I segni della metembiosi
a cura di Stefano Chiarandini, Alice Collavin e Laura Marchesan
5 aprile – 1 giugno 2014
Galleria Regionale d’Arte Contemporanea “Luigi Spazzapan”, Gradisca d’Isonzo (Gorizia)
12 aprile – 1 giugno 2014
Museo Civico del Territorio – Palazzo Locatelli, Cormòns (Gorizia)